Assente
come chi ha declinato per sempre un appuntamento, la sera non accenna ad
arrivare: sembra che la luce si ostini a durare sfilacciata in un crepuscolo
eterno, col sole in equilibrio sul filo delle nubi all'orizzonte che si sono
riservate ogni possibile turbolenza, sovrano e immobile con la consueta dignità
eppure quasi vergognoso per l'incresciosa vicinanza, come ne sia invisibilmente
eroso.
Evaporato
anche il senso dell'attesa, l'uomo senza occhiali fissa istupidito
l'equivocità, più che la stranezza, di quella sospensione, lasciando tuttavia
trasparire di esserne in qualche modo pago. E difatti lo è. Filtrato dal
polsino della camicia, sente il motivetto di proposito anodino che gli segnala
la scadenza del termine massimo preventivato risuonare indefinitamente, chissà
da quanto tempo. Un'altra persona, vicino, lo guarda divertita, non si potrebbe
dire con tenerezza però, senza far nulla per richiamarne l'attenzione, a sua
volta paga di questa immobilità definitiva, dimentica del poco di ansia che
l'aveva trascinata fin lì.
Chiamarlo
non è questione: comincia appena a pensare se sfiorargli la giacca o solo
muoversi con la testa o di un passo, insoddisfatta di ogni alternativa per lo
spostamento che comunque comporta, quando lo raggiunge, con uno squarcio
violento, qualcosa di silenzioso, venuto da lontano, mentre il sole ormai
svuotato di energia crolla clamorosamente di colpo, come dicono che accada ai
tropici o all'equatore, e l'uomo senza occhiali blocca la suoneria, dilatando
in un urlo la nota interrotta, prima di andarsene nel sollievo della sera
recidiva.
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