02/01/16

Su Franco Arminio - Due recensioni e alcuni appunti sparsi



Franco Arminio. Abbozzo di ritratto.

È difficile fare un ritratto di Franco Arminio. Servirebbe che stesse fermo almeno un attimo, che si limitasse a fare una cosa, o due, non di più. Ma per fermarlo bisognerebbe legarlo. Anche a scattargli un'istantanea verrebbe solo una scia: di un atto o di un gesto, più che un'incerta silhouette della figura; la traccia di una sfaccettatura più che di una faccia. Ma proprio questo potrebbe essere un tratto che lo caratterizza. Invece della descrizione di come è, a definirlo meglio è allora l'insieme di ciò che fa, con i suoi effetti: cosa che negli ultimi decenni agli scrittori capita sempre meno, e con sempre minore incisività. Normale, con i mutamenti della società e delle forme di comunicazione, spiegano gli esegeti più autorevoli. Ciò non toglie che a molti, incluso il sottoscritto, questo non piaccia. Senza nostalgia; per l'oggi e per il domani. Armino, mi pare, è uno che la pensa così: e si comporta di conseguenza.
Comportarsi con coerenza, qui, significa agire nei campi di competenza in modo che l'effetto dell'azione non si fermi ad essi. E se già non ci sono, quei campi, inventarli. Per esempio, per Arminio, il campo di partenza era scrivere, obbedire all'impulso che lo portava a scrivere, sempre e di tutto; ma la geografia al suo interno non lo soddisfaceva, e allora ha inventato insieme un metodo e un territorio. Il territorio di quel metodo: la paesologia. E l'ha applicata al proprio di territorio, ai suoi paesi, e a Bisaccia in primis.
Quando ho letto qualcosa di suo per la prima volta, nel 2000, in preparazione di un numero di "Nuova prosa" dedicato ai Luoghi, questo campo non era ancora ben definito e i suoi testi, che sarebbero poi confluiti in Viaggio nel cratere (Sironi, 2003), per non sbagliare li ho inseriti nella sezione Narrazioni. Tanto lì ci sta tutto. Lo conoscevano in pochi, allora, ma già ne aveva compreso il valore Gianni Celati, che lo aveva precocemente incluso in Narratori delle riserve (Feltrinelli, 1992).
Sembra che il territorio della paesologia sia ristretto, ma quando è nuovo il metodo, c'è tutto un mondo da scoprire all'interno del mondo stesso che si conosce: e questo finisce per dire molto anche sul resto, del mondo. Una piccola rivoluzione epistemologica, se si vuole. Microscopica? Forse. Ma rivoluzione. Non a caso, in poco tempo, molti hanno preso a seguirlo, bene o male, su questa via: è uno squarcio. Un'altra visione. Altra aria.
Il modo d'approccio cambia l'oggetto; parlare dei paesi non è nuovo: lo è parlarne mettendosi dentro in tutto e per tutto e lasciandosi di conseguenza permeare fin nel profondo, accettandone di rimando tutte le sollecitazioni per ricavare proprio da lì l'istanza interpretativa. Nel cratere. Da poeta. Ma anche da antropologo: che persegue un'antropologia delle viscere, però. E che allora non può evitare di schierarsi, di farsi anche gesto politico, che si articola sul fuori e vi trova senso (uno dei sensi). Un gesto doppio, ma con nessuna componente subordinata all'altra: dentro il campo della scrittura e come azione politica, senza un prima e un poi, senza un sopra e un sotto per finalità e valore.
La circoscrizione del territorio in questo è fondamentale, la sua definizione ristretta, che costringe alla concretezza, al confronto effettivo con i luoghi e le persone. Senza generalizzazioni (il che non significa senza passibilità di astrazione). Il luogo è quello che mi appartiene e a cui appartengo. È il mio nella misura in cui io sono suo. Ma al di fuori di qualsivoglia pretesa di possesso: senza che niente sia mio e viceversa che io sia di qualcosa.
L'ipocondria, che viene dalle viscere e vi torna, è la forza di questo rapporto ma anche ciò che gli sfugge da ogni lato e sotto varie forme impedendo che sia esclusivo e irrigidito. Volteggia, ruota, gioca e rischia, come in un circo: e Circo dell'ipocondria titola infatti un altro dei suoi libri più importanti (Le lettere, 2006, con il dvd La terra dei paesi: uno dei suoi numerosi documentari, un'altra delle forme che prende la sua attività).
Arminio viaggia nel cratere, e per questo non si tiene mai dentro di sé, non ci sta proprio, e esplode nelle forme più varie (tutte, meno quella del romanzo, che oggi sembra diventato un obbligo: un altro dei suoi meriti, e non dei minori), a volte rutilanti appunto come in un circo, altre cupe come nell'ipocondria da manuale. Che peraltro è ciclotimica, come si sa. E pure ossessiva, nel suo caso (ma amabile, secondo la mia esperienza).
Arminio è uno dei pochissimi che l'ossessione ce l'hanno davvero; senza alcun bisogno di esibirla quindi. L'ossessione della scrittura dico: già anni fa mi diceva (e ci credo alla lettera) che aveva venti o trenta sacchi neri della spazzatura pieni di suoi scritti. Preferisco non immaginare adesso. Poi però il difficile è scegliere. C'è da dire che nel frattempo l'attenzione per la sua opera e la sua figura si sono moltiplicati, come i suoi film e libri, e quindi il lavoro di ripulitura e di scelta dovrebbe aver favorito un rallentamento dell'attività, che anche dal punto di vista sociale (incontri, interventi sul territorio, promozione di azioni collettive...) non ha avuto pause. Ma non ci credo poi tanto. Non fatico a pensarlo, come nelle oleografie romantiche (quelle sulle quali solo l'invidia induce a sorridere), che si alza ancora di notte o al mattino prestissimo, o si ferma per strada, si spegne il motore o la telecamera, siede da qualche parte e scrive e scrive: poesie, ricordi, descrizioni, brevi storie, articoli, appelli, denunce, dialoghi, confessioni. E niente di superfluo o di decorativo; tutto, a modo suo, necessario (per questo non mi viene da sorridere, nemmeno di tenerezza).
E non importa quanto i suoi testi possano essere discontinui (e a volte lo sono: come non può evitare chi è onnivoro e compulsivo): in ogni cosa che scrive o fa, lui passa, – c'è. C'è tutto, con la sua carne e quella della sua e nostra terra (Terracarne, appena uscito da Mondadori è il suo ultimo titolo). E c'è per noi. Ci riguarda come riguarda lui. E noi sentiamo questa afferenza: questo affetto e questa folata. Questo vento, forte come quello dell'Irpinia d'Oriente.


Geografia commossa dell'Italia interna

Per Franco Arminio, il fondatore della paesologia, il paesaggio non esiste. Non è mai, cioè, un’immagine, uno spazio di contemplazione, o, per quanto l’attenzione alle sue peculiarità sia un requisito importante, qualcosa da descrivere, ma un ambiente di esperienza, che per essere tale passa per l’emozione. È il luogo del fare. Ma siccome per lui nessun fare prescinde da un investimento passionale, diventa immediatamente un luogo appassionato. Il luogo delle passioni. Se non si danno queste condizioni, è la l’accidia, quando non la catatonia. Anche se esse prendono il sopravvento e invadono la scena, peraltro. Come sa chiunque abbia qualche grano di ipocondria in sé.
Molte cose che lo scrittore irpino non si stanca di dire e di declinare sembrano risapute, riconducibili a questo o quell’aspetto della tradizione: cambia solo il nome, il linguaggio che le dice. Ma poiché molti di questi nomi e delle loro combinazioni sono nuovi, lo è anche la realtà che ci mostrano e rappresentano: perché come si sa la parola nuova dice o inventa qualcosa che prima non c’era, o che attendeva di venire ad essere. È lo spazio di emergenza della realtà: un suo effetto e insieme una sua condizione. E la condizione della sua conoscenza.
Arminio è anticartesiano, la razionalità astratta, oltre che sbagliata, e quindi eticamente errata, è per lui inconcepibile. Per lui la poesia è conoscenza, nel senso che non ci può essere conoscenza che non sia poetica. Cioè: non è che la poesia contenga conoscenza, questo lo sanno tutti, o quasi: è proprio che senza poesia, per lui non si dà vera conoscenza. Nessun pensiero senza emozione, fosse pure quella della freddezza e del distacco. Il suo presuppone soprattutto la vicinanza, e anzi direi l'adesione e l'immedesimazione; meglio: l'interiorità, l'essere dentro qualcosa che ti sta dentro.
Per questo lo scrittore, quasi una rockstar inquieta, incline a ripiegarsi in sé e a separarsi, ma generosa e pronta a rispondere a chi lo chiama, si muove sempre, è in tour perenne, come il “Never Ending” di Bob Dylan: va di qua e di là, incontra, parla, ascolta, guarda, interroga, risponde, fotografa, filma e poi, sfiancato, agitato e turbato, si ferma e scrive. E scrive e scrive e non può più fermarsi di scrivere. L'interruzione è una pausa: un respiro e un lungo sospiro, la ricerca dell'aria quando l'angoscia la fa mancare, per poi subito ripartire
La sua è una scrittura ininterrotta di pezzi interrotti: poesie, testi brevi fino all'aforisma e mai più lunghi a qualche pagina, che però cercano sempre, trovandoli spesso (le eccezioni sono quelle in cui talvolta inciampa l’inclinazione verso l’aforisma, la frase a effetto), i modi di connettersi, le forme dello stare insieme. E ci stanno perché, prima di tutto, stanno già insieme in Arminio. E ci stanno insieme perché, tutte, hanno la stessa scaturigine: l'impulso a vivere, la lotta affannata che solo l'ipocondriaco che si figura la morte, e la patisce, ogni momento, trova la forza di sostenere, per sé e per gli altri. Per gli altri perché per sé, e viceversa: perché lo stare insieme nel modo migliore è ciò che lui cerca sempre nel suo vagare.
È questa dimensione che gli impedisce di cadere nella paralisi del melanconico classico e lo distoglie dalla tentazione sempre incombente della chiusura su se stesso e del solipsismo. Parlando sempre di sé, Arminio parla sempre degli altri e agli altri: li sollecita e li cerca, indaga lo spazio dell'incontro e della dispersione, lo mostra agli altri e se lo fa mostrare, muove verso di loro e li fa muovere. Com-muovere, appunto. Questa dimensione esterna, nel senso anche di sociale, è andata crescendo negli anni, come il suo impegno diretto nella vita del suo territorio e di quelli circostanti. Le discariche, Taranto, i paesi devastati e quelli abbandonati, ma a volte anche salvati proprio in virtù dell'abbandono; le delusioni ma anche i presupposti per una politica diversa; la disgregazione dei legami sociali e la sopravvivenza dei peggiori tra quelli tradizionali, ma anche la presenza di figure di riferimento, vecchie (Manlio Rossi-Doria, Scotellaro) e nuove (per esempio Franco Farinelli).
C'è già tutto nel titolo. Geografia: scrittura della terra e sulla terra, oltre la paesologia; commossa: come devono essere la scrittura e il racconto e la conoscenza e in generale il rapporto con la terra; dell'Italia: della nostra nazione proprio nelle zone con cui talvolta viene meno identificata ma dove invece spesso è più se stessa, dove il suo passato persiste e la devastazione del presente è più intensa, ma anche là dove è possibile intravedere alternative di crescita più vivibili, modelli di vita più sereni, e a volta persino felici (perché questa è l'esigenza prima, non lo sviluppo); dell'Italia interna: quella dell'Irpinia d'Oriente certo, ma poi della Lucania, della Calabria, delle Marche e della Puglia, cioè della dorsale appenninica, lo scheletro della penisola, il cuore del Mediterraneo; interna: di Arminio ho già detto; interno al lettore, subito dalle prime righe.

Franco Arminio, Geografia commossa dell'Italia interna, ed. Bruno Mondadori, 2013, p. 131, 14.




Appunti sparsi
Per Arminio il paesaggio non esiste. Non è (quasi) mai, cioè, un’immagine, uno spazio di contemplazione, ma un ambiente di esperienza, che per essere tale passa per l’emozione. È il luogo del fare. Ma siccome per lui nessun fare prescinde da un investimento passionale, diventa immediatamente un luogo appassionato. Il luogo delle passioni. Se non si danno queste condizioni, è la paralisi. Come sa chiunque abbia qualche grano di ipocondria in sé.
Molte cose che dice sembrano risapute, riconducibili a questo o quell’aspetto della tradizione: cambia solo il nome, il linguaggio che le dice. Ma e poiché molti di questi nomi e delle loro combina nazioni sono nuovi, lo è anche la realtà che Arminio ci mostra e rappresenta: perché come si sa la parola nuova dice o inventa qualcosa che prima non c’era, o che attendeva di venire ad essere. È lo spazio di emergenza della realtà: un suo effetto e insieme una sua condizione.

Usa parole che quando si avvicinano a me si bloccano impietrite, e poi arretrano, tenendomi d’occhio, per voltarsi appena a distanza di sicurezza e darsela a gambe, o viceversa per prendere la rincorsa per sfrecciarmi accanto a tutta velocità fingendo di non avermi nemmeno visto. E se qualche volta, per sbadataggine, si avvicinano troppo e restano impigliate in qualche frase, se non voglio districarle e respingerle con somma vergogna, mi trovo costretto a costruire, attorno a ciascuna, un piccolo mondo, una casa provvisoria ma dignitosa, una strada lungo la quale perdersi, confondersi con la folla delle altre parole, mimetizzarsi, per smorzarle le arie da vecchia nobildonna decaduta, stracciona ma sempre altezzosa. Altrimenti mi trovo costretto a tenerle la testa sott’acqua, come per annegarla, nella speranza che, lasciata emergere all’ultimo momento, respiri, nasca.

Lui invece scrive come se niente fosse sulle cose cosiddette essenziali: la vita, la morte, la società, la terra, il suolo e il pianeta. In maniera diretta, semplice, con parole forti e chiare, chiamando le cose, i sentimenti e le paure con il loro nome proprio, senza tanti giri o moine, come se fosse possibile. E sì, lo è.
(Ma come lo è? Come si fa a capirlo, a esserne sicuri? Come non distinguere da tutte le occorrenze fasulle, incrinate, maleodoranti? È quando le parole hanno lo stesso tono e ti arrivano dalla stessa direzione a dispetto di tutti i cambi di ritmo e le soste e le deviazioni. Quando non fai caso alle ripetizioni e alle occasionali cadute o approssimazioni o stereotipi o accenni di predicozzi che di solito ti fanno imbestialire non appena si profilano all’orizzonte, mentre qui al massimo suscitano un’indulgenza che sei felice di esercitare, dallo stesso loro piano, senza l’implicito senso si superiorità che l’indulgenza comporta, perché proviene dalla stessa fonte che quelle parole hanno fatto scaturire e che tu, fino al momento prima, ignoravi di avere proprio lì, nemmeno tanto in profondità, appena sotto la superficie anzi, tanto che è bastato un niente, un colpo d’unghia, ed ecco che sgorga. Fresca, profumata come una consolazione, tonica, a darti una spinta, a farti forza, coraggio.

Ma soprattutto è questione dell’atteggiamento di chi parla, del suo esporsi senza schermi, nemmeno quello dell’ingenuità, in tutte le sue parole, anche quando noia, angoscia o altro lo indurrebbero a ritrarsi; e anche quando si ritrae davvero, ma poi si scopre che quello che rode e minaccia e fa male è sempre lì, visibile, senza nemmeno bisogno di esercitare la minima pressione per uscire, senza nemmeno bisogno di cambiare faccia.

Si vede che scrivere bene è l’ultima cosa che gli interessa. E forse è per questo che ci riesce quasi sempre. (Perché comunque gli interessa il linguaggio: la sua forza e efficacia; la sua intensità.)

Ultima sezione.
Il discorso tiene quando ha un minimo sviluppo: non si dice un’argomentazione compiuta, coerente e approfondita; basta che l’osservazione, la descrizione, la passione e il patimento, e la scheggia di ragionamento che ne deriva, vadano assieme, portati dallo stesso respiro. Quando ciascuna di esse se ne sta isolata è come se ambisse a una solidità che non possiede, al granito della verità, mentre invece, quando va bene, sono un lampo lirico, e quando va male, più spesso, un’ombra di lirica, o una battuta. Tutte cose che vanno bene ogni tanto, durante un incontro pubblico, una lezione, una presentazione. In un libro teso, come lo sono spesso quelli di Arminio, sono al massimo gradevole zavorra.
Negli aforismi c’è la formula che cattura il lettore e aiuta il recensore, il parlare facile, grazie anche alla croce rossa della citazione a effetto, che però non aiuta la comprensione. Anzi, la ostacola, perché è respiro a singhiozzo, ritmo interrotto, da cui il corpo è sparito mentre la mente spesso non ci è ancora arrivata.


 a Reggio Emilia, con Marco Belpoliti (Foto mia, come quella all'inizio)

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