Strano destino quello di Witold
Gombrowicz, che nonostante sia considerato il più grande scrittore polacco del
900 e uno dei maggiori in assoluto da parte di vari estimatori in tutto il mondo,
uno su tutti Milan Kundera, non è mai riuscito a conquistare nel canone e
presso il pubblico il posto che gli compete. Certo la sua fama ne avrebbe
guadagnato se avesse vinto il premio Nobel che gli sembrava destinato nel 1969,
se non fosse morto due mesi prima dell’assegnazione (al suo posto lo vinse
Beckett, un altro grandissimo); ma non ha favorito il suo approdo presso il grande pubblico nemmeno
il fatto che la sua opera, paradossale e divertentissima per molti aspetti,
abbia anche una forte componente intellettuale e sperimentale, per quanto
lontana dagli estremismi delle avanguardie e di notevole, mai banale però,
leggibilità.
Forse per
questo il numero dei suoi estimatori non è mai stato adeguato al suo valore e
non si è mai creato quel culto che ha dotato altri scrittori di proprie chiese
e riti (da Proust a Joyce a Kafka). Anzi, proprio le caratteristiche della sua
opera hanno impedito che queste si formassero, per l’estremo individualismo che
la caratterizza. Se mai ci sono sette di gombrowicziani,
possono essere solo non ufficiali, sette autocreate uninominali e isolazioniste,
come quella di cui mi vedo solitario e orgoglioso membro fin dalla mia
adolescenza, quando mi è capitato di leggere Cosmo da poco tradotto.
Oggi a questa piccola
costellazione di amanti unici, che purtroppo in Italia non corre molti rischi
di ampliarsi essendo quasi tutti i libri del grande polacco da tempo fuori
catalogo, viene offerta l’occasione di rallegrarsi. Le edizioni del Saggiatore,
che avevano già ristampato l’anno scorso proprio Cosmo (a cura, come quasi sempre, del nostro primissimus inter
pares, Francesco M. Cataluccio), hanno la temerarietà di proporre nella
traduzione di Irene Salvatori Kronos, il diario intimo di cui si
conosceva l’esistenza, ma che la moglie Rita Labrosse ha giustamente tenuto
segreto per più di quarant’anni e dato alle stampe in edizione originale solo
nel 2013 (si veda il testo di Cataluccio scritto su doppiozero
a suo tempo).
Si tratta di una
serie di annotazioni senza commenti, scritte a partire dalla fine del 1952, in
concomitanza con l’inizio del Diario
che poi Gombrowicz avrebbe pubblicato mensilmente fino alla morte sulla rivista
dell’emigrazione polacca “Kultura” e che molti (ma non il sottoscritto, che
pure lo ama molto) considerano il suo capolavoro, in cui ricostruisce a
posteriori la propria vita da quando, diciottenne, nel 1922, conseguì la
maturità, in modo sinteticissimo dapprima, e poi più dettagliatamente man mano
che si avvicinava al presente, della loro redazione. Niente di più, anche se il
libro è arricchito da una bella introduzione di Rita Gombrowicz, che ne racconta
la storia fino alla pubblicazione, e dalla curatela e da un saggio di
Cataluccio.
Per questo, a
parte gli adepti, che sono sempre un po’ feticisti, poveri innamorati a cui a
volte basta una cartolina, un bacio da lungi, a prima vista il volume sembra
essere esclusivamente destinato agli studiosi, che potranno aggiungere una data
o un dettaglio, di sicuro decisivo, a qualche loro interpretazione, rimpolpare
un intervento magari un po’ troppo astratto e striminzito, o prendere spunto
per qualche succosa, elegante divagazione; mentre la portinaia che è in noi
potrà curiosare nei ripostigli, aggiornare la partita doppia dei litigi e delle
riappacificazioni, la fenomenologia degli accoppiamenti e delle varie insalate
di contorno, che ha sempre i suoi fan, nonché aggiungere qualche grettezza a
quelle già note fino a disegnare un bel ritratto di spocchioso antipatico più
minuzioso di quello che già conosciamo, iperrealista, con tutti i brufoli e i
peluzzi del naso e delle orecchie, i denti che cadono, le piaghe e gli eczemi
che Gombrowicz stesso non tralascia di enumerare, con i relativi tentativi di
rimedio, effetti secondari di malattie veneree, sifilide inclusa, senza
dimenticare qualche sfumatura patetica (come la povertà, gli stenti, l’odiato
lavoro in banca, l’ostilità di certi ambienti) che umanizzano, certo, e rendono
il genio snob e arrogante più meschino e quindi compassionevole: un banale
poveraccio come noi che lo adoriamo.
A questi consiglio
la lettura. A coloro invece per cui miserie e paradossi sono la normalità, di
cui servirsi e ridere semmai, e non la pietra dello scandalo, e che sanno come
valutare la mitologia che della propria figura il grande scrittore ha sempre
tenuto a edificare, dico invece che possono tranquillamente farne a meno. O al
massimo di dare un’occhiata giusto per aggiungere qualche mattoncino al proprio
altarino interiore, se ne hanno uno, e poi dimenticarsene. Tanto lo so che il
gombrowicziano di stretta osservanza (cioè uno che il bastian contrario lo fa
sempre, non foss’altro che per elementare igiene mentale) non mi ascolterà e
farà non ciò che suggerisco, ma ciò che ho fatto io stesso con la scusa di
questa recensione. (Apposta lo sconsiglio…)
Perché poi, a leggerlo con calma e
attenzione minuziosa, cercando, meglio se con il periodo corrispondente del Diario sott’occhio, di spremere informazioni
e collegamenti con romanzi e teatro, oltre che implicazioni con ciò che d’altro
si sa di una vita che non si è mai voluta disgiunta dall’opera, tanto da
prendere spesso il sopravvento, sia invadendola, sia, in certi periodi,
addirittura escludendola (“La predominanza dell’elemento erotico mi
paralizza la letteratura”) beh, allora c’è molto da trovare
e provare a integrare. A partire dai dati
relativi alla nascita e scrittura delle varie opere, nonché delle traduzioni
(soprattutto quella avventurosa e collettiva di Ferdydurke in un bar di Buenos Aires, in collaborazione con amici
che sapevano il polacco ancora meno di quanto Gombrowicz conoscesse lo
spagnolo), della loro ricezione e diffusione – e della sistematica strenua difesa
che l’autore ne faceva rispondendo a
ogni critica e al contempo ampliando quell’autocommento di cui l’ha sempre e in
ogni modo fatta oggetto, sospettosissimo di ogni incomprensione e travisamento,
nella volontà, cioè nell’ansia, di tenere tutto sotto controllo, esattamente
come i dati minuti della vita mediante il regesto di Kronos.
Per giungere a
questo bisogna però dare peso a ogni parola, non correre da una all’altra come
quando si legge una storia, rispettare la punteggiatura che le separa conferendo
a ciascuna la sua autonomia, tirare fili, costruire scale e passarelle, scavare
canali, aiutandosi con le 1315 note, di cui poco o nulla potrebbe importare ma che
io mi sono letto diligentemente, a volte stizzito con me stesso, dalla prima
all’ultima per poterle meglio trascurare poi con la coscienza sgravata dal peso
dell’inammissibile omissione. Anche se tutte quelle sfilze di nomi e
informazioni, per chi conosce Una giovinezza
in Polonia e Testamento,
finiscono per arricchire la piccola mappa della vita di Gombrowicz e della
cultura polacca, in patria e nell’emigrazione nella prima metà del 900 e oltre,
che quei libri, assieme ai due che la moglie ha dedicato alla vita del marito
in Argentina e in Europa, gli avevano permesso di abbozzare.
Kronos, per quanto ellittico e allusivo
a fatti e persone a volte parlanti solo per l’autore, viene a configurarsi così
non come l’altro diario, bensì come quello vero, che però andrebbe letto
tenendo conto di quello pubblico. Ma si può leggere anche da solo, come tutto
del resto, sia pure con un po’ di fatica e frustrazione, che male non fa.
Quello che ne esce è un Gombrowicz in parte diverso dall’immagine che lui
stesso non ha cessato di edificare e rifinire nei suoi testi e nella sua vita
pubblica, persino quella dei bar che ha sempre frequentato e di cui aveva
bisogno come palcoscenico, luogo di scandalo e scontro e seduzione fin dagli
anni polacchi e ancor di più in Argentina, con una certa preferenza, di notte,
per quelli “equivoci” tanto da incorrere una volta in una retata della polizia
che lo indusse a rallentare la frenesia erotica da cui era stato preso (“Ma è
come se fossi sotto un incantesimo”), con uno
stuolo di amici e ammiratori che non si perdevano nessuna delle sue esibizioni
e provocazioni (e illuminazioni), non di rado pronti a compiacerlo, ma con cui
sapeva essere anche disinteressatamente generoso, finché la sua stessa povertà,
che in certi periodi lo ha portato a dormire per terra nella stanza di un amico
e a rubare il cibo del cane della padrona di casa, glielo consentiva. Soprattutto
giovani, soprattutto in Argentina, dove Gombrowicz approdò in occasione del
viaggio inaugurale di una linea transoceanica polacca e dove decise di rimanere
per un po’ perché nel frattempo i nazisti avevano invaso la Polonia: breve
permanenza che si protrasse, spesso tra stenti ma vieppiù con entusiasmo per 24
anni perché l’Argentina finì per incarnare per lui l’immaturità e la giovinezza
senza storia (“24 anni di liberazione dalla storia”, li definirà: un dono inestimabile
per uno che si definiva “un polacco esasperato dalla storia”), che aveva sempre
idolatrato e indagato nei suoi libri come una delle colonne portanti della
modernità, tanto che quando poi tornerà in Europa, nel 1963, sarà come andare
incontro alla morte (“Sono andato via da Buenos Aires per morire…”).
Non bisogna
pensare però che questa immagine intima ci mostri un Witold “sincero”, diretto,
meno costruito o in contraddizione con quella che lui voleva “ufficiale”,
perché anche qui Gombrowicz non aderisce mai completamente a se stesso, si
sorveglia, si osserva con distacco, non perde di vista lo stile e la forma, che
è sempre stata il suo bersaglio, in quanto irrigidimento e imposizione sociale,
e insieme il suo imperativo, in quanto ordine da istituire a costo di forzare i
segni per creare il proprio cosmo,
sempre individuale, personale. “Io” infatti (quello del famoso incipit del Diario: “Lunedì. Io /Martedì. Io. /
Mercoledì. Io…”) è ciò che più gli preme, ma è anche, sempre, ciò che più vuole
conoscere e indagare, perché da lì parte e lì ritorna ogni discorso che per lui
abbia un senso e possa poi affrontare tutto il resto: quel resto di cui infatti
le mille pagine del Diario parleranno
e racconteranno.
L’obiettivo di questa puntigliosità
memoriale è in primo luogo (credo) quella di strappare il passato alla
precarietà che già, più che minacciare, costituisce il presente, il senso di
incompiutezza in cui da una parte, come ogni uomo in virtù della sua natura
neotenica, egli si dibatte e che dall’altra erige a condizione ideale per la
fluidità e l’impermanenza e quindi la perenne potenzialità che la caratterizza
(la giovinezza, l’immaturità).
La contabilità dei pochi averi, che si
fa più puntigliosa man mano che questi aumentano, quando lentamente esce dalla
miseria; i guadagni e le spese; il bilancio materiale e esistenziale di fine
anno; gli acquisti e i regali, le vacanze e gli incontri…
Kronos
non è quindi solo un magazzino da cui all’occorrenza ripescare ricordi, spunti,
cose da rielaborare: più ancora è la cassaforte in cui blindare tutti i
dettagli della vita in una stenografia del caduco, che è poi la sostanza dei
giorni, la cella segreta in cui preservare ciò che nell’altro diario,
nonostante il programma conclamato fin dal suo celebre inizio con il suo
martellante “Io”, non compare: quella parte della sua vita di cui erano
intessute le sue preoccupazioni e ossessioni quotidiane e di cui, a dispetto di
ogni pretesa di sincerità, di ogni rifiuto dell’ipocrisia e denuncia delle
reticenze e provocazioni dei moralismi, ecc., non poteva (non voleva), o non
riteneva che fosse il caso di parlare, e che nell’altro apparivano in un certo
senso tradite, proprio perché trasfigurate, diventate in qualche modo
“concetto”, oggetto di riflessioni di valenza più generale, rischiando così di
perdere quella che era la loro sostanza, ciò che fa che per Gombrowicz la letteratura
abbia il sopravvento sulla filosofia, che pure amava tanto da tenere lezioni su
richiesta di amici ancora negli ultimi anni (vedi il Corso di filosofia in sei ore e un quarto), cioè il particolare, o
meglio: l’individuale, cosa fatto o persona che sia.
Per questo
l’insistenza su molte cose che potrebbero sembrare minuzie va considerata come
essenziale, da ciò che concerne i bisogni primari per la sopravvivenza agli
acquisti voluttuari (pipe e giradischi, la televisione a metà anni ’60), dalla
salute al sesso. Tenere presso di sé questa parte, tenerci come se non più di
ogni altra cosa (tanto il resto dell’opera è pubblicata): forse è la percezione
di questo mancanza, che viene sentita come una mancanza a sé, che rende Kronos tanto prezioso per il suo autore.
È una lacuna, un vuoto, che con
l’avanzare degli anni si fa sempre più lancinante e che è quindi sempre più
urgente colmare (come dimostra anche la redazione tarda di Testamento e di Una giovinezza
in Polonia), ma che non può essere colmato fino in fondo perché di molto è consigliabile
non parlare, se non per accenni (vita bohémienne, ecc.). Nel Diario non si parla delle puttane, delle
ragazze e dei ragazzi, giovani e anche adolescenti, della bisessualità e
promiscuità; non si entra nel dettaglio delle malattie a volte scabrose, dei
sintomi e della routine delle cure, che sono invece presenti in Kronos, sia pure per accenni o semplici
nomi, ma prepotenti,
proprio perché non fatti oggetto di tematizzazione diretta.
Non c’è infatti
una sola osservazione o riflessione un po’ sviluppata, al massimo qualche
annotazione veloce o riassunti (stato male; anno pesante, ecc.). La sintassi è
nominale, fatta di aggettivi o sostantivi da soli o in brevi serie. È l’apoteosi
del sostantivo, delle cose e delle relazioni (nomi propri). Il verbo compare
raramente. Rarissime le subordinate, mai più che di primo grado. Solo la
stretta contabilità del vissuto: elenchi, sassolini, briciole di mollica che
chissà mai se serviranno. Intanto però si gettano, e gettandole qualcosa si
ferma e si fissa, e, per chi scrive, viene evocato, trascinando con sé altri
ricordi, che a loro volta possono dar luogo ad altre annotazioni puntuali, così
come a memorie e racconti che confluiranno altrove, mentre per chi legge sono
solo domande. Domande con risposte insoddisfacenti e quindi innescano
l’immaginazione, il bisogno di una qualche forma. Non si sfugge.
Così per
il lettore pian piano si disegna una trama, una storia che starà a lui
sviluppare o meno nel suo decorso verso il finale noto. Nella scansione quasi
ipnotica dei dati riguardanti la salute, appare più accentuata, inesorabile, col
passare del tempo (Kronos), la decadenza dell’unica cosa che conta, il corpo, e
il precipitare verso la morte. Commenti, zero. Qualche rara esclamazione, negli
ultimi anni, dopo il ritorno in Europa, che accentua ancora di più la
desolazione, l’inermità di fronte a ciò che accade, al destino. Il 1968 si
chiude con una parola sola: Kismet, “destino”
in turco, lingua che pochi conoscono: come per mascherarla, per pudore di scrivere
una parola troppo abusata, troppo carica di storia e di retorica. Pudore che
sembra strano in uno che fa della provocazione e della denuncia della retorica
e della menzogna il proprio metodo e vanto. Ma è proprio questo, la vergogna così
tipica dei provinciali, specie di quelli che si vorrebbero sprovincializzare,
che in fondo si prova soprattutto per coloro che si disprezza, per le loro
limitazioni e grossolanità, per l’uso disinvolto che fanno dei cliché e delle
parole e dei concetti con la maiuscola, a ribaltarsi in aggressività e a dar
luogo a posture a volte ciniche e snobistiche. Il conflitto che innesca tutto è
però sempre quello con se stesso, che è l’unica soglia da cui si può passare
per affrontare il conflitto con il mondo, esasperato e provocatorio ma indispensabile
per arrivare all’unica cosa che gli importa, l’umano in tutti i suoi aspetti.
Per
scrivere, e forse per vivere, Gombrowicz ha sempre bisogno di un bersaglio. Ciò
che vuole abbattere è ciò che lo tiene in piedi. Per questo non cessa di
cercarne di nuovi, o, quando non ne trova, di tornare da punti di vista nuovi sui
vecchi per affermare la propria differenza. Il cavallo di battaglia su cui
galoppa è quello stesso che cerca di abbattere. Quando si scaglia polemicamente
contro questo o quello, e contro idee e pregiudizi e approssimazioni, non
sempre può piacere; allora, anche se non è così ingenuo da disconoscere il
rischio di agire come coloro che attacca, che quindi si affretta a denunciare
per primo quando gli fa gioco (ma è sempre un atteggiamento difensivo, a ben
vedere…), il suo passo si fa a volte più pesante, e pedante: perde quella
leggerezza che anche nelle punte più estreme dei suoi racconti e lavori teatrali
non viene mai a mancare. Finisce per fare la predica anche lui. D’altra parte è
giusto che ci sia pesantezza qua e là, un po’ di zavorra, perché altrimenti, a
furia di leggerezza, si finisce per alzarsi da terra, e salire, salire,
evaporare.
Invece di lasciare che si depositi
nella carne, e nelle parole, e che torni semmai per conto proprio, o a comando
in certi rari casi, secondo modalità e tempi quasi mai previsti, qualcuno
decide, dal flusso di atti e discorsi e pensieri e emozioni e eventi che costituiscono
la sua vita, di estrarne alcuni a caldo e di depositarli in forma di parole e
altri segni su un supporto adeguato. Perché? Per fare che? Per riflettere, per
impedire che svanisca o come promemoria per il futuro lontano, o a servizio di
quello prossimo. Per fare il punto, fissare e cercare di imprimere una forma al
proprio passato già mentre si sceglie cosa omettere e cosa presentare e come; e
che forma dare all’esperienza, anche modificando, di poco o tanto, i fatti e la
loro memoria, e che consistenza attribuirle. Decide che cosa fare oggetto
dell’esperienza nel momento stesso in cui comincia a costruirla riflettendoci
sopra e scrivendone; e che immagine offrire di sé, agendo in tal modo, per
l’immediato e il remoto, per il se stesso che si diventerà (che si spera di
diventare, o si vuole, o si immagina di diventare magari proprio scrivendo) e
per gli altri. Gli altri che leggeranno il diario, per i quali anche è scritto,
fossero pure gli altri sé delle varie eventuali riletture, – anche a
dispetto di qualsiasi intenzione più o meno sincera di segretezza, di pura
autoreferenzialità e della compagine di nobili intenzioni collaterali.
Kronos
è il tentativo di (trat)tenere presso di sé il concentrato di tutta la propria vita attraverso
l’elenco il più dettagliato possibile dei singoli incontri mondani, culturali e
erotici, dei luoghi, dei minuti eventi. Come Proust, che viene più volte nominato
e che sappiamo essere stato da Gombrowicz insieme ammirato e ridimensionato
(sminuito). Come spiegare altrimenti la raccomandazione alla moglie di salvare
per prima cosa il faldone che lo conteneva (assieme a quello dei contratti),
“in caso di incendio”?
Lì dentro c’era la sua vita più
intima, singolare, materiale, quotidiana, la vera e l’unica. E proprio quella
era importante salvare: desiderio patetico di chi sente ogni momento la propria
vita minacciata di perdita (di senso, anche), di cadere nell’oblio, nel nulla
che la erode ogni istante. Il pensiero della morte non è mai lontano; dopo il
ritorno in Europa, e a Berlino, diventa incombente. A volte affiora persino il
pensiero del suicidio (ma senza mai procurarsi i mezzi con cui pensa di
metterlo in atto), come in questo passaggio del 1964: “(Morte.) (Morte.)
Stranamente mi sto abituando al pensiero del suicidio.” E “Dio,
Dio mio, non sono mai stato così male, così senza alcuna speranza!”
Poi, nel “bilancio dello stesso 1964: “bisogna lavorare sulla morte – cosa
sarà? E quanto dura? Un tumore?”.
Musica di fondo cupa, che però non
gli impedisce, nemmeno nei momenti peggiori, di accompagnarla con un
controcanto comico e paradossale, come in questo appunto del novembre del 1968,
uno degli ultimi e forse quello dove si trovano le frasi con la sintassi più
distesa del diario, non a caso di impianto narrativo: “Il 18
di mattina presto, forse alle 8, corro in bagno e paf, la faccio di fuori e
imbratto tutti i pantaloni, comincio a pulire. Sento dolore nella parte
sinistra del petto, siedo alla scrivania, mi riposo, quando passa il male vado
di nuovo a pulire e allora sento un forte dolore e cado sul letto. Chiamo Rita,
grido.”
“Berg”!
Nota
di lettura
“Berg” è la
parola senza senso attorno cui ruota il finale di Cosmo.
Molti dei libri
di Gombrowicz sono di difficile reperimento in libreria, ma quasi tutti sono
reperibili online, alcuni anche con buoni sconti.
Kronos, trad. it. di Irene
Salvatori, Il Saggiatore, p. 386, €. 32
esce oggi 24 maggio. L’edizione di Cosmo
più recente è quella del Saggiatore dell’anno scorso (trad. it. Vera Verdiani,
p. 236, € 24,00). Copie di Ferdydurke
e Transatlantico, Pornografia e dei
racconti Bacacay in edizione
economica Feltrinelli si possono trovare anche in qualche libreria, mentre i
due importantissimi volumi dei Diari,
Testamento e Una giovinezza in Polonia, sempre editi da Feltrinelli, sono
reperibili solo online, così come Il
corso di filosofia in sei ore e un quarto, edito da SE. Lo stesso dicasi dell’importante
numero di Riga (Marcos y Marcos, 1994), mentre delle opere teatrali Il matrimonio; Ywona, principessa di
Borgogna; Operetta, si è praticamente perso traccia, come pure di Gli indemoniati, ed. Bompiani. Altri
libretti, come Su Dante e Contro i poeti, non si trovano più. I
libri di Rita Gombrowicz, Gombrowicz en
Argentine, 1939-1963 e Gombrowicz en Europe. Témoignages et
documents, 1963-1969, ed. Denoel, 1984 e 1988, non sono disponibili in
italiano. Sulla vita di Gombrowcz in Argentina si può leggere anche il bel
romanzo di Laura Pariani, La straduzione,
Rizzoli, 2004.
questo articolo è uscito su doppiozero.com il 24 maggio del 2018
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