Il 3 marzo è caduto il trentesimo anniversario della morte di Georges Perec e la ricorrenza è stata accompagnata da varie iniziative editoriali. Tra le ultime iniziative vanno segnalate la raccolta di interviste En dialogue avec l'époque, già edite, ma scelte in modo da seguire il percorso di riflessione e commento sulla propria opera e sui rapporti con la cultura del tempo da parte di Perec man mano che i suoi libri venivano pubblicati, rimasto per molto tempo piuttosto ai margini della cultura ufficiale nonostante il premio Renaudot ottenuto dal primo, Le cose (1965), e il numero doppio 993-994 di Europe, gennaio-febbraio 2012, che presenta numerosi testi che offrono un panorama sullo stato della lettura delle opere prese singolarmente e nel loro complesso, e sul loro dialogo con la cultura recente: la gran parte nuovi (tra gli altri, di M. Sheringham, C. Burgelin, P. Furlan, , M. Decout e M. Benabou), più alcuni già noti come l'importante saggio di Gabriel Josipovici su La vita istruzioni per l'uso e la postfazione di Celati alla recente ritraduzione italiana di Un uomo che dorme (Quodlibet, 2009).
Molti pensano che l'Oulipo e i giochi linguistici e altro abbiano distolto Perec dalla narrazione: di fatto sono stati per lui un modo di recuperarla, di narrare senza falsa spontaneità, con la delineazione di perimetri di regole personalmente scelte e assunte, che poi avrebbero segnato gli ostacoli da affrontare e oltre i quali lasciare che l'opera andasse: confini in apparenza rigidi e in realtà porosi, da attraversare verso altri territori ecc. Molti vi vedono un gioco in odio alla narrazione, un surrogato al poco o niente da dire, un eccesso di intellettualismo e una forma di aridità, l'ennesima picconata degli anni 60-70 alla distruzione del romanzo: io credo che non sia così, anche se il rischio c'è (e quando c'è è difficile evitare di caderci una volta o l'altra); è più probabile invece che non si debba cercare la chiave di un enigma, o (più modestamente) di un rebus, ma ciò che si apre davanti a noi una volta risolto il primo enigma o rebus, e che esso spesso serve solo a nascondere (come spesso è inapparente, a sua volta nascosto esso stesso), come un altro gioco. Giustamente Claude Burgelin (Europe, p. 21) accenna alla «economia molto specifica del "mostrare" e del "nascondere" che caratterizza tutta la sua [di P.] opera».
E' un gioco con la finzione e con il falso che percorre tutta la sua opera. E un falsario non a caso è il protagonista di Le condottière, che tra tutte le pubblicazioni recenti e senza dubbio la più interessante per il lettore che ama Perec oltre che per il critico che indaga le sorgenti della sua opera.
e poi Nota 16, p. 32 di Europe sul fatto che, come le parole crociate, il trompe l'oeil ecc. resta enigmatico «fino a che non si è operato quel minuscolo slittamento di senso che lo risolve nella sua evidenza imparabile»
«Tutta la letteratura è, in un certo modo, come un romanzo poliziesco», scrive Perec, un gioco dove al piacere di nascondere e nascondersi si aggiunge quello di far trovare e di farsi scoprire.
L'attitudine sperimentale che caratterizza tutta l'opera di Perec è sempre all'insegna della massima leggibilità: il programma esplicito di non ripetersi mai non è un vezzo, e nemmeno (come alcuni hanno invece interpretato, seguendone poi questa o quella traccia) un modo di mostrare quasi didatticamente quanto e in quanti modi e forme si poteva scrivere senza cadere in qualche presunta naturalezza del narrare da una parte (come se il fatto che gli uomini hanno sempre raccontato bastasse a garantire la naturalezza dei modi di raccontare), mettendone anzi in evidenza i presupposti impliciti della tradizione (in particolare quella ottocentesca), cioè i vincoli che condizionano senza che se ne renda conto chi pensa di poter narrare come l'usignolo canta, l'ape fa il miele e l'asino raglia; e dall'altra rifiutando il silenzio della "fine del romanzo" o l'informe , l'illeggibile e le provocazioni dell'avanguardia (non si sentiva "a suo agio" con "Tel quel" o con "Change"); questo proprio quando, negli anni 60 e primi 70 queste sembravano le uniche due percorribili, o quantomeno percorse dalla maggior parte: i sentieri che si davano meglio a vedere e a pensare, perché poi in giro c'era già gente che camminava, e benissimo, per altre geografie e tracciava percorsi che sarebbero stati molto seguiti negli anni a venire (Bernhard, De Lillo, Pynchon, sudamericani, e anche vecchi come Gombrowicz...)
E tutto questo senza farne una questione di stile, o di marca personale, per darsi coerenza o riconoscibilità (o vendibilità: come un brand), ma usando ogni volta una forma e una scrittura diversa, sfruttandone ogni volta le specifiche risorse, anche se spesso tendendo al grado zero di un tono neutro e apparentemente solo referenziale o enumeratorio, attento solo ai luoghi e alle cose (senza per forza fare del narratore un puro voyeur né sposare il nouveau roman), e in realtà brulicante di riferimenti, citazioni, invenzioni e memorie, anche dolorose.
Ha ribadito (perché sembra ce ne sia sempre bisogno) che non esiste scrittura spontanea, diretta e naturale, adeguata alle cose semplicemente perché le cose ci sono; che, come diceva Queneau «siamo sempre sottoposti a qualche regola, solo che non la conosciamo», e allora, con l'Oulipo, tanto vale, a volte esplicitarla, moltiplicarla, fare regola del ricorso alle regole, darsi dei vincoli che non derivano più da generi e tradizione ma che non si vuole far credere che non esistano (anche se, dati per vincoli espliciti o consapevolmente celati dall'autore stesso, ne restano sempre altri di cui si resta inconsapevoli, e non tanto perché appartengono al nostro inconscio, quanto perché sono quelli della scrittura stessa, inclusa quella che si sta mettendo in atto, e inclusi quelli che l'uso consapevole dei vincoli messi in atto fa scaturire, e quelli della deriva immensa della tradizione, che certo non si limita alle regole o alle gabbie che autori e studiosi hanno ormai in gran parte messe a nudo, ma sempre in parte vi sfugge e quelle delle infinite singole attuazioni concrete del discorso scritto e orale e delle infinite potenzialità che sempre restano aperte e che anzi ogni nuova attuazione inaugura).
Checché ne dicano i fedeli del culto Georges Perec, i risultati qui valgono meno del gesto. La nominazione non è mai sufficiente: una volta nominate, le cose viste perdono valore in quanto cose e restano solo le parole; cioè quanto del loro senso le parole contengono e trasmettono a chi le riceve e assume. L'elenco non ha il senso dell'accumulo dell'esistente, delle cose che sono o sono state lì, ma quello delle parole che lo compongono nei loro differenti rapporti, a partire dalla loro successione temporale passando per quella fonica, ritmica, semantica, enciclopedica ecc. (Sì: dire ecc., quando serve, a dispetto del divieto perecchiano).
Né penso che abbiano senso principalmente come "effetto di reale": c'è anche il piacere della filastrocca, il nonsense nell'enumerazione caotica, dei cortocircuiti di senso e sonori...
Forse Perec sapeva che si scrive sempre e solo la stessa storia, e allora l'ha declinata e mascherata e diffranta e disseminata e occultata e variata e affrontata in mille luoghi e modi, forse per venirne a capo, sperando di trovare il modo definitivo e accorgendosi che non c'è, e che allora vanno esperiti tutti quelli possibili, traendo consolazione e gioia da essi.
Attenzione che va ben oltre la narrativa e anzi la comprende in qualcosa di più vasto che potrebbe essere individuato in una specifica, ma onnicomprensiva, forma dell'attenzione; o meglio: dell'attenzione come forma, che quindi travalica non solo i generi, ma anche i giudizi, e in primo luogo il pre-giudizio estetico, e si estende a tutto, sogno incluso, e che è insieme attenzione a colui che sta attento: autoriflessione inflessibile.
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