È
l’intervallo. Un ragazzo sta salendo al nostro piano con un amico non
si sa se per far passare il tempo e sgranchirsi le gambe, o per
incontrare qualcuno o per la parata di routine che consenta nel
frattempo una veloce ricognizione della fauna locale. Più probabile la
prima ipotesi: i due chiacchierano senza indirizzare lo sguardo da
nessuna parte precisa. All’ultimo gradino però, forse distratto dal
brusco ondeggiare di un capannello di ragazze nel corridoio, inciampa e perde
per un attimo l’equilibrio, ma di pochissimo, tanto che nemmeno l’amico
se ne accorge. Ritrova immediatamente la stabilità e fa un passo con
disinvoltura, senza sforzi, come se l’inciampo non fosse mai avvenuto
nemmeno per lui. E forse è davvero così; ma appena compiuto il passo, le
sue gambe, da sole, abbozzano un paio di saltelli imprevisti di pura
agilità, che subito, senza soluzione di continuità, passano di nuovo a
un’andatura regolare che lo porta via così com’era arrivato. Resta, poco
sopra il gradino, come una minuscola cavità nell’aria, che gira
lentamente su se stessa, sorpresa della propria nascita ma delusa che
nessuno sia venuto a congratularsene con lei. È ancora lì. Ogni tanto,
quando passo, le faccio un rapido cenno di saluto. Lei capisce.
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