Camminare è
l’attività che più di ogni altra accomuna i personaggi di Thomas Bernhard.
Camminare e parlare. Camminare e pensare. Camminare e pensare parlando.
Dialogare mentre si cammina, ma più spesso monologare in presenza di un
ascoltatore, che interloquisce il meno possibile e serve prevalentemente come
spunto per variazioni, raffronti e analogie per ciò che viene detto. I
monologanti sono perlopiù persone isolate, o che hanno fatto terra bruciata attorno
a sé: uomini, sempre, che in genere bramano una solitudine che però li sgomenta
e inorridisce, e che quindi hanno periodicamente bisogno, secondo modi e tempi
che sono loro a decidere, di qualcuno che la interrompa, su cui riversare il
bolo infinito delle loro rimuginazioni in un flusso che non conosce pause e non
chiede il permesso, che essi espettorano per poterlo sentire a loro volta come
da fuori, certificato dalla presenza estranea. Spetterà all’interlocutore/testimone trascrivere “quasi alla lettera”
i monologhi, per la qual cosa non è indispensabile che sia un amico, basta che
sia qualcuno di affine “nello spirito”, o “nella sensibilità” (La partita a carte, p. 20), ovvero un
ospite, come l’italiano nell’omonimo racconto (ora in Al limite boschivo).
Di come le
attività di camminare, parlare, riflettere si manifestano e combinano, nei vari
libri viene esplorata e descritta la completa fenomenologia, ma in nessuno in
modo così approfondito come Camminare,
stranamente solo ora (e meno male!) tradotto da Giovanna Agabio per Adelphi,
che forse non sarà il migliore tra i libri di Bernhard, come da lui sostenuto
con Daniele Benati che racconta di averlo incontrato nell’83, ma è certamente
tra i risultati più alti di tutta la sua produzione (impressione che peraltro
si ha spesso quando si legge qualcosa di nuovo a distanza dall’ultimo libro).
Il passo può essere lento mentre veloce è il pensiero, e viceversa; o può
trasformarsi in breve corsa, con saltelli, soste e riprese accompagnando,
favorendo o interrompendo i pensieri, a volte impedendoli, a seconda dei luoghi
attraversati, con il loro influsso decisivo nella definizione e tonalità di ciò
che viene pensato e/o detto, la loro incombente materialità, o la loro presenza
discreta, invisibile, derivata dall’abitudine a percorrerli e ripercorrerli
senza doversene più preoccupare, con il senso di sicurezza e di sostegno che ne
deriva, tanto che a volte basta una variazione, di accompagnatore o di tragitto,
a scatenare la crisi, o a innescare la miccia da cui parte l’alluvione delle
parole. Alluvione distruttiva come quella che sommerge le terre del principe
Saurau in Perturbamento (ma benefica
come le piene del Nilo per il lettore).
È appunto da una crisi di questo genere che parte Camminare. Un uomo di nome Karrer impazzisce anche in seguito al
suicidio del suo amico Hollensteiner, un chimico, e il suo sodale Oehler, che
passeggiava con lui tutti i mercoledì, si vede costretto, per non impazzire a
sua volta per il cambio di consuetudini, a chiedere di sostituirlo a un altro
amico con cui di solito passeggia invece il lunedì, e durante la passeggiata
gli racconta dell’impazzimento di Karrer e del suicidio di Hollensteiner con il
condimento di tutte le tipiche riflessioni bernhardiane sulla vita, la società,
la filosofia, la verità, la famiglia e via di questo passo.
Il tono delle
sue riflessioni, come avviene sempre nei libri del grande scrittore austriaco, ha
sempre un che di estremo, di duro, paradossale e risentito, che richiama una
prassi oggi talmente diffusa da non essere quasi più percepita e da essere
diventata una vera e propria industria della negazione, come peraltro scriveva
Magris parlando di Bernhard già 40 anni fa. Se però negli ultimi decenni niente
è diventato più facile che denigrare, screditare, insultare, disprezzare e
demolire, allora niente è più difficile che farne stile e metodo in
letteratura; e appunto per questo, che il potenziale di Bernhard sotto tale
aspetto non abbia perso un grammo della sua ferocia dopo tanti anni e tante
riletture, la dice lunga sul suo valore. Allo stesso modo l’insistenza e la ripetizione,
che sono la morte di ogni affermazione e argomentazione, nel grande scrittore
austriaco sono invece la linfa che nutre il discorso. Come mai? Perché nella
sua opera non sono mai semplici ripetizioni e iterazioni. Ogni affermazione e
ogni negazione vengono riprese, rivoltate, sviluppate, sfumate, specificate,
ampliate, relativizzate, e quindi a loro volta sempre negate senza che vi sia
mai un punto fermo, un approdo a qualcosa che possa essere considerato
definitivo e veritiero. Se qualcosa viene estratto da questo flusso, è solo una
citazione, come lo è tutto: “In fondo
tutto ciò che viene detto è citato” (Camminare,
p. 28, sott. di B.). Niente è mai quella cosa lì, quel fatto o quel sentimento,
ma sempre quella cosiddetta cosa, quel cosiddetto pensiero o sentimento (“il
cosiddetto intelletto” e “il cosiddetto sottointelletto”, p. 18 e poi tutto:
scienza, arte, tecnica, malattia, sapere, p. 92-3; ma già: “parlo soltanto tra
virgolette, tutto quello che dico è detto soltanto tra virgolette”, affermava
il principe Saurau in Perturbamento,
p. 169): qualcosa che serve solo a chi effettua l’effrazione e il taglio, cioè qualcosa
che viene usato per altri fini, e quindi mai può consistere in sé, mai essere
vero, mai (cor)rispondere alla realtà e al mondo. Ogni discorso è un discorso
riportato e anche il trascrittore e testimone, oltre a venir modificato nel suo
essere da ciò che ha sentito e che riporta, non ha mai un pensiero suo, un
punto di vista esterno e superiore, ma viene trascinato da ciò che dice, che è
sempre ciò che qualcuno ha detto, e spesso da ciò che qualcuno ha detto che
qualcuno ha detto e così via, ma tutto nella stessa frase, ogni cosa e
affermazione incastrate le une nelle altre, che da sole non sussistono e se
separate si sbriciolano, o acquistano una prosopopea, un’enfasi teatrale che
già ne nega la validità e subito ne mostra l’essenza ridicola, assurda.
Spesso i
monologhi (che potremmo chiamare monologhi in compagnia, o meglio: davanti a
spettatore, quasi si fosse a teatro, come peraltro Bernhard stesso invita a
leggere anche i suoi romanzi) si muovono per un po’ attorno a un nucleo che può
essere un concetto, un’immagine, un evento o una persona, ma presto scartano in
sempre nuove direzioni per poi recuperare qualche filo degli argomenti
affrontati in precedenza in modo da tratteggiare una parvenza di coerenza, un
disegno riconoscibile e della medesima tonalità di fondo, sia pure molto
variata. Se però il lettore riesce per un istante a strapparsi dal ritmo
trascinante del delirio (della prosa), cosa non facile e che si fa
malvolentieri, come una piccola violenza autoinferta, si accorge che quello che
appare come un ragionamento serrato spesso non è che un coacervo di
osservazioni senza capo né coda, o meglio: senza logica, da cui ogni logica è
(dall’autore) scientemente bandita, e anzi denunciata come menzognera,
falsificatrice, con le varie componenti slegate le une dalle altre e tenute
insieme solo dalla bava del ritmo e del tono emotivo dai quali poi ogni lettore
(e lo stesso lettore a ogni rilettura) vede emergere, colpito come da una
ruvidità imprevista o da una sassata, questa o quella espressione o riflessione,
con cui costruisce il proprio libro e disegna ogni volta il suo personale
Bernhard. Si impartisce da solo la propria lezione, di cui si compiace per un
attimo prima di gettarla e passare, sempre nello stesso romanzo magari, ad
altro, a plasmare un’altra storia, un altro autore e un altro lettore, con gli
stessi nomi.
“Se ascolti
attentamente” disse il principe “sentirai che, in ritmi pensati apposta per te,
è sempre la tua storia che ti viene raccontata e che ti danno a intendere” (Perturbamento, p. 199). Nessun
personaggio può quindi essere assunto a portavoce di Bernhard, anche (o
soprattutto) quando porta lo stesso nome e cognome dell’autore e ne condivide
alcuni momenti esistenziali decisivi (come l’asportazione di un tumore ai
polmoni e la degenza in un padiglione ospedaliero in Il nipote di Wittgenstein), ma insieme tutti lo sono, sia pure di
una visione parziale e limitata al contesto e al tenore narrativo: in tutti il
meglio e il peggio di Bernhard sono disseminati senza nemmeno tentare di
assicurargli una parvenza di coerenza, che del resto, a dispetto di ciò che ne
pensano loro, nemmeno i personaggi hanno. Quasi tutti vi ambiscono, quasi tutti
tentano di darsi, o tentano di dare all’interlocutore, un’immagine di sé in
qualche modo solida e stabile, che li identifichi e definisca, ma senza mai
riuscirci, e appunto in questo consiste e si consuma il loro reiterato,
incessante fallimento essenziale.
A definirli è
solo il nome, quando ce l’hanno (per esempio il narratore di Camminare è anonimo), il ruolo o titolo,
la posizione sociale, o la professione (dottore, oste, principe, chimico,
industriale, musicista…), ma loro, di fatto, non sono niente al di fuori dei
loro discorsi, dei gesti o delle consuetudini e manie, e delle aspirazioni
irrisolte e irrealizzabili che scaturiscono (e da cui scaturiscono) dalle loro
ossessioni, riassumibili quasi sempre nella tensione verso una verità per
definizione irraggiungibile, impossibile in quanto falsificata, intrisa di
errore, già negli strumenti, come la lingua, con cui solo è sperabile di
poterla attingere e comunicare. La menzogna (l’errore) è già all’origine. È già quella dell’origine. Lo smantellamento
dell’edificio della menzogna, da quella filosofica a quella famigliare e
sociale (a partire dalla sconsiderata e onerosa perversione di fare figli
invece del più igienico e razionale suicidio, per arrivare alle istituzioni e allo
Stato austriaco, oggetto questa volta di un feroce attacco per la sua ostilità
al sapere e all’innovazione, che si tradurrà nel caso specifico nel suicidio di
Hollensteiner), non può essere pertanto disgiunta da coloro stessi che la stanno
mettendo in atto. Ne consegue che anche costoro non possono accettarsi per come
sono, per quanto proprio in questo conflitto e nella necessità di rilanciare
continuamente la ricerca, nell’intransigenza a non interromperla e nemmeno allentarla,
riescano talvolta a trovare una provvisoria stabilità e identità. Se non che,
subito, sono essi stessi a riconoscerne la natura fasulla e a vanificarle, riprendendo
sempre di nuovo la ricerca non finché trovi l’impossibile compimento, ma finché
non precipitano nella follia o riescono a compiere quel suicidio nella cui
orbita i loro pensieri hanno sempre gravitato. In questa perenne instabilità, e
nel perturbamento che ne deriva, sono coinvolti sia gli
interlocutori/testimoni, sia soprattutto i lettori, che si trovano
destabilizzati nelle loro certezze elementari, essi pure costretti a riconoscerne
la natura fittizia e caricaturale e a trovarvi delle alternative che, ormai lo
sanno, non reggeranno alla prima difficoltà o disanima.
Tutti cercano
(cerchiamo) allora di divertirsi, nel senso pascaliano, ma non ci riescono se
non per breve tempo e in modo incompleto, ciò che non fa che accentuare
l’insoddisfazione e l’angoscia da cui dovevano distogliere. Le ossessioni
potrebbero essere la giusta diversione, la più efficace, totalizzanti come
sono, se non che proprio esse, con la loro tensione spasmodica e intransigente,
sono quelle che con maggior forza e efficacia riconducono al punto da cui, per
eliminarne gli effetti letali, erano dipartite. E tuttavia, “se non avessimo la
capacità di distrarci / egregio signore / dovremmo ammettere / che non esistiamo
assolutamente più / l’esistenza è sempre una distrazione dall’esistenza” (L’ignorante e il folle, p. 34). Sembra
una contraddizione, ma non lo è, perché “tutte le frasi che vengono dette e che
vengono pensate e in generale che esistono, sono al tempo stesso vere e al
tempo stesso false, se si tratta di frasi vere” (Camminare, p. 21).
Con tutto questo, la distrazione resta
un male, e il compito che definisce i personaggi di Bernhard è di rifiutarla e di
dedicarsi al pensiero senza transigere, “fino allo sfinimento”. Se però si
passa al vaglio, con “la necessaria freddezza mentale e acume” ciò che
ascoltiamo, vediamo e facciamo, tutto appare orribile, “qualcosa di meschino e
di vile e di superfluo” e “ogni giorno diventa un inferno... Perché tutto ciò
che viene pensato è superfluo. La natura non ha bisogno del pensiero” (p.
13-14). Camminare,
di questo doppio pensiero, nient’affatto dialettico, pensiero e
contro-pensiero, indaga le varianti, che i suoi
personaggi portano al limite, consapevoli dell’impossibilità di farlo senza
esserne annientati e per questo della necessità di fermarsi un attimo prima di
attingerlo, se non si vuole sprofondare nella follia come Karrer o suicidarsi
come Hollensteiner.
È in questo alternarsi tra opposte
esigenze, in questo ribaltare l’una nell’altra e essere attratti da entrambe
senza poter scegliere che vivono molti personaggi di Bernhard, ed è questo che
ne rende le figure imponenti e insieme ridicole, razionalissime e insieme
folli, folli perché razionalissime, ridicole nella loro imponenza. E, per il
lettore, perturbanti, finché le segue come loro seguono i loro pensieri o manie,
e al contempo rassicuranti nel momento in cui coglie la loro ridicolaggine, che
però non consola davvero, perché in essa si manifesta anche tutta la loro
grandezza e tragicità. Non sono tragiche nonostante
siano ridicole: lo sono nel loro stesso essere ridicole. La comicità dà
sollievo, diverte, ma solo in modo
momentaneo, perché poi, a guardarla bene, proprio in essa appare il tragico,
che invece, isolatamente preso, nella sua pretesa di essere assoluto, sarebbe
solo e davvero, nel peggior senso del termine, ridicolo.
Anche per questo, tra le pagine di Camminare a mio parere più riuscite, ci
sono quelle, mirabolanti, esilaranti e tremende, in cui viene narrato lo
scivolamento inarrestabile di Karrer nella pazzia in un negozio di
abbigliamento, mentre si fa mostrare, come suo solito, tutti i pantaloni
controluce per vedere dove la trama è meno fitta, i suoi “punti radi”,
immancabili del resto (operazione che dovremmo fare anche noi per ogni libro
che leggiamo, a partire da questo), e comincia a discettare della qualità dei
tessuti con osservazioni che si fanno sempre più pesanti e ingiuriose (altro
che “tessuto inglese di primissima qualità”, questa è “merce di scarto
cecoslovacca”!), scandite dal bastone che viene picchiato sul banco, con un martellamento
che è lo stesso delle frasi che vengono ribadite con sempre maggiore insistenza
e del modo di narrare di Oehler che le descrive a Scherrer, lo psichiatra che
egli disprezza e teme, e in seconda battuta all’anonimo narratore che a sua
volta le ribadisce, scandite in modo identico, al lettore.
La deriva della follia è inarrestabile
come quella delle parole e del comportamento di quasi tutti i personaggi di
Bernhard, personaggi radicali, che in nessun caso si accontentano di mezze
misure o di soluzioni non definitive, magari solo per segnare un provvisorio
punto di riferimento da cui poi ripartire. No, solo la perfezione, per loro. E
la perfezione tutta d’un colpo. Compiuta e completa, dall’a alla zeta. Quello
che conta è soltanto il risultato, che deve essere senza sbavature,
inscalfibile, assolutamente ineccepibile. Il percorso, come vuole la pia
vulgata, vale solo per chi lo effettua, con le sue tappe necessarie,
rigorosissime of course, ma in fondo di poco rilievo, disprezzabili, senza
interesse per l’opera, di qualsiasi genere essa sia, né per i suoi destinatari
(il genere umano, praticamente). Questo li condanna tutti al fallimento, di cui
non restano tracce, se non talvolta in abbozzi e appunti che però vengono quasi
sempre immediatamente distrutti dai famigliari; fallimento che è ancora
peggiore tuttavia quando l’opera sembra realizzata (l’edificio a forma di cono
di Correzione; e paradossalmente
anche Glenn Gould in Il soccombente, il
quale, mentre il pianista protagonista soccombe perché non è Glenn Gould, riesce
e insieme fallisce proprio perché Glenn Gould lo è).
Con tutto ciò, è vietato fermarsi,
rinunziare. Nemmeno per chiedersi cosa si sta facendo, a che punto si è, come
procedere. “…non dobbiamo domandare a noi
stessi come camminiamo, perché allora cammineremmo diversamente da come
camminiamo in realtà [… e nemmeno] come pensiamo, perché allora non potremmo
più giudicare come pensiamo, in quanto non sarebbe più il nostro pensare” (p.
107). Cioè non sarebbe più lo stesso pensare del pensiero sul cui “come” ci
interroghiamo. Cioè ancora: non è possibile nessun meta- (metalinguaggio,
metapensiero ecc.), e non lo è soprattutto laddove, e nella misura in cui, in
ogni caso nel linguaggio e nel pensiero un aspetto meta- non solo è possibile
ma addirittura è intrinseco, ineliminabile. Il discorso che nega la possibilità
del metadiscorso è già un metadiscorso. E viceversa il discorso che si pone
come metadiscorso non solo non può esserlo dello stesso discorso di cui si pone
come meta-, ma è già esso stesso, in primo luogo, un discorso senza altre specificazioni.
(Ma Bernhard in fondo non fa altro.)
Lo stesso vale per i concetti e le
pretese di “auto-osservazione” e di “autodescrizione”, e “autocompassione” e
“autoaccusa” ecc. (p. 108). “Noi stessi non ci vediamo, non ci è mai stata data
la possibilità di vedere noi stessi. Ma non possiamo neppure spiegare a un
altro (a un altro oggetto) come è
lui, perché possiamo spiegargli soltanto come
noi lo vediamo, il che probabilmente corrisponde a quello che è, ma che noi
non possiamo spiegare dicendo lui è così”
(ibid.). E allora parliamo come se quello di cui parliamo fosse così, senza
poterlo pensare e tanto meno comunicare a qualcun altro, anche se lo pensiamo insieme, ma proviamo lo stesso a
pensarlo e a dirlo, e a pensarlo e a dirlo “fino in fondo” anche se è
impossibile. Pensare è già pensare fino in fondo, altrimenti è nulla.
Riassumo: possiamo, e anzi dobbiamo,
fare qualsiasi cosa, e farlo in modo assoluto, ma non siamo assolutamente mai
in grado di farlo fino in fondo, e questo ci schianta; e d’altra parte,
soltanto in questa impossibilità, nell’errore che la determina e che diventa
così “l’unico fondamento reale” (p. 58), possiamo vivere, e vivere, schiantati,
in una realtà che è anche fuori di noi. Che non possiamo definire, comunicare e
nemmeno nominare, ma a cui, finché non cadiamo nella pazzia o non rinunciamo
alla vita, continuiamo a pensare e a camminare intorno, avanti e indietro, tutti
i giorni, lentamente o più velocemente, “fino allo sfinimento” (p. 51), nei
luoghi da cui non riusciamo a staccarci o a cui finiamo sempre per ritornare.
“Tutto
è insopportabile e orribile”, dice Oehler; “nulla dovrebbe essere più
importante per noi di esistere costantemente, anche se solo nel, tuttavia al contempo contro il fatto di un’esistenza
insopportabile e orribile” (p. 15-16), e “con tale consapevolezza, l’unica
davvero rivoluzionaria, uccidersi” (17). Eppure, per chi rimane e questi
discorsi li fa, il suicidio di chi è riuscito a compierlo, anziché essere
qualcosa di positivo (secondo logica: se la logica importasse), è un trauma
spesso insuperabile (non certo per i parenti, che semmai provano solo vergogna:
non glielo perdonano, per loro è un’offesa che non si meritavano, una macchia
non lavabile).
E allora si continua a spremere ogni pensiero,
ogni azione o fatto, a rivoltarli in tutte le maniere e direzioni finché
sembrano esauriti, come se solo allora si potesse trovare finalmente un punto
fermo, un qualche equilibrio, un po’ di riposo. Ma esauriti non sono mai, e
infatti accade sempre che all’interno di una procedura su qualcosa anche di
molto diverso, per analogie imprevedibili o salti inspiegabili se non a
posteriori, ritornano e devono essere ripresi da nuove angolature e portati,
assieme, verso il loro apparente esaurimento, che è facile prevedere darà poi
luogo, quasi sempre, a un nuovo esame, con procedure simili, quando un altro
“movimento”, per usare un termine musicale, sembrerà prossimo a chiudersi o si
troverà chiuso in una impasse. Tutto, i ragionamenti e i discorsi come i progetti
e le opere di tutti i personaggi, deve tornare, ma tutto è destinato a restare
inconcluso, perché anche affrontare la domanda più semplice (“Perché mi alzo la
mattina?”, p. 40), cercare di capire una cosa, una persona, o solo una sua
azione o decisione, o comporta “in ogni caso risalire sempre a tutto” (p. 39) e quindi la necessità di diramare
l’indagine fino a coinvolgere ogni aspetto della realtà e del pensiero. A
esaurirlo. Si vuole la verità, ma più la si vuole, perché non si può farne a
meno, perché “pensare in modo assoluto”
(p. 41) è un dovere (“devo considerare
ogni cosa in rapporto con tutte le cose
possibili”, diceva già il principe Saurau in Perturbamento, p. 68), più ci si rende conto di mancarla. “Quello
che è, è ovvio” (p. 40), ma capire come è non si può. Dirlo, ancora meno. E
allora non resta che tornare a parlare. Parlare, pensare, camminare.
Nota di Lettura
Tutti i testi di Bernhard citati sono
editi da Adelphi, tranne La partita a
carte e Correzione (Einaudi, 1983
e 1995) e Al limite boschivo (Guanda,
2012). L’ignorante e il folle è
compreso in Teatro IV (Ubulibri,
1999, in ristampa a breve da Einaudi). Dove compare solo il numero di pagine,
la citazione è da Camminare (Adelphi,
2018). Il riferimento a Claudio Magris è relativo all’articolo “Tenebra e
Geometria”, in Dietro le parole (Garzanti, 1978). L’articolo di Daniele
Benati si può trovare ora qui:
http://www.minimaetmoralia.it/wp/ricordo-di-thomas-bernhard/– 12 dicembre 2011.
Alcuni dei testi di Bernhard sono corredati da belle pre- e postfazioni, tra
cui si segnalano quelle particolarmente pregevoli di Eugenio Bernardi a Teatro IV e a Perturbamento.
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