Racconti, libri, mostre, divagazioni, recensioni, speculazioni varie
23/05/22
06/05/22
Tanti primi amori
Di un autore famoso alcuni preferiscono il libro A; altri B, mentre C è amato dai patiti di Kafka (che però preferiva B). Io prediligo, ma è una predilezione tardiva perché l’ho letto molti anni dopo i primi tre, e dopo molti altri libri di racconti e poesia, D. In genere, se l’autore è buono e il lettore appassionato quanto un po’ smemorato, si preferiscono gli ultimi libri letti; dei cattivi si preferisce in genere il primo, quando era una scoperta, cosa che ha conferito freschezza e novità che si tendono vagamente a conservare anche quando tutto svanisce nelle nebbie della lontananza, e niente più si ricorda se non l’emozione del primo incontro, idealizzato, come un primo amore, ciò che difatti è. In letteratura, per fortuna, i primi amori sono tanti. Anche da vecchi decrepiti può capitare, senza per questo cadere nel ridicolo. E’ una cosa onorevole, anzi. Tanto che quando capita, uno si inorgoglisce. Pensa te!, si dice da solo. E sorride. E’ una buona indulgenza. Non una debolezza. La testa fa la cresta. Contenta. Bene!
05/05/22
Una prosa tranquilla
Sembra una
prosa tranquilla, distaccata, governata sapientemente, con ironia, sovrana, nel
mentre viene ad essere svolgendosi come un nastro sotto gli occhi sorpresi, e
persino meravigliati, di colui che scrive e si guarda lasciandosi scrivere
quasi che la scrittura sia autonoma, indipendente da lui, come sempre in gran
parte è; e invece è percorsa, la prosa dico, da una sottile, invisibile quanto
intensa, inquietudine, da incertezze quasi mai palesate, da sussulti e scarti
in ogni direzione, ma tutti e sempre orizzontali, mai verticali. E’ un continuo
susseguirsi, un trapasso, un dimenticare l’appena scritto o un negarlo, non
esplicitamente, ma tramite la semplice successione, la banale contiguità e
alterità di ogni nuova frase, delle parole che una dopo l’altra vengono a
disporsi sul foglio, che si affacciano alla mente o mettono in moto, senza
poterla arrestare, la voce.
Sappiamo tutti che è così sempre, quando si scrive davvero, quando non ci si
limita, o ci si illude di limitarsi, a “comunicare” o a esporre il già pensato,
l’acquisito, il consolidato (ma anche lì, poi…), salvo alla fine cercare di
dare una specie di logica, di costruire – come per difesa contro l’informe,
contro il formicolio frenetico dell’incertezza, lo sgretolarsi inarrestabile di
ogni stabilità –, un’armatura di coerenza, di disegnare un filo, imbastire una
forma, con rattoppi e rammendi a posteriori, spostamenti, montaggi, tagli e
riempitivi, come se il vuoto potesse essere colmato da noi stessi, mentre chi
può farlo, semmai, è solo un altro, chi legge, e anche lui solo per un po’, con
tutte le incertezze del caso, nel timore di sfumare egli stesso, e di svanire.
Come se questa non fosse la cosa migliore che può capitare.
(Quella che cerca chi scrive, del resto. E che, mentre scrive e finché scrive, a volte trova.)