14/12/15

Dolore. (Un ringraziamento a Sant'Antonio)


Sono settimane e settimane che ogni cosa che faccio o vedo o in qualsiasi modo percepisco, è schermata da una patina di dolore, che, sia pure a diversi gradi di intensità, non si lascia mai dimenticare. Non mi era mai capitato un dolore fisico così costante, ostinato, pervasivo. Più forte sì, anche intollerabile, come certe coliche renali che a volte sembravano non finire mai, o succedersi come raffiche, vere e proprie pugnalate, come le venti o anche trenta che mi hanno assalito nei giorni successivi all’intervento in ospedale, quando dovevo espellere tutti i frantumi, ma così continuo, un giorno dopo l’altro, trenta, quaranta, cinquanta, senza cedimenti o remissione, mai.  Anche quando cerco di concentrami, e, con grande sforzo, mi sembra di riuscirci, lui è lì. Non è come il dolore, o il disagio, psichico o esistenziale, che si insinua nel mondo e lo pervade, lo distorce e ne modifica la chimica fino a dissolverlo, a volte, alterandone sia l’apparenza che la sostanza; questo invece lascia tutto intatto, come è, e lo rafforza, tanto che sembra che ti fronteggi con una solidità accresciuta, consolidata nel suo essere se stessa, nel suo insieme e in ogni singola cosa o fatto, ma come separato da una patina, a volte sottilissima, completamente diafana, ma infrangibile, sempre avvertita, insuperabile. Non riesci ad afferrare niente: sfiori l'oggetto, riesci quasi a maneggiarlo, a volte, a fatica, anche quello più semplice, ma sempre con l’impressione che di non controllarlo, che ti scivoli via da un momento all’altro, senza mai possederlo. Ciò che la possiede è solo il dolore. Il dolore è ciò che ti possiede. Solo il dolore.
 

Per quanto ti sforzi di dimenticarlo, di rifiutare di lasciartene sopraffare, lui è lì che ti chiama, ti reclama. Dentro ogni parola o gesto, sottovoce o più forte, continuamente, come una nenia senza fine, senza tirare il fiato, perché già è lui tutto il fiato, il respiro ininterrotto. Almeno in una parte della testa, perché già sempre in una parte del tuo corpo (nel mio caso il braccio destro, dalla spalla alla punta delle dita, l’unico che so usare e che non posso fare a meno di sollecitare per tutte le cose che devo fare: che ho il dovere e che mi impongo di fare) c’è questo rumore di fondo, modulato, fra molti alti e qualche basso, un mugolio animale che cresce e a volte esplode, che non cessa di segnalarti la sua presenza. Sono qui, dice; sono qui... Sei qui. Sei qui perché sono qui. Finché sono, sei. E non puoi che sperare, di non essere. Non essere è l’unica speranza.

E se il dolore è localizzato, l’arto si separa dal resto del corpo, te lo fa quasi dimenticare; anzi: lascia che te ne ricordi, ma solo per farti sentire la sua irrilevanza e, ogni volta che ne hai bisogno e cerchi di richiamarlo ai suoi usi abituali, anche i più banali, la sua impotenza, o, quando va bene, la sua insufficienza, la sua inettitudine sostanziale. E anche quando la sua intensità decresce, la durata compensa, in negativo, l’attenuazione, perché più il tempo passa, più aumenta la spossatezza, e di conseguenza la sensibilità anche alla sua minima sfumatura, la visuale si restringe, si focalizza solo in un punto, il suo, e, nella testa, ovunque, la nebbia si infittisce. E le omissioni e i vuoti diventano sempre più frequenti, tutto quello che fai è imperfetto, lacunoso, sconclusionato, e ti rammenta l’imperfezione di tutto ciò che hai fatto e farai. Nulla è compiuto, se non il dolore.
 


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