02/09/21

Roberto Calasso, La rovina di Kasch (13-07-1983)


Roberto Calasso è autore di saggi molto belli e originali, che è augurabile vengano presto raccolti in un volume che ne permetta una più agevole e completa lettura. Finora aveva pubblicato un solo libro, irregolare e impuro come il suo titolo: L’impuro folle (Adelphi, 1974) tanto da dover richiedere l’etichetta spuria per eccellenza di “romanzo” per definirlo, imperniato sulla figura di quel Presidente Schreber le cui Memorie di un malato di nervi (id.) avevano fornito a Freud nel 1910 lo spunto per le sue famose Osservazioni psicoanalitiche su un caso di paranoia. Si trattava di un libro che collazionava teoria racconto versi e storia nella simultaneità di un arazzo affascinante e composito, allusivo e forse troppo prezioso a momenti, tanto da inoculare un senso di disagio cui già la sua estraneità ai parametri abituali del nostro contesto culturale predisponeva: un libro forse per questo non adeguatamente valutato, ma che senza dubbio molti andranno a riprendere con rinnovati strumenti interpretativi dopo la lettura del recente La rovina di Kasch.

Anche La rovina di Kasch è di ardua classificazione, perché è un libro eccessivo, smisurato, animato da un’erudizione e da un’ambizione onnivore, delle quali personalmente mi rallegro, tanti sono i temi che approfondisce, i percorsi che tesse, le storie che racconta e i registri stilistici che inscena con estrema perizia.

E’ un libro perturbante e in un certo senso intimidatorio e pericoloso: affascina ma fa anche paura, c’è il rischio di lasciarsi abbagliare dal cumulo impressionante di aneddoti e curiosità e di trovarsi inerme di fronte alla sapienza e alla varietà delle analisi, collegate sì da più di un filo teorico e dal collante  strutturale ma anche ideologico e pedagogico costituito dalla figura di Talleyrand, ma la cui cifra è tanto abilmente nascosta proprio nella pelle della superficie da poter risultare impercettibile e richiedere quindi un supplemento di attenzione. Proprio come deve essere una buona cornice, “ben educata e disegnata, e neppure tanto visibile”, ma che si rivela poi, “al soffermarsi dell’occhio, un pigmento del quadro stesso”.

Del resto Calasso medesimo invita in questa direzione quando denuncia la “provata insufficienza di ogni discorso che non includa un discorso su se stesso”. Ed è forse questa la strada migliore per affrontare il libro da parte di chi non possieda l’adeguata conoscenza di tutti i campi trattati: filosofia, storia, sociologia, psicanalisi, letteratura, antropologia (e quanti mai saranno?), e d’altra parte si rifiuti a giudizi semplicistici.

L’altra strada, naturalmente, la più immediata e intrigante, ma appunto per questo come dicevo la più pericolosa e non certo la più proficua, è quella di lasciarsi semplicemente andare all’assuefazione delle “parole drogate”. Come i sacerdoti di Kasch, sui quali le meravigliose storie di Far-li-mas agiscono come hascisch, inducendoli a tralasciare le pratiche divinatorie e sacrificali che avrebbero dovuto segnalare il momento della condanna a morte del re e di Far-li-mas stesso, ma condannandoli a morte a loro volta. Perché è vero che “le storie allontanano la morte, ma non la sospendono”. E’ vero anche che “sospendono invece la condanna a morte” e sostituiscono il sacrificio cruento, ma segnano anche l’inizio della rovina del regno di Kasch e dei suoi sudditi-ascoltatori.

Anche il libro di Calasso si propone sin dall’esordio come racconto, finzione: parlo anche, come sempre, per ingannare”, dice per bocca di Talleyrand. Ma ingannare chi? e come? Proprio la morte, e con il racconto. Ha perfettamente ragione Alfredo Giuliani quando parla di la rovina di Kasch come di un libro iniziatico. Il suo oggetto è la storia esoterica della modernità e l’analisi della post-storia contemporanea, ma la morte riaffiora in ognuno dei suoi grandi temi: il sacrificio, la guerra, l’aldilà del principio di piacere, il Terrore. Il racconto diventa “l’offerta sacrificale”, e ora “l’altare è vuoto”, perché “nell’arte parla la voce della vittima sfuggita in extremis, e per sempre, all’uccisione”.

Solo i racconti di Far-li-mas sfuggono infine alla rovina, e i morti continuano a accompagnarci trasmigrati nella pagina scritta: “che cosa sono, per noi, i morti se non – innanzitutto – i libri?”.

Il racconto dunque non solo allontana la morte, ma in un cero senso la sospende anche, diventando la voce dei morti. Ed è appunto qui che esso si coniuga alla storia. “La storia non ha alcuna ragione essenziale per distinguersi dalla letteratura”, sostiene forse anche in questo senso Calasso: “uno smisurato tappeto senza margini (...) dove i fatti e i commenti sui fatti e le invenzioni sui fatti e i fantasmi dei fatti rimangono perpetuamente avvinti in un letto di tortura e di piacere, dove le forme e le forze non riescono a districarsi”, che solo nel racconto riesce a trovare la sua forma di pensiero più consona.

Il racconto cioè come forma nella quale si può “prendere tutto come supporto (involucro figurato) della conoscenza”, e in tutti i modi possibili, dal momento che nostro fondamento è diventato “l’irreversibile perdita di dignità del tutto” e viviamo nella “totale dispersione (e) frammentazione”. la storia diventa così “il graduale costruirsi di una memoria artificiale” e raggiunge l’arte, che secondo adorno è “magia liberata dalla menzogna di essere verità”, collocandosi in tal modo nella parte migliore della modernità, che “è grande quando sottomette una pretesa di verità a critica serrata e di conseguenza rinuncia a porla”, ma diventa assassina, “con inaudita dovizia di mezzi, quando pretende di aver scoperto una sua verità”.

La storia che Calasso intende costruire è allora forse proprio quella “storia gnostica” di cui lamenta la mancanza: una storia fatta di “avvenimenti insoliti, coincidenze (così li chiamano gli storici, per evitarli), forme erratiche, reliquie sepolte, segnature fisiognomiche, costellazioni latenti nel cielo del pensiero”. Una storia insomma in cui tutto acquista una voce per rispondere a ogni altra cosa, e in cui soprattutto “ciò che era stato silenzioso deve essere detto in tutti i particolari, con furia”.

Una storia che raccoglie la sfida di decifrazione di “ciò che rimane ancora da concepire: un processo che ha una sua indubitabile direzione, e questa direzione ha un segno”, diverso da quelli soliti di progresso e caduta, ma che li comprende “agganciati, intrecciati, concresciuti a molti altri segni di non ovvia lettura”.

E certo La rovina di Kasch è una risposta a questa sfida, ramificata in un sistema di corrispondenze lucidissime che porta a illuminare le trame segrete che collegano ogni cosa alle altre per riaprire, contro la “situazione di esoterismo coatto” in cui siamo costretti a vivere, la “via della coscienza degli atti”, Ma non credo che, per Calasso, il libro si risolva in questo. Così come non si risolve nella pur esemplare figura di Talleyrand, l’ultimo cerimoniere, che passa indenne attraverso i rivolgimenti della storia proprio perché si rifiuta di forzarne il corso e si limita a oliarne quando occorre i meccanismi per renderla più sopportabile, aiutando “il caos a prendere una forma passabile”.

Perché la storia, a quanto pare, ha scelto la via opposta a quella di Talleyrand, quella del Terrore, dello scambio universale attraverso il quale “il mercato mondiale reinventa una sorta di fato”, del controllo generalizzato dei servizi segreti che hanno confiscato “tutto il segreto”, del sacrificio ritiratosi in quella che era una sua “potenza derivata: la guerra”, o tramutatosi in esperimento e in tecnica, e ha trasformato il passato in un “paesaggio di rovine, inesauribile contagio”.

Forse, nell’improbabile attesa di nuovi Talleyrand e pur avvalendosi del suo insegnamento, specie quando mostra come ci si fa nulla e si affronta nella finale ordalia la morte, è un’altra figura la cifra criptica di ciò che il libro è per Calasso, oltre che un suo parziale autoritratto: in Sainte-Beuve cioè, la cui arte, peraltro, “appartiene alla metamorfosi, quindi alla mostruosità”, come quella di Talleyrand.

Come Sainte-Beuve, anche Calasso è soprattutto l’uomo dei libri, sottoposto a “una continua tentazione e una tentazione vittoriosa di ‘riprodurre’ l’altro, trasformarsi in lui”, e come Sainte-Beuve anche la sua opera intende essere “una sterminata tessitura di voci, di giudizi, di circostanze, di relazioni, di parole perdute e qui di nuovo catturate”.

Autoritratto parziale, dicevo, perché oltre a riconoscere a Calasso un controllo teorico maggiore, che tende a volte a diventare onnicomprensivo pur parlando per “lembi di pensiero” più che per pensieri e rifiutando “l’abbondanza dei connettivi” consapevole della necessità respiratoria dei vuoti, e quindi a sopraffare la voce del racconto che diventa a sua volta troppo controllato, c’è un’ultima figura nella quale mi pare di riconoscere l’altro, e complementare, versante di Calasso e del suo libro: quella in cui si intrecciano Talleyrand, ancora, ma come saggio taoista, il “rinunciante” vedico, il Fénelon che predica l’annullamento dell’io, e il trappista che medita la morte su cui si chiude il libro. Complementarità che proprio, e solo, in ciò che il libro è, trova il suo luogo di realizzazione.

A meno che non si debba leggere anche in questo l’impossibilità del Moderno di “credere in modo troppo compatto” e la sua necessità di “aderire a una certa falsità, quanto basta per dare respiro all’immaginazione”, e non ci si rifugi nell’inconsapevole credulità dell’ironia. Ma non lo credo. E non lo crede nemmeno Calasso: la passione che ha prodotto il suo libro sta lì a dimostrarlo.


Roberto Calasso, La rovina di Kasch, Adelphi, Milano, 1983, p. 494, £ 20.000

 


 

 

 



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