19/11/19

Uno sguardo su V. S. Naipaul, preso un paio di settimane prima che morisse – l’11 agosto 2018 (appunti per niente 13)



Naipaul è sempre distaccato, guarda le cose da molto lontano, da uno spazio e da un tempo diversi, e come se non avesse per ciò che vede e descrive e narra che un interesse documentario, per capire con la massima lucidità possibile senza che sia necessaria alcuna specie di partecipazione. Come se la minima empatia fosse d’intralcio. Mentre invece questa partecipazione è alla base del suo stesso guardare, ma riguarda solo lui e non deve pertanto lasciare traccia nelle parole che usa né intorbidire gli occhi che guardano. Il suo non è uno sguardo disumano, tutt’altro: solo che l’umanità è stata espunta, e quasi espulsa, revocata, perché nel campo liberato da questa mutilazione il discorso possa sprigionare tutta la sua potenzialità di conoscenza, e attraverso di essa, anche di partecipazione, ma solo da parte del lettore. Non la fascinazione entra in gioco, ma l’ostensione analitica dettagliata, messa a disposizione del mondo e degli eventi nel loro carattere meno sovraccarico di soggettività e ideologie, e quindi, se non più puro, più di impatto, più denso, più contundente. Una fascinazione fredda, se si vuole. Ipnotica, disincarnata, davanti al manifestarsi della cosa o dell’evento che si offrono alla comprensione.
Anche quando si concede apprezzamenti o valutazioni di qualsiasi genere, sono quasi un dato oggettivo, da cui sarebbe impossibile prescindere, e che comunque non caratterizzano lui come individuo, ma chiunque: la tenerezza è remota, la benevolenza ha la sordina, così come pacata è la ferocia riservata a chi se la cerca, a persone e cose che ambiscono a uno statuto che non gli compete né meritano, alla limitatezza che si atteggia a grandiosità e la pretende. Allora il suo sguardo è ancora più gelido, ma anche qui come se esponesse un dato di fatto, non una valutazione personale bensì l’espressione di un’evidenza, una constatazione più che un giudizio di valore, senza rimarcarlo in alcun modo, senza indignazione o sottolineature, sfumature tonali o solo allusioni. Allusioni meno di tutto. Niente gli è più estraneo infatti di strizzatine d’occhio e di qualsiasi ricorso alle altre strategie dell’implicito, o presunto tale. Sorprende la totale assenza di quelli che conviene chiamare con il loro nome: mezzucci, a cui siamo tutti inclini a ricorrere ogni volta che siamo a corto di altri argomenti, non tanto perché ce lo si aspetterebbe anche da lui, quanto per la triste abitudine di trovarne ovunque, a partire da noi stessi. La facilità è il peggior nemico di chi scrive. Il quale però ne fa uso non di rado, per le sue virtù consolatorie e rassicuranti. La lucidità quanto a se stesso è il peggior nemico di chi vive. E quindi!


Come dice di Nehru quando per la prima volta condivide la vita dei contadini: che “da quel momento non gli sarà più possibile dare le cose per scontate”, anche lui, Naipaul, non dà mai niente per scontato. Non per questo si concede però la meraviglia. È ciò che lo distingue dal viaggiatore standard. Anche dal viaggiatore standard molto intelligente. È sempre serio. L’ironia non è contemplata nel suo armamentario. O quantomeno non è esibita. Nasce dalle cose, senza un’intenzione. Quando arriva e viene colta (perché, trascinati dalla lettura e dal tenore generale del discorso, è facile non avvedersene e scambiarla per un’affermazione come le altre) è però mortale. Lapidaria. Nel senso di una lapide tombale. O della lapidazione.
Il suo atteggiamento è il contrario del postmodernismo, senza con questo essere rivolto all’indietro come tutti quelli che fanno come se niente fosse (tra cui, anche come se il postmodernismo non fosse stato). E certo questo è il portato della doppia, o tripla fonte del suo scrivere: da una popolazione minoritaria e emarginata di un paese coloniale (doppiamente emarginata dunque: ma con un inespresso quanto incrollabile senso di superiorità dovuto alle lontane radici, con la sprezzatura di chi si è accomodato a sopravvivere in un luogo e tra gente in qualche modo disdicevole, se non proprio disonorevole: triplicemente esclusa quindi) e insieme da una piena assunzione della cultura dominante (dei suoi strumenti ecc.), senza nostalgie o rivendicazioni facili. Anzi, senza rivendicazioni del tutto, in apparenza, se non ciò che è lecito sperare e cercare di raggiungere senza abbassarsi. Una posizione di orgoglio infinito, così grande che non è più nemmeno tale. Non un sentimento, dunque, ma un’infinita distanza. Appunto.


Nessun commento:

Posta un commento