Per Milan
Kundera il romanzo europeo (cioè il romanzo tout
court, poiché esso è "opera dell'Europa", tanto che proprio
"figli del romanzo", secondo una formula di Cioran, è per lui la
migliore definizione degli europei ) nasce dalla "passione del conoscere"
e solo nella conoscenza trova la sua "morale", oltre che una
possibiltà di storicizzazione nella "successione
delle [sue] scoperte" (ad
esempio l'humor, il problema dell'azione e la definizione dell'individuo).
Conoscenza tuttavia non come atteggiamento sociologico o filosofico, ma come
"rivelazione delle possibilità fino a quel momento occultate
dell'esistenza in quanto tale" attraverso l'io sperimentale del personaggio. È quindi appena ovvio che il
"pensare" abbia un posto importante nella sua opera, che vi abbondino
come personaggi poeti, musicisti e artisti e i loro discorsi e le loro
riflessioni, che poi il narratore raramente si lascia sfuggire l'occasione di
chiosare. Che in aggiunta Kundera
senta anche il bisogno di scrivere dei saggi su quegli stessi argomenti
potrebbe sembrare pleonastico, se non fosse che il pensiero nel romanzo, anche quando ha come
oggetto l'arte, è diverso dal pensiero sul
romanzo: il primo è sempre ironico, relativo al personaggio e alla sua storia,
mentre il secondo è più diretto e più direttamente preso in carico dall'autore,
che vi espone le proprie tesi e vi si espone. È proprio questo però che, anche
quando sono numerosi i motivi di dissenso, fa amare i saggi degli scrittori (da
James a Calvino), specie se, come sempre fa il romanziere boemo, la lucidità
non si disgiunge mai da una grande passione. Viceversa il romanzo, per
definizione, non può essere a tesi senza distruggersi, diventando strumento di
propaganda, che è totalitaria anche quando denuncia il totalitarismo, come 1984 di Orwell (non si dice "senza
imbastardirsi", perché la bastardaggine, o il meticciato se si preferisce,
è la sua condizione). Ogni volta che difende una tesi, il romanzo diventa
vittima della storia, peggio se della storia che si pensa vincitrice in futuro,
mentre invece la sua storia non è altro che una forma di vendetta contro
"la storia tout court".
A L'arte
del romanzo Kundera aveva già dedicato un libro molto bello nel 1986 (trad.
it. di E. Marchi e A. Ravano, Adelphi, 1988); ora esce da Gallimard, scritto
direttamente in francese, Les testaments
trahis. I nove saggi di questa seconda raccolta, ricchi al solito di
divagazioni, analisi concrete e autoanalisi, riprendono alcuni dei temi della
prima (la forma del romanzo; il problema dei personaggi e quelli dello
scrittore emigrato; i rapporti tra lirismo e terrore...) e altri ne aggiungono,
in particolare riguardo alla musica, alla sua storia e al confronto con quella
del romanzo.
Entrambe le arti, anche se non parallele,
secondo Kundera si sono sviluppate su due tempi separati da una cesura, che per
la musica si estenderebbe lungo tutto il XVIII secolo mentre per il romanzo si
situerebbe tra il XVIII e il XIX, "cioè tra, da un lato, Laclos, Sterne, e
dall'altro, Scott, Balzac." Il secondo di questi tempi non avrebbe
sviluppato che pochissimi dei temi presenti nel primo, letteralmente rimuovendo
gli altri, tanto che tutti coloro che si sono discostati da questa linea sono
stati di fatto misconosciuti, travisati (la kafkologia che santifica Kafka
leggendolo in tutti i modi tranne che quello artistico) o attaccati dai
portabandiera del secondo (valgano per tutti le difficoltà di Janacek o il
trattamento subito da Stravinski da parte di Adorno).
Per Kundera invece proprio tra coloro che
hanno proseguito nella direzione indicata da questa linea minoritaria della
modernità e che si sono riallacciati al cammino che sembrava non poter più
condurre da nessuna parte dei primi maestri (Rabelais, Cervantes, Sterne e
Diderot), tra coloro cioè che non ne hanno tradito il testamento, si trovano i
rappresentanti più significativi del romanzo contemporaneo e le soluzioni più
proficue per il futuro. Oggi infatti il principale problema del romanzo, ma
anche la sua principale risorsa, consisterebbe nella ripresa dell'estetica del
primo tempo e nei vari modi in cui è possibile conciliarla con le esigenze
della composizione emerse nel secondo. Nient'altro che questo avrebbero fatto
"i più grandi romanzieri del periodo post-proustiano" (Kafka, Broch,
Musil, Gombrowicz) e quelli della generazione
successiva (Garcia Marquez, Fuentes, Rushdie, Chamoiseau, coloro che hanno
continuato la tradizione europea "tropicalizzando" il romanzo):
"essi hanno integrato la riflessione saggistica all'arte del romanzo;
hanno reso più libera la composizione; riconquistato il diritto alla
digressione; insufflato nel romanzo lo spirito del non-serioso e del gioco;
rinunciato ai dogmi del realismo psicologico (...); e soprattutto: si sono
opposti all'obbligo di suggerire al lettore l'illusione del reale."
Non è difficile riconoscere in questa
enumerazione alcune delle caratteristiche principali del lavoro di Kundera
stesso fin dai suoi esordi. A ricordarcelo è la recente traduzione della
commedia Jacques e il suo padrone,
scritta a Praga come un "addio sotto forma di divertissement" alla
sua vita di scrittore subito dopo l'invasione russa, in circostanze che gli
sembravano segnare "la fine cruenta della cultura occidentale quale era
stata concepita all'alba dei Tempi moderni" e secondo intenti ben
illustrati dal saggio che la precede. Nella commedia, molto divertente, la
varietà delle avventure e delle divagazioni di Jacques il fatalista è ridotta alle tre storie degli amori di
Jacques, del suo padrone e di Madame de la Pommeraye, che "sono di fatto
ciascuna la variazione dell'altra", montate secondo la "tecnica della
polifonia" con una "trasgressione manifesta delle cosiddette leggi
della costruzione drammatica". Tale riduzione non è un
"adattamento" , ma una "variazione su Diderot" e al tempo
stesso un "omaggio" a questa "tecnica" tradizionale.
L'adattamento infatti è un metodo da reader's
digest che Kundera disprezza proprio in quanto vi legge una delle
"tendenze più profonde del nostro tempo, e [gli] fa pensare che un giorno
tutta la cultura del passato sarà completamente riscritta e completamente
occultata da suo stesso rewriting",
mentre la "variazione" riprende in maniera scoperta i suoi modelli
raccogliendone liberamente la lezione senza tradirla, ovvero tradendola
nell'unico modo lecito, quello creativo.
Anche se non difende "l'inviolabile
verginità dell'opera d'arte", Kundera pensa infatti che vadano
rigorosamente rispettati i testamenti degli autori, sia quelli impliciti nelle
loro opere (ma è possibile definirli con precisione senza ricorrere a categorie
giustamente screditate come "spirito", "originale",
"autenticità" o "essenza"?), sia quelli esplicitamente
lasciati alla loro morte (si veda il caso di Brod con Kafka, che Les testaments trahis affronta
diffusamente). Egli ama gli autori del primo tempo perché sono liberi, sovrani
burattinai della propria opera che incarnano la "concezione suprema
dell'autore", ma spesso si ha l'impressione che vorrebbe limitare questa
libertà parteggiando per certi eredi contro certi altri o auspicando il
controllo totale e "definitivo" dell'opera da parte del suo autore,
come ha fatto Stravinski, che in vecchiaia ha inteso dare in sala di
registrazione la versione "legittima" della sua opera alla quale
tutte le altre letture dovrebbero attenersi per sempre.
È legittimo chiedersi invece se Kundera non
confonda il narratore con l'autore, anche se è comprensibile che voglia
difenderne i diritti (intesi anche come "diritti d'autore), e se la sua
distinzione tra libertà (vera) e arbitrarietà non vada quanto meno sfumata. Il
margine di errore, o addirittura la sua definizione, in letteratura, è forse
meno importante della sua intensità, della forza e della produttività del
travisamento, vero o presunto. L'opera stessa di Kundera, del resto, lo sta a
dimostrare.
Milan Kundera, Les testaments trahis, Gallimard, 1993,
P. 325, FF. 110
Milan Kundera, Jacques e il suo padrone, Adelphi, 1993.
P. 112, £ 12.500
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