I
Sua madre amava la musica. Lui amava sua madre.
Dunque amava la musica. Ma sua madre non lo amava. E dunque nemmeno la musica
lo amava. O forse era lui a non sentirsi amato dalla madre, e dunque a non
sentirsi amato dalla musica. O almeno non quanto le amava lui. La madre lo
fuggiva, gli sfuggiva, e lui, non sentendosi amato, quanto più tentava di
dimostrare il suo amore tanto meno ci riusciva. Allora, non riuscendo a
dimostrarlo, se lo teneva dentro.
Se almeno la musica lo avesse amato, forse con essa
sarebbe riuscito almeno a dire alla madre il suo amore, ma nemmeno essa si
lasciava afferrare. Per afferrarla avrebbe dovuto metterle addosso le mani con
forza, ma non osando farlo, e non essendo quindi in grado di far sì che la
musica scaturisse da lui, si è ridotto a mangiarla. Pensava così di diventare
musica lui stesso; invece quello che gli usciva erano solo brandelli, brandelli
del corpo della musica (frammenti del corpo della madre). Ormai fuori di lui, i
brandelli li poteva afferrare, ma come resti che ingombravano le mani. Allora è
diventato scultore.
Anche della madre gli restavano solo frammenti,
immagini che ingombravano gli occhi, fotografie che alludevano a storie che a
lui non dicevano niente. Allora ha preso le foto e le ha fatte a pezzi. Ha ridotto
in brandelli l’immagine che non corrispondeva al corpo, il corpo che non si
adattava all’immagine che lui ne aveva e alle storie che su di esso aveva
costruito. Poi ha ricomposto i brandelli in un nuovo corpo che scaturisse dalle
storie.
Così ha creato il corpo della madre, è stato più del
padre che ne ha solo goduto: è stato il padre della madre. E allora dagli
spazi tra i brandelli, dalle parti
mancanti, è scaturito un ritmo: nel vuoto ha trovato spazio la musica.
Ma è una musica che appena sorta svanisce, che si
sottrae e che sottraendosi richiede altri vuoti per lasciarsi percepire. Alcuni
si muovono ai margine e guardano dentro, vedendo ben poco; molti distolgono gli
occhi e con orecchie appuntite cercano altre musiche che possano medicarli turandole
fino all’orlo. E se qualcuno si decide a buttarsi, insegue lo svanire traendo
quel che manca da sé, una musica sua, o almeno l’eco di un’eco, come un ricordo
di cui si sente solo che è svanito: il compagno acustico dell’invisibile. Che però non è mai quello che aveva fatto
scaturire lui. Ma chi può dirlo? E anche se talvolta sembra che gli assomigli,
nessuno, ancora, può dirlo.
Per questo lui è spesso arrabbiato, scontento di
tutto e di tutti. Pretende che anche gli altri odano l’inudibile che ha sentito
lui, e insiste. E, da sé, pretende di riuscire a farlo sentire. Pretesa
insensata, che tuttavia è la sua forza, la più grande risorsa. A volte ci
mettiamo in ascolto e dagli intervalli scaturisce uno sguardo e nessuna parola.
II
Naturalmente invece non amava suo padre, il quale
del resto non ci faceva caso: aveva ben altro a cui pensare. Suo padre era
distratto (distratto anche dalla madre). Questa distrazione tuttavia, lungi dal
fargli piacere, lo disturbava. E questo è naturale: i padri disturbano
comunque. Col tempo si ridusse a odiarlo. A volte aveva vergogna di questo
odio, a causa della sua banalità. Allora faceva finta di niente. Così finì per
assomigliargli.
Qualche incauto glielo faceva notare, a volte.
Allora lui lo cancellava dalla sua vita. Alcuni ne furono contenti. Raramente
lui se ne dispiaceva e cercava di recuperarli, più tardi, ma con pochi ci
riusciva veramente. Quando non ci riusciva era contento lui. Qualsiasi
compromesso era di troppo. Era orgoglioso di questa intransigenza, e
indubbiamente questa è una dote. Questa
dote lui la chiamava: rigore. Faceva bene ad esserne orgoglioso: non molti ne
sono capaci (io per esempio ne sono del tutto sprovvisto).
Non così avvenne con suo padre. Continuarono a lungo
a vedersi, anche dopo che il lavoro lo ebbe portato lontano. Visite periodiche,
disinteressate ma cordiali, qualche lettera (in realtà diretta alla madre) e
poche brevi telefonate. In fondo era suo padre. Quando morì, lui era
all’estero. Un vero peccato. Fu tuttavia raggiunto da un inspiegabile dolore,
senza dubbio effetto della lontananza. Questo ricordo lo accompagnò a lungo, e
ogni tanto ritorna ancora, con rinnovato sgomento. Non è tanto il dolore ad
essere inspiegabile, quanto l’inspiegabilità che è dolorosa. Circola invisibile
nella sua minuta esistenza e si insedia gigantesca in quello che fa. A volte se
ne accorge anche lui e si ribella. Ma questa ribellione lo disturba. Solo i
deboli si ribellano. Allora, per cancellarla, dà una forma alla sua ribellione.
È comunque un materiale che c’è, dice, e sarebbe da stupidi fingere che non ci
sia. Tanto vale servirsene per fare altro, allora. I resti non si eliminano.

Il mondo è pieno di resti; a volte pensa addirittura che il mondo non sia fatto che di
resti, ma poi respinge il pensiero: è troppo facile, e quello che vale per
tutto non dice niente su alcunché. Il mondo è pieno di resti, ma si tratta di
vedere di chi e di cosa lo sono. Alcuni sono ciarlieri, si nominano e
esibiscono in modo sfacciato una storia che pretendono propria; a lui invece
interessano quelli meno individuati, resti generici che si depongono in
silenzio un po’ ovunque e che vorrebbero sparire ogni volta che qualcuno li
nota. Resti che disturbano senza dire una parola e che per questo a volte
qualcuno raccoglie, sottraendoli alla vista con altri compagni nei depositi del
falso invisibile. Lui allora li raduna sperando di mostrare l’invisibile che
essi nascondono come facendogli scudo e di far udire il sommesso brusio cui fa scudo il loro numeroso
silenzio, non come l’eco di una parola che si è persa, ma come una soglia
davanti alla quale indugia quella che ancora non ha trovato una voce. Come la
voce di un padre che deve ancora venire.
