Naipaul è sempre distaccato,
guarda le cose da molto lontano, da uno spazio e da un tempo diversi, e come se
non avesse per ciò che vede e descrive e narra che un interesse documentario,
per capire con la massima lucidità possibile senza che sia necessaria alcuna specie
di partecipazione. Come se la minima empatia fosse d’intralcio. Mentre invece
questa partecipazione è alla base del suo stesso guardare, ma riguarda solo lui
e non deve pertanto lasciare traccia nelle parole che usa né intorbidire gli
occhi che guardano. Il suo non è uno sguardo disumano, tutt’altro: solo che
l’umanità è stata espunta, e quasi espulsa, revocata, perché nel campo liberato
da questa mutilazione il discorso possa sprigionare tutta la sua potenzialità
di conoscenza, e attraverso di essa, anche di partecipazione, ma solo da parte
del lettore. Non la fascinazione entra in gioco, ma l’ostensione analitica
dettagliata, messa a disposizione del mondo e degli eventi nel loro carattere
meno sovraccarico di soggettività e ideologie, e quindi, se non più puro, più
di impatto, più denso, più contundente. Una fascinazione fredda, se si vuole.
Ipnotica, disincarnata, davanti al manifestarsi della cosa o dell’evento che si
offrono alla comprensione.
Anche quando si concede
apprezzamenti o valutazioni di qualsiasi genere, sono quasi un dato oggettivo, da
cui sarebbe impossibile prescindere, e che comunque non caratterizzano lui come
individuo, ma chiunque: la tenerezza è remota, la benevolenza ha la sordina,
così come pacata è la ferocia riservata a chi se la cerca, a persone e cose che
ambiscono a uno statuto che non gli compete né meritano, alla limitatezza che
si atteggia a grandiosità e la pretende. Allora il suo sguardo è ancora più
gelido, ma anche qui come se esponesse un dato di fatto, non una valutazione
personale bensì l’espressione di un’evidenza, una constatazione più che un
giudizio di valore, senza rimarcarlo in alcun modo, senza indignazione o
sottolineature, sfumature tonali o solo allusioni. Allusioni meno di tutto.
Niente gli è più estraneo infatti di strizzatine d’occhio e di qualsiasi
ricorso alle altre strategie dell’implicito, o presunto tale. Sorprende la
totale assenza di quelli che conviene chiamare con il loro nome: mezzucci, a
cui siamo tutti inclini a ricorrere ogni volta che siamo a corto di altri
argomenti, non tanto perché ce lo si aspetterebbe anche da lui, quanto per la
triste abitudine di trovarne ovunque, a partire da noi stessi. La facilità è il
peggior nemico di chi scrive. Il quale però ne fa uso non di rado, per le sue
virtù consolatorie e rassicuranti. La lucidità quanto a se stesso è il peggior
nemico di chi vive. E quindi!
Come dice di Nehru quando per
la prima volta condivide la vita dei contadini: che “da quel momento non gli
sarà più possibile dare le cose per scontate”, anche lui, Naipaul, non dà mai
niente per scontato. Non per questo si concede però la meraviglia. È ciò che lo
distingue dal viaggiatore standard. Anche dal viaggiatore standard molto
intelligente. È sempre serio. L’ironia non è contemplata nel suo armamentario.
O quantomeno non è esibita. Nasce dalle cose, senza un’intenzione. Quando
arriva e viene colta (perché, trascinati dalla lettura e dal tenore generale
del discorso, è facile non avvedersene e scambiarla per un’affermazione come le
altre) è però mortale. Lapidaria. Nel senso di una lapide tombale. O della
lapidazione.
Il suo atteggiamento è il
contrario del postmodernismo, senza con questo essere rivolto all’indietro come
tutti quelli che fanno come se niente fosse (tra cui, anche come se il postmodernismo
non fosse stato). E certo questo è il portato della doppia, o tripla fonte del
suo scrivere: da una popolazione minoritaria e emarginata di un paese coloniale
(doppiamente emarginata dunque: ma con un inespresso quanto incrollabile senso
di superiorità dovuto alle lontane radici, con la sprezzatura di chi si è
accomodato a sopravvivere in un luogo e tra gente in qualche modo disdicevole,
se non proprio disonorevole: triplicemente esclusa quindi) e insieme da una
piena assunzione della cultura dominante (dei suoi strumenti ecc.), senza
nostalgie o rivendicazioni facili. Anzi, senza rivendicazioni del tutto, in
apparenza, se non ciò che è lecito sperare e cercare di raggiungere senza
abbassarsi. Una posizione di orgoglio infinito, così grande che non è più
nemmeno tale. Non un sentimento, dunque, ma un’infinita distanza. Appunto.
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