Recupero
questa annotazione che oggi mi sembra più oscura (e confusa) di quanto
allora non credessi, perché mi ricorda, tra l'altro, come sono nate le
mie Ipofanie, e i brevi racconti che poi sono confluiti nella sezione
eponima di Cosa dicono i morti
Sullo stesso foglietto dove inizia il seguente abbozzo, infatti, è annotato, isolato, con data luglio 86: IPOFANIA/E
1 agosto 1986
Parlando di Musil (ma credo valga per molti contemporanei), Magris scrive: "L'attimo non può venir tesaurizzato, l'illuminazione momentanea non può diventare possesso duraturo: la linearità, la successione cronologica del significante è incompatibile con l'atemporalità mistica dell'epifania. Possedere significa disperdere" (L’anello di Clarisse, p. 221). In questo caso cioè la riflessione sarebbe costituzionalmente impossibile dal momento che il suo oggetto, quando essa si instaura, sarebbe già svanito.
Mi chiedo se non sia non solo l'impossibilità di un possesso duraturo dell'attimo, ma proprio l'impossibilità di qualsiasi durata (di costruire la durata nella sua completezza attraverso la forma e la linearità) alla base dell'importanza accordata all'epifania da molti contemporanei, o meglio: del ritorno insistito, "necessario" dell'epifania in molti contemporanei.
Se l'epifania si impone, sia pure sotto varie vesti, allo scrittore contemporaneo, non sarebbe cioè dovuto alla perdita del tempo (lineare), alla sua frantumazione? Effetto quindi, l'epifania, e non causa o momento importante della frantumazione stessa: sintomo. Come se la mancata tesaurizzazione e l'impossibilità della durata scavassero un campo vuoto di cose (di rappresentazioni e di esperienza) ma sempre più carico di tensione, di una tensione senza oggetto che ad un certo punto scatta come una molla investendo la prima cosa o rappresentazione che capita (fosse pure una foglia o un frammento di specchietto come in L’ora del vero sentire di Handke)
D'altra parte questa esplosione (che è un'implosione rappresentativa) deve restare chiusa nell'attimo, perché se si svolgesse (sviluppasse, concretizzasse), la sua "relazionabilità" assoluta e totale la dissolverebbe, relegandola al rango degli altri attimi del tempo frantumato e irredento. L’impossibilità di relazione e di durata non sarebbero quindi insite nell'epifania, ma viceversa il tentativo di immetterla in una durata e la sua totale relazionalità la determinerebbero come monade, pena la sua dissoluzione qualora si tentasse di dispiegare la sua rete infinita di possibili relazioni. Questo, oltre a tutto, la eguaglierebbe a tutto il resto, che non è tesaurizzabile né duraturo (non diventa esperienza), proprio perché anch'esso dissolto in una rete tale di relazioni non gerarchizzate né gerarchizzabili, tanto che ogni scelta o limitazione farebbe saltare il "come tale" della cosa o rappresentazione in oggetto eguagliandola di nuovo a tutto il resto, cioè ridissolvendo nell'eguaglianza ogni differenza.
Sprofonda non importa dove, ed ecco perché l'epifania non ha oggetto se non occasionale; ma questo sprofondare assoluto, caricato dalla precedente tensione frustrata a "dire, esperire ecc.", non si chiude più su se stesso (per es. nella malinconia, nella catatonia fisica e psichica), ma si rivela come l'unico "pieno" possibile, si "accende" tanto che la scomparsa o l'annullamento nella vertigine della caduta si trasformano in un orgasmo di tutto l'"essere" ("corpo e mente"). Anzi, è la forma più compiuta di orgasmo, che è appunto scomparsa-annullamento e insieme illuminazione di tutto l'essere.
Ma ciò che l'ha portato a questo punto, e non alla scomparsa-annullamento come buio, dissolvimento, oblio ecc. (attenzione a queste immagini...) era la tensione già presente in precedenza, la "volontà" vuota accumulata (a dire ecc...). Ciò che si ricollega ad un altro topos della letteratura moderna (intendi topos non solo come luogo ricorrente, ma soprattutto come ciò – necessità o che altro – che l'ha reso tale, che ha moltiplicato il suo ritorno): lo scrivere ad ogni costo pur non avendo assolutamente niente da dire (come Walser, 175), ed anzi proprio perché non si ha niente da dire. Attenzione però: questo non aver niente da dire, che viene solitamente interpretato come contingente deficienza soggettiva, è invece condizione oggettiva. Walser dice: "sapere tante cose, aver visto ecc.", ma questo non regge un: eppure non ho niente da dire, bensì un: e non... (congiunzione coordinativa copulativa e non disgiuntiva, che potrebbe anche essere letta come conclusiva: pertanto..., o come implicazione: B appunto perché A).
Walser non augura a nessuno di trovarsi in questa condizione, senza sapere che proprio essa sarebbe diventata la regola (lui, l'eccezione, prototipo della futura, ma prossima, regola). Ecc.
Così l'epifania, o l'estasi puntuale, non è la contraddizione o il piede di porco che scardina l'ordine lineare del tempo, ma l'altra faccia della sua dissoluzione, e come l'ultimo rifugio da questa dissoluzione lasciato, e implicato, per chi non è ancora giunto a (intravvedere la possibilita di) costruire/vivere un tempo diverso, che è il vero problema. Ora, questo tempo la narrativa contemporanea lo costruisce (difficile è definirlo...): per questo molti romanzieri l'epifania, che prima avevano ricercato/utilizzato, l'abbandonano (Joyce, per es. – ma cfr.). L'epifania è l'ultimo residuo del tempo lineare, la sua presa di coscienza l'inizio di un tempo diverso (Proust, per es.? – ma cfr.)
È anche l'altro lato (il termine di un percorso) della differenziazione basilare per l'ordine temporale dei bambini e dei popoli primitivi, tra ora e non ora (cfr. Facchinelli, Freccia ferma, 38-9): per essi il presente è qui e ora, pieno, seguito da un altro altrettanto pieno che però non è un poi, così come quello precedente non diventa un prima.
cfr. poi 224…
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