29/06/19

Agrate, 25 maggio 1995 dalle 16,30 alle 17,45


    

1 - 16,30, via Antonio d’Agrate.
Il sole batte su una parete e la sua luce si riverbera sul lato in ombra di un pilastro scalcinato dai toni grigiastri e discontinui che vengono ricoperti da una forte velatura omogenea di giallo. La parete è appena stata ridipinta. Non era così quando Aurelio l’ha vista e ha voluto inserirla nel suo percorso: l’intervento recente tuttavia, anziché modificare il riflesso, l’ha rafforzato. Il pilastro delimita sulla destra l’ingresso, privo di cancello, di un cortile irregolarmente coperto di ghiaietto. L’altro pilastro è appena stato restaurato e dipinto di un bianco perlaceo, ma opaco, come il muro che se ne diparte e la facciata della casa che ne costituisce la continuazione. Sotto il pilastro di destra, sulla strada stretta, c’è uno specchio convesso che permette di uscire senza pericolo dai cortili irregolari dei vecchi caseggiati, quasi cascine, che stanno sull’altro lato. Il riflesso si può vedere, di sbieco, anche da questo ingresso, a sua volta privo di cancello. L’occhio va dalla parete del muro di fronte a quella del pilastro, con la sua ombra colorata; poi si muove distrattamente nel cortile, tra le porte, qualche tenda, un paio di macchine parcheggiate, una donna che sporge la testa per controllare cosa fa quella gente sospetta che, dopo essere penetrata nel cortile e aver fatto il giro del pilastro saltando oltre la fossa appena scavata che lo separa dal muro giallo, staziona da qualche minuto in mezzo alla strada dove non passa nessuno guardando non si sa bene cosa; poi torna al pilastro, al suo lato che confina con l’asfalto; da lì risale verso lo specchio convesso che mostra la strada nella direzione opposta a quella della luce del sole, quindi inverte a sua volta la direzione dello sguardo rifacendo nello specchio il percorso fatto a piedi per giungere qui, fino a che, nell’angolo destro, vede l’incatenarsi dei cortili e, sul margine estremo, una persona messa di tre quarti e quella persona sono io che mi vedo guardare da un’altra parte.



2 - via IV Novembre, ore 16,50.
È una stradina ancora più stretta della precedente. Ci arrivo con in mano un gelato acquistato dopo aver fatto una piccola deviazione a sinistra ed essere poi tornato contento sui miei passi per una decina di metri. Sono un gelatodipendente e consumo con avida soddisfazione la mia passione. Anche qui la scena è stata alterata da un intervento edilizio, non tanto da influenzarla comunque. Alle spalle del luogo dove ci si deve arrestare, ma appena scostata, lungo tutta la parete di un grosso e vecchio caseggiato, c’è un’impalcatura, che dall’imbocco della viuzza aveva fatto temere una sua possibile frapposizione tra il sole e le targhette che dovrebbero proiettare i loro riflessi sull’ombra dell’asfalto antistante. Non è così, per fortuna; tuttavia un problema c’è: l’ombra ritaglia l’asfalto solo a metà. Nella parte soleggiata si vedono delle strisce irregolari più chiare, giallastre, come se a qualche muratore fosse caduta un po’ di calcina, o meglio di biacca, ora prosciugata: invece proprio quelle sono i riflessi. Aurelio si preoccupa per i calcoli sbagliati sul movimento del sole, per l’effetto che di conseguenza andrebbe perso. A me sembra invece che l’effetto ci guadagni: la luminosità infatti diventa evidente e risalta con più forza solo quando il passante, inserendosi tra le insegne e il punto d’arrivo dei raggi deviati, proietta la propria ombra sull’asfalto ricevendo sulle spalle quelli provenienti direttamente dal sole: allora, se pensieroso abbassa gli occhi verso terra, vede la propria ombra percorsa da strisce di luce in movimento, come bucata dalla luce, e ne riceve, grato, la lezione. Verrà buona per i momenti bui, ma già ora ne risente i benefici effetti, come la medicazione di una ferita che ignorava. Proprio in quel momento, senza un vero motivo, come per un vago sospetto, mi volto a guardare le targhette dalle quali provengono i riflessi e mi accorgo di ciò che avevo già notato in precedenza senza farci troppo caso: le targhette sono di due medici chirurghi. Forse appartengono a loro gli sguardi che mi sento addosso dalle finestre, sguardi che immagino ancora una volta incerti tra preoccupazione e meraviglia. Io invece li accolgo come una delicata carezza e per me conservo solo con meraviglia.

3 - via Marco d’Agrate, ore 17,10
In fondo a via IV Novembre si svolta a sinistra e subito il marciapiede si allarga come per predisporre a una sosta, invece di costituire semplicemente un passaggio. E così è: infatti al margine si innalzano alcuni gradini che portano a un grosso edificio di nessuna pretesa, se non per una certa miseranda monumentalità, che scopro essere un cinema-teatro. Sono le 17 passate, e l’ombra, con rinnovato sconforto di Aurelio, ha appena cominciato ad intaccare il marciapiede, ben lontana dai gradini coi quali dovrebbe incrociarsi. Anche qui, contro la parete del caseggiato di fronte, c’è un’impalcatura; ma anche qui non ci sono problemi, perché a proiettare l’ombra è quello che gli sta a lato, dato il percorso del sole, che tuttavia sembra in irridente ritardo. Se ne sta infatti bello alto sopra il tetto mentre dovrebbe esserne nascosto e proiettare soltanto l’ombra dal profilo dentato dell’embricatura delle tegole sul colmo (o da quelle del bordo esterno?) che dovrebbe sovrapporsi diagonalmente al profilo dei gradini così da formare una specie di ingranaggio che inconsapevole del pericolo calpesta, senza restarne imprigionato (ma sarà vero?), chi si reca alla proiezione del tardo pomeriggio. Costernato, e come a riparazione, Aurelio ci guida lungo la stessa via, in direzione opposta a quella del nostro arrivo verso la curva che immette in piazza Sant’Eusebio. Qui l’asfalto in ombra è tutto un brulicare di macchie colorate (esattamente quello che si sarebbe dovuto vedere in via IV Novembre, ma più in grande e con maggiore ostentazione), la maggior parte delle quali provengono da un’insegna che, aristotelicamente, dice “Costruzioni e restauri in genere”. Inseguiamo simulacri immateriali e la materia ci insegue; ci preoccupiamo, quasi come di spettacoli, delle metamorfosi della luce, dei suoi riflessi, dei suoi lati oscuri, così come dei lati luminosi dell’ombra, e tutto ci parla di costruzioni e restauri. Luce, ombra e colori si combinano per conto loro anche senza di me, sono in anticipo o in ritardo e si lasciano talvolta sorprendere se qualcuno le cerca senza sapere cosa vuole trovare; io descrivo cose che chi legge può anche non vedere e costruisco effetti che possono anche essere senza causa: anche in questo caso c’è, forse, una lezione.



4 e 5 - via Concordia, ore 17,25 e piazza Sant’Eusebio, ore 17,40.
Gli ultimi due luoghi mi appaiono in un certo senso complementari. In via Concordia la parete più stretta di un palazzone brilla di migliaia di luci, con un effetto banalmente vistoso che dura quasi tutto il giorno. Nel momento in cui ci siamo però capitati, per puro caso, il sole sembra tutto concentrato sul riquadro a mosaico azzurro sotto la finestra centrale della lunga e unica fila che divide la parete a metà. L’azzurro delle tessere scompare in una luminosità accecante e i confini del riquadro diventano invisibili per eccesso di luce, come se ne fossero la sorgente e essa si sprigionasse dalla materia. Troppo spettacolare, a meno che un’esibizione del genere non nasconda, in realtà, dell’altro. Ora però non mi interessa scoprirlo. Lascio che la luce si goda il suo tronfio trionfo. Ma, nell’allontanarmi, sono io che mi sento becero e banale: il mio disprezzo si riflette su di me. Passo sotto un arco che si apre nel muro di una casa a testa più china del solito e imbocco un vicolo scuro. Sono stanco di guardare e non ho voglia di pensare. Oltretutto si fa tardi: accelero il passo e faccio fretta a Aurelio che ci riporta al punto di partenza, in piazza Sant’Eusebio dove, sotto la statua del santo, c’è una fontana che costituisce l’ultima stazione di questa via lucis che alla fine mi trova ombroso. E un effetto di luce in movimento nascosta nell’ombra è quello che mi aspetta. Sotto il piedi del santo il basamento di marmo si prolunga fino a metà della vasca in cui nuotano pesci rossi e, credo, cavedani nerastri; dal basamento l’acqua scende, formando uno schermo sottile, nella vasca: il sole incontra la barriera di questa minuscola cascata proiettando increspature e vibrazioni sulla parete interna del muretto di contenimento che trascorrono velocemente ma nascoste dall’aggetto del basamento. Per vederle bene bisogna piegarsi. Sotto la statua una scritta informa che Sant’Eusebio è il patrono della Birmania. Della Birmania! Dunque nemmeno la Birmania è scampata da un patrono. Le luci nell’ombra scura acquistano una risonanza tropicale. Mi viene in mente un amico che ha vissuto un mese proprio nelle foreste di quel paese e che sulle foreste ha scritto due romanzi. Poi mi viene in mente la Cambogia, e altro ancora più vicino: morti da ogni parte. Mi viene anche in mente la recente lettura della storia della Compagnia di Gesù in Asia di Daniello Bartoli e un altro suo scritto che ha per titolo “L’uomo al punto”. Ho come il sentimento di aver fatto un breve percorso iniziatico. Ma poi, più modestamente, ritorno al percorso effettivo compiuto per le strade di Agrate: visto sullla cartina assomiglia al solito un otto, o al solito segno del solito infinito, ma un segno imperfetto, come di un infinito mal sagomato e un po’ allentato. Ricordo però che nel tragitto è stata operata una deviazione, e questo trasforma il segno nel nodo che si fa con i lacci delle scarpe, del quale la deviazione sarebbe uno dei capi. E l’altro? L’altro potrebbe essere quello tracciato da queste lettere, che ora son tentato di tirare sciogliendo così il nodo per sempre. In questo modo anche il percorso si chiuderebbe esattamente; quindi il nastro potrebbe riformarsi e il giro ricominciare da capo. A slacciare le stringhe si rischia di inciampare tuttavia, e anche nei meccanismi più perfetti una pecca prima o poi salta fuori. Sono certo di aver dimenticato qualcosa, come un granello che si è infiltrato negli ingranaggi o del ghiaietto nella scarpa; ma non mi dà fastidio; anzi, me ne rallegro: qualcosa che non c’entra e se ne va per conto suo, magari a comprare un gelato. 



https://vimeo.com/77918533

Tutte le immagini sono opere di Aurelio Andrighetto
 

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