1 - 16,30, via Antonio d’Agrate.
Il sole batte su una parete e la
sua luce si riverbera sul lato in ombra di un pilastro scalcinato dai toni
grigiastri e discontinui che vengono ricoperti da una forte velatura omogenea
di giallo. La parete è appena stata ridipinta. Non era così quando Aurelio l’ha
vista e ha voluto inserirla nel suo percorso: l’intervento recente tuttavia,
anziché modificare il riflesso, l’ha rafforzato. Il pilastro delimita sulla
destra l’ingresso, privo di cancello, di un cortile irregolarmente coperto di
ghiaietto. L’altro pilastro è appena stato restaurato e dipinto di un bianco
perlaceo, ma opaco, come il muro che se ne diparte e la facciata della casa che
ne costituisce la continuazione. Sotto il pilastro di destra, sulla strada
stretta, c’è uno specchio convesso che permette di uscire senza pericolo dai
cortili irregolari dei vecchi caseggiati, quasi cascine, che stanno sull’altro
lato. Il riflesso si può vedere, di sbieco, anche da questo ingresso, a sua
volta privo di cancello. L’occhio va dalla parete del muro di fronte a quella
del pilastro, con la sua ombra colorata; poi si muove distrattamente nel
cortile, tra le porte, qualche tenda, un paio di macchine parcheggiate, una
donna che sporge la testa per controllare cosa fa quella gente sospetta che,
dopo essere penetrata nel cortile e aver fatto il giro del pilastro saltando
oltre la fossa appena scavata che lo separa dal muro giallo, staziona da
qualche minuto in mezzo alla strada dove non passa nessuno guardando non si sa
bene cosa; poi torna al pilastro, al suo lato che confina con l’asfalto; da lì
risale verso lo specchio convesso che mostra la strada nella direzione opposta
a quella della luce del sole, quindi inverte a sua volta la direzione dello
sguardo rifacendo nello specchio il percorso fatto a piedi per giungere qui,
fino a che, nell’angolo destro, vede l’incatenarsi dei cortili e, sul margine
estremo, una persona messa di tre quarti e quella persona sono io che mi vedo
guardare da un’altra parte.
2 - via IV Novembre, ore 16,50.
È una stradina ancora più stretta
della precedente. Ci arrivo con in mano un gelato acquistato dopo aver fatto
una piccola deviazione a sinistra ed essere poi tornato contento sui miei passi
per una decina di metri. Sono un gelatodipendente e consumo con avida
soddisfazione la mia passione. Anche qui la scena è stata alterata da un
intervento edilizio, non tanto da influenzarla comunque. Alle spalle del luogo
dove ci si deve arrestare, ma appena scostata, lungo tutta la parete di un
grosso e vecchio caseggiato, c’è un’impalcatura, che dall’imbocco della viuzza
aveva fatto temere una sua possibile frapposizione tra il sole e le targhette
che dovrebbero proiettare i loro riflessi sull’ombra dell’asfalto antistante.
Non è così, per fortuna; tuttavia un problema c’è: l’ombra ritaglia l’asfalto
solo a metà. Nella parte soleggiata si vedono delle strisce irregolari più
chiare, giallastre, come se a qualche muratore fosse caduta un po’ di calcina,
o meglio di biacca, ora prosciugata: invece proprio quelle sono i riflessi.
Aurelio si preoccupa per i calcoli sbagliati sul movimento del sole, per
l’effetto che di conseguenza andrebbe perso. A me sembra invece che l’effetto
ci guadagni: la luminosità infatti diventa evidente e risalta con più forza
solo quando il passante, inserendosi tra le insegne e il punto d’arrivo dei
raggi deviati, proietta la propria ombra sull’asfalto ricevendo sulle spalle
quelli provenienti direttamente dal sole: allora, se pensieroso abbassa gli
occhi verso terra, vede la propria ombra percorsa da strisce di luce in
movimento, come bucata dalla luce, e ne riceve, grato, la lezione. Verrà buona
per i momenti bui, ma già ora ne risente i benefici effetti, come la
medicazione di una ferita che ignorava. Proprio in quel momento, senza un vero
motivo, come per un vago sospetto, mi volto a guardare le targhette dalle quali
provengono i riflessi e mi accorgo di ciò che avevo già notato in precedenza
senza farci troppo caso: le targhette sono di due medici chirurghi. Forse
appartengono a loro gli sguardi che mi sento addosso dalle finestre, sguardi
che immagino ancora una volta incerti tra preoccupazione e meraviglia. Io
invece li accolgo come una delicata carezza e per me conservo solo con meraviglia.
3 - via Marco d’Agrate, ore 17,10
In fondo a via IV Novembre si
svolta a sinistra e subito il marciapiede si allarga come per predisporre a una
sosta, invece di costituire semplicemente un passaggio. E così è: infatti al
margine si innalzano alcuni gradini che portano a un grosso edificio di nessuna
pretesa, se non per una certa miseranda monumentalità, che scopro essere un
cinema-teatro. Sono le 17 passate, e l’ombra, con rinnovato sconforto di
Aurelio, ha appena cominciato ad intaccare il marciapiede, ben lontana dai
gradini coi quali dovrebbe incrociarsi. Anche qui, contro la parete del
caseggiato di fronte, c’è un’impalcatura; ma anche qui non ci sono problemi,
perché a proiettare l’ombra è quello che gli sta a lato, dato il percorso del
sole, che tuttavia sembra in irridente ritardo. Se ne sta infatti bello alto
sopra il tetto mentre dovrebbe esserne nascosto e proiettare soltanto l’ombra
dal profilo dentato dell’embricatura delle tegole sul colmo (o da quelle del
bordo esterno?) che dovrebbe sovrapporsi diagonalmente al profilo dei gradini
così da formare una specie di ingranaggio che inconsapevole del pericolo
calpesta, senza restarne imprigionato (ma sarà vero?), chi si reca alla
proiezione del tardo pomeriggio. Costernato, e come a riparazione, Aurelio ci
guida lungo la stessa via, in direzione opposta a quella del nostro arrivo
verso la curva che immette in piazza Sant’Eusebio. Qui l’asfalto in ombra è
tutto un brulicare di macchie colorate (esattamente quello che si sarebbe
dovuto vedere in via IV Novembre, ma più in grande e con maggiore
ostentazione), la maggior parte delle quali provengono da un’insegna che,
aristotelicamente, dice “Costruzioni e restauri in genere”. Inseguiamo
simulacri immateriali e la materia ci insegue; ci preoccupiamo, quasi come di
spettacoli, delle metamorfosi della luce, dei suoi riflessi, dei suoi lati
oscuri, così come dei lati luminosi dell’ombra, e tutto ci parla di costruzioni
e restauri. Luce, ombra e colori si combinano per conto loro anche senza di me,
sono in anticipo o in ritardo e si lasciano talvolta sorprendere se qualcuno le
cerca senza sapere cosa vuole trovare; io descrivo cose che chi legge può anche
non vedere e costruisco effetti che possono anche essere senza causa: anche in
questo caso c’è, forse, una lezione.
4 e 5 - via Concordia, ore 17,25 e piazza
Sant’Eusebio, ore 17,40.
Gli ultimi due luoghi mi appaiono
in un certo senso complementari. In via Concordia la parete più stretta di un
palazzone brilla di migliaia di luci, con un effetto banalmente vistoso che
dura quasi tutto il giorno. Nel momento in cui ci siamo però capitati, per puro
caso, il sole sembra tutto concentrato sul riquadro a mosaico azzurro sotto la
finestra centrale della lunga e unica fila che divide la parete a metà. L’azzurro
delle tessere scompare in una luminosità accecante e i confini del riquadro
diventano invisibili per eccesso di luce, come se ne fossero la sorgente e essa
si sprigionasse dalla materia. Troppo spettacolare, a meno che un’esibizione
del genere non nasconda, in realtà, dell’altro. Ora però non mi interessa
scoprirlo. Lascio che la luce si goda il suo tronfio trionfo. Ma,
nell’allontanarmi, sono io che mi sento becero e banale: il mio disprezzo si
riflette su di me. Passo sotto un arco che si apre nel muro di una casa a testa
più china del solito e imbocco un vicolo scuro. Sono stanco di guardare e non
ho voglia di pensare. Oltretutto si fa tardi: accelero il passo e faccio fretta
a Aurelio che ci riporta al punto di partenza, in piazza Sant’Eusebio dove, sotto
la statua del santo, c’è una fontana che costituisce l’ultima stazione di
questa via lucis che alla fine mi
trova ombroso. E un effetto di luce in movimento nascosta nell’ombra è quello
che mi aspetta. Sotto il piedi del santo il basamento di marmo si prolunga fino
a metà della vasca in cui nuotano pesci rossi e, credo, cavedani nerastri; dal
basamento l’acqua scende, formando uno schermo sottile, nella vasca: il sole
incontra la barriera di questa minuscola cascata proiettando increspature e
vibrazioni sulla parete interna del muretto di contenimento che trascorrono
velocemente ma nascoste dall’aggetto del basamento. Per vederle bene bisogna
piegarsi. Sotto la statua una scritta informa che Sant’Eusebio è il patrono
della Birmania. Della Birmania! Dunque nemmeno la Birmania è scampata da un
patrono. Le luci nell’ombra scura acquistano una risonanza tropicale. Mi viene
in mente un amico che ha vissuto un mese proprio nelle foreste di quel paese e
che sulle foreste ha scritto due romanzi. Poi mi viene in mente la Cambogia, e
altro ancora più vicino: morti da ogni parte. Mi viene anche in mente la
recente lettura della storia della Compagnia di Gesù in Asia di Daniello
Bartoli e un altro suo scritto che ha per titolo “L’uomo al punto”. Ho come il
sentimento di aver fatto un breve percorso iniziatico. Ma poi, più
modestamente, ritorno al percorso effettivo compiuto per le strade di Agrate:
visto sullla cartina assomiglia al solito un otto, o al solito segno del solito
infinito, ma un segno imperfetto, come di un infinito mal sagomato e un po’
allentato. Ricordo però che nel tragitto è stata operata una deviazione, e
questo trasforma il segno nel nodo che si fa con i lacci delle scarpe, del
quale la deviazione sarebbe uno dei capi. E l’altro? L’altro potrebbe essere
quello tracciato da queste lettere, che ora son tentato di tirare sciogliendo
così il nodo per sempre. In questo modo anche il percorso si chiuderebbe
esattamente; quindi il nastro potrebbe riformarsi e il giro ricominciare da
capo. A slacciare le stringhe si rischia di inciampare tuttavia, e anche nei
meccanismi più perfetti una pecca prima o poi salta fuori. Sono certo di aver
dimenticato qualcosa, come un granello che si è infiltrato negli ingranaggi o
del ghiaietto nella scarpa; ma non mi dà fastidio; anzi, me ne rallegro:
qualcosa che non c’entra e se ne va per conto suo, magari a comprare un gelato.
https://vimeo.com/77918533
Tutte le immagini sono opere di Aurelio Andrighetto
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