e c’erano nella stessa sala una grande e bellissima Natività (a Boston, non sono riuscito a trovare un’immagine decente) e una Madonna col Bambino, con i santi Caterina, Agostino, Marco e Giovanni Battista (Lione), quadro splendido, con le figure disposte in un doppio triangolo che insieme ne formano un terzo virtuale, con il vertice invisibile a perpendicolo sulla testa di santa Caterina, e sullo sfondo a sinistra un colonnato e a destra un paesaggio desertico al cui centro si ergono le mura spoglie di una città o fortezza sotto un cielo nuvoloso, che certo qualcosa simboleggiano, niente di complicato, facile anzi, perché dovevano arrivarci tutti a capirlo, incluso il sottoscritto, che intuisce ma non ha voglia ora di approfondire, attratto com’è dalla Madonna che tiene con la mano sinistra il bambino che si sporge a benedire santa Caterina e, ecco cosa!, con la destra un libro aperto, come come se il corteo dei santi fosse giunto all’improvviso e avesse interrotto la lettura e lei non volesse perdere il segno o volesse alludere a qualche pagina particolare che aiuterebbe a interpretare tutto, che certo qualche sapiente potrà provare a indovinare ma a noi resterà per sempre precluso, nella sua certezza, perché tutto è impossibile interpretare, e forse nemmeno consigliabile…, mentre china leggermente la testa, la Madonna, per rivolgere affettuosa attenzione alla santa che viene introdotta con un gesto che trovo mirabile nella sua delicatezza, emozionante, da sant’Agostino, che ha a sua volta la testa chinata verso il basso, ma in modo più marcato, a guardare con deferente venerazione il Bimbo, umile pur nel suo sfarzoso piviale di raso di seta, dal colore dorato simile a quello del manto dogale che indossa la santa, che le è rimasto in dote, pare, da un soggiacente ritratto di doge poi rimosso per faccende di nomina a pittore ducale andata invece a Tiziano, in ogni caso magnifico, il manto, che le sta benissimo, date le circostanze ufficiali della cerimonia, a nobilitare quel bel viso dall’aria compunta e serena, ma pacioso, bianco e rosso, come una contadina, o una nobildonna di campagna, che osserva attenta il Bambino, con uno sguardo aperto, intelligente, per nulla turbato dalla benedizione divina e nemmeno velato dal ricordo del martirio che viene significato in modo forse un po’ troppo marcato dal lungo ramo di palma appoggiato al suo avambraccio destro, e non tenuto in mano perché le mani sono giunte nel gesto della devozione e della preghiera, e dal gigantesco mozzo della ruota del supplizio ai suoi piedi, spezzata ma ancora minacciosa, al centro del quadro e, per un po’, dell’attenzione, la mia perlomeno, che ne è come stregata, e su di essa si blocca, trascurando tutta la parte destra del quadro, come se non ci fosse, come se non fosse anch’essa di grande fattura, oltre che necessaria all’equilibrio della composizione, e presumo ai desideri della committenza, con la carne del corpo atletico e attraentissimo del Battista, per nulla provato dalla vita ascetica nel deserto, che rivaleggia, a distanza di pochi metri, con quelli, morbidi, candidi, dalla stessa pelle splendente e luminosa delle varie Susanna, Danae e Lucrezia, per quanto i miei bassi istinti mi spingano irresistibilmente a preferire quella più candida di quest’ultime.
Mi siedo.
Ogni volta che mi siedo a guardare, mi torna in mente Antichi maestri. Sto lì qualche minuto, io, però, non ore, poi mi alzo e vado avanti. E ogni tanto indietro. E in tondo. E avanti ancora. Per poi sedermi di nuovo, e dimenticare Antichi maestri, ma avendolo ancora in silenzio in testa, come un retropensiero che mi fa compagnia, come tutti gli altri libri che condividono questa sorte, e me ne farà ancora di più quando lo avrò dimenticato per davvero. Come se fosse possibile.
Chissà cosa avevo in testa quando mi sedevo nei musei prima di leggerlo. Ma mi sono mai seduto veramente in un museo prima di leggerlo? Non so. C’erano gli altri quadri e libri, probabilmente, le altre cose che avevo visto e vissuto e immaginato ecc. Niente. O quasi.
No. Non è vero. Non era lo stesso sedersi, comunque. Ho cominciato a appassionarmi alla pittura a 12 anni, quando è apparsa la collana I maestri del colore, a cui ho chiesto ai miei di abbonarmi come regalo di Natale, e non ho più smesso. Qualcosa avrò visto. Qualcosa sarà rimasto. In qualche modo i miei occhi saranno stati segnati, la mia testa modificata… Non so. Non ricordo quasi niente. Ci sono solo frammenti spezzati, vividi, dolorosi, a volte, ma come se appartenessero a un’altra persona, ad altre ere, in cui ero io e non ero io, che osservo come trailer di un film, spot di vita aliena, da lontano, finché non mi colpiscono all’improvviso lasciandomi senza fiato, per subito tornare a dileguarsi, a riguardare un altro. Immagini isolate. Istantanee. Quadri che mi siedo a guardare.
Come nella decima sala, che è quella dell’istante sospeso. Del quadro come istantanea antelitteram, di compiaciuta maestria, spettacolare sì, ma forse un po’ troppo esibita, perché l’insieme è orientato principalmente all’effetto, forzato, come tutto ciò che vuole stupire, neno nel Ratto di Elena, dove la spettacolarità dell’insieme, con tutti quegli scontri tumultuosi in terraferma e per mare, quasi che il ratto fosse avvenuto senza il consenso di Elena e Sparta fosse se non una città di mare ad esso vicina, smorza un po’ quella del fermo-immagine confinato in basso a sinistra, con la figura di schiena del soldato che solleva di forza per depositarla sulla nave la fedifraga, la cui postura è piuttosto rigida, forse perché piegata e contorta per la resistenza sarebbe risultata troppo scomposta, brutta addirittura, Elena!, e anche lo sguardo sembra fisso, poco turbato, stolido… a meno che non sia solo perso, rivolto al nulla, per la catatonia di chi si ritrova incapace di reagire all’evento, e tanto meno di capirlo, come se lei non solo non fosse consenziente, ma non avesse nemmeno lontanamente previsto una tale violenza e Paride fosse un pirata saraceno giunto all’improvviso a violarla e sottrarla al focolare domestico…
meno qui, dicevo, che nel Tarquinio e Lucrezia di Chicago (1578-80), dove Lucrezia è davvero sorpresa dall’energumeno Tarquinio (già nudo però: dove si sarà spogliato? quando?) che incombe su di lei e le lacera il leggerissimo velo che la copriva strappandole anche la collana le cui perle si stanno sfilando e hanno cominciato a cadere, alcune, verso terra senza raggiungerla, come il cuscino e un montante del baldacchino del letto a forma di figura umana, nel momento più drammatico, quello che contiene tutta la violenza che sta per giungere a compimento e trovare una forma, un modo, mentre per ora è ancora in divenire, con tutta la sua potenza davanti a sé, indefinita, infinita, che anche i tessuti sottolineano, percorsi da pennellate chiare, quasi dei lampi, mentre per terra, in attesa di essere usato, con la punta rivolta verso l’alto, simbolo fin troppo esplicito messo così e che quindi non commenterò, il pugnale con cui Tarquinio aveva minacciato la donna, bellissima, desiderabilissima, che l’uomo brutale che si nasconde in tutti i maschi può capire come abbia potuto suscitare tanta bestiale prevaricazione, salvo poi tirarsi indietro di fronte alla brutalità e alla prevaricazione, salvato dalla morale, dall’educazione, dal rispetto che, certo, nobilita, almeno quello..., forse lo stesso cui con cui successivamente la virtuosissima moglie si ucciderà dopo aver denunciato lo stupro al marito e al padre che si prenderanno la giusta vendetta, anche se intanto è ancora lì, e Tarquinio è una bestia feroce ancora viva e noi siamo buoni e civilizzati e umani, e però...
… e infine c’era una tarda Flagellazione (1578-80, ora al Castello di Praga) con Cristo, un po’ in arretrato, non ancora legato alla colonna, solo con le mani strette da una grossa corda dietro la schiena, la figura illuminata violentemente da destra a dare maggior risalto al corpo muscoloso, che sprigiona energia, la testa in ombra piegata a guardare in basso a sinistra un soldato che gli sta legando i piedi, con un gesto che potrebbe sembrare incongruo data la situazione ma appare del tutto spontaneo, come quando si allunga automaticamente il piede per fermare qualcosa che sta cadendo anche se è troppo pesante e l’impatto farà molto male, una curiosità spontanea più che il desiderio di vivere fino in fondo ogni dettaglio della propria umiliazione, con il busto e le spalle che si discostano dalla colonna non si sa se per nonostante tutto tentare di liberarsi o viceversa per ricevere, per accogliere pur senza guardare, la frustata che sta per essergli inferta dall’aguzzino, che porta indietro il braccio con la frusta per caricare il colpo con la maggior forza possibile, in primo piano così che lo spettatore, più che con l’uomo con turbante che in alto a destra osserva la scena (Erode?), possa identificarsi con lui, come viene spontaneo con tante figure di schiena senza volto, anonime, che potrebbero essere chiunque, e sentire la colpa che lui invece non avverte e che fra un attimo quel gesto renderà ancora più flagrante, materializzata, e non solo simboleggiata, nel sangue che scorrerà su quel corpo ancora solo per un attimo integro, definitiva, inespiabile, se non ad opera di colui che sta per essere colpito, e che solo dopo esserlo stato potrà veramente cominciare il percorso della espiazione per conto di tutti, quando la prima ferita aprirà quella carne alla sofferenza fisica che quella inferta dalla lancia di Longino chiuderà, aprendo nello stesso istante il tempo della redenzione, che forse così anche noi che soffriamo guardando e ci pentiamo di tutti i colpi che avremo inferto con le nostre colpe potremo meritare... o forse no, nemmeno così, perché niente ci salva, niente salva nessuno, o almeno nessuno salva noi, come è stato detto, o forse perché non c’è niente da salvare, niente da condannare, niente da redimere, chissà.
Le prime due parti, qui
e qui
http://grazioliluigimario.blogspot.com/2018/10/tintoretto-palazzo-ducale-2-deposizione.html
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