21/02/19

Ivy Compton Burnett, Padroni e maestri (1992)



Nei libri della Compton Burnett ci sono personaggi che leggono e talvolta che scrivono, ma raramente i dialoghi si soffermano a lungo sulla lettura e sulla scrittura come in Padroni e maestri, il suo primo vero romanzo, pubblicato nel 1925 a quarantun anni. La vicenda è ambientata in una scuola privata fondata da Nicholas Herrick, un critico che ne garantisce il prestigio con la propria fama ma ne lascia la conduzione a collaboratori e dipendenti scadenti o addirittura non qualificati. Giunto a settant'anni col cruccio inconfessato di non aver mai scritto niente di creativo, Nicholas annuncia, dopo una una notte passata a vegliare la salma di un collega, di aver finalmente portato a termine un romanzo. A questa notizia rivela di aver ripreso a scrivere anche il suo amico Richard Bumpus, che già ne aveva scritto uno da giovane ma che lo aveva fatto deporre nella bara di un amico senza pubblicarlo. Due morti e, legati a loro, due libri comparsi d'improvviso, come dal nulla.
Anche Miss Ivy in gioventù aveva scritto e pubblicato con un certo successo Dolores (1911), un romanzo di stampo vittoriano per struttura e sentimenti. Più tardi lo ripudierà, ma già nel 25 forse lo sente lontano; tra un libro e l'altro 14 anni di letture che la portano a una diversa concezione della letteratura e soprattutto una sequela di drammi personali, tra i quali spicca la morte in guerra del fratello Noel, che alla stesura di Dolores aveva collaborato, e il suicidio di due sorelle alla notizia della 
sua scomparsa. In Padroni e maestri è come se la Compton Burnett si rendesse conto che soltanto questa è la sua vera nascita come autrice, ma che resterà incompleta se prima non avrà fatto i conti col passato. E lo fa subito a modo suo, cioè senza parlarne se non indirettamente: iniziando a scrivere dunque, affronta una volta per tutte il problema della scrittura, in particolare di quella da cui sta prendendo congedo, quasi a sgombrare il campo al mondo dei suoi personaggi, nella cui impersonalità discioglie poi tutti i resti del proprio passato, per deporli con un ultimo omaggio nella tomba del fratello, assieme al libro scritto con lui e che li riassume.

Può quindi cominciare. Vittoriano sarà ancora e sempre il mondo dei personaggi, ma non lo saranno più né la forma dei romanzi né la prosa. Del resto l'ambientazione temporale nella Compton Burnett è spesso uno sfondo vuoto, dal quale la definizione storica emerge semmai come effetto secondario, anche se in Padroni e maestri sono presenti riferimenti alla questione femminile e al dibattito sul voto alle donne e sul divorzio oltre che al sistema educativo, che avvalorano l'affermazione di A. Falzon nella prefazione che, come Lytton Strachey e E.M.Forster, "la Compton Burnett andava vivisezionando dall'interno la mentalità vittoriana". Al lettore odierno invece i suoi libri appaiono proiettati come in un'epoca mitica, perfettamente conclusa in una sua completezza inalterabile, alla quale la patina depositatavi dalla storia prima di eclissarsi fornisce solo la nitidezza indispensabile a evitare i pericoli dell'indistinto.
L'ambientazione spaziale di Padroni e maestri è già quella, tipica della scrittrice inglese, delle cosiddette "istituzioni totali": la famiglia, la canonica e in particolare qui la scuola. Nella loro soffocante chiusura si consumano i rapporti di forza relativi alle differenze generazionali (i rapporti genitori-figli e insegnanti-allievi), di ceto (direttore-dipendenti, ricchezza-lavoro salariato) e di sesso (fratello-sorella, marito-moglie, padre-figlia) che costituiranno i motivi conduttori anche dei romanzi successivi. In questa sua prima prova tuttavia, è come se la Compton Burnett li disponesse tutti sul tappeto per saggiarne le potenzialità, cominciando ad analizzarne alcuni e altri accennandoli soltanto. Lo stesso accade del resto per buona parte dei sedici personaggi (troppi forse in relazione alla misura della narrazione), anche per alcuni non riconducibili allo statuto di figure di contorno. Che il risultato complessivo resti solido e la lettura molto godibile, sta peraltro a indicare che altri erano i problemi che questo romanzo doveva prioritariamente affrontare, e che l'autrice ne è venuta a capo: problemi linguistici e strutturali cioè. Per esempio la scansione della trama mediante un montaggio veloce quasi privo di transizioni e la sua rarefazione, anche se non mancano elementi di sostegno narrativo all'attenzione del lettore, dall'esplicitarsi dei rapporti tra i personaggi al mistero dei libri di Nicholas e Bumpus. Azioni e fatti sono ridotti ai minimi termini di una quotidianità che poco o nulla nobilita o risolti tramite un largo uso dell'analessi nei dialoghi, che assolvono quindi un compito narrativo più che di definizione psicologica. Il lettore si ritrova di conseguenza a dover spesso colmare una fitta rete di vuoti, reticenze e allusioni destinate a non essere chiarite senza il supporto di una caratterizzazione precisa, anche perché il tono dei dialoghi è in generale indecidibile: il tono neutro di una scrittura che, per dirla con Manganelli, ha come fondamento stilistico un "gelo letale", e che in modo neutro va letta, a dispetto dall'apparenza teatrale dei dialoghi. La difficoltà di venire a capo delle vere intenzioni dei personaggi si traduce in quella di formulare un giudizio preciso su molti di loro, tanto più che la scrittrice stessa si guarda bene dal farlo e dal porgere qualche aiuto al lettore, che quindi spesso si ritrova oggetto della famosa perfidia della "signorina" al pari dei suoi personaggi, ricavandone comunque un piacere al quale lo stesso disagio contribuisce. Se infatti i personaggi durante la lettura suscitano sentimenti alterni, a volte persino positivi, l'impressione finale è sempre che la dolce miss Ivy non salvi proprio nessuno, né tra i padroni e maestri né tra i sottomessi o gli amici: meno per loro ambiguità e malizia che per l'inesorabile mediocrità nella quale in fondo tutti si adagiano, pur cullandosi nella convinzione di andarne esenti e di essere fuori dal comune, che è la più banale e comune delle ambizioni. Non a caso alla fine del libro Herrick dice alla sorella: "Non credo di essere mai stato un tipo come gli altri." "No. Certo che no," gli risponde la sorella. "Sarebbe tremendo che tu lo fossi." Appunto.



Ivy Compton Burnett, Padroni e maestri, trad. N. Rosati Bizzotto, 
Ed. La Tartaruga, Milano, p. 122, £ 24.000





                                   

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