Il
becchino se la prende comoda. È un uomo allegro e paradossale che per stupire i
visitatori, se sta facendo uno spuntino, non disdegna di catturare qualche
insetto di stagione e di alloggiarlo tra la pancetta e il panino, che poi morde
e mastica con gusto spropositato, condendo con amenità cloacali l’esibizione,
gratuita peraltro. In privato pare che sia peggio: si sforza di fare il buon
padre di famiglia. Infatti i suoi figli, per far dimenticare di chi lo sono,
sono tutti i primi della classe. Adesso, mentre lavora col suo assistente, un
succubo giulivo raccattato dalla pubblica amministrazione nel parentado di
qualche consigliere comunale, fatica a reprimere una canzonetta i cui resti
affiorano di tanto in tanto alle sue labbra contornate di sudore. Poco discosto
l’ufficiale sanitario discute dell’ennesima figuraccia della nazionale di
basket col maresciallo dei carabinieri, che continua a togliersi e a rimettersi
il cappello sotto il sole, mattutino sì, ma di luglio. Inutile dire che non
capiscono un’acca. Per questo, e perché non possono alzare la voce e
azzuffarsi, infarciscono le loro scempiaggini di termini tecnici in ragione
inversa all’effettiva comprensione: è l’ultima risorsa dei cretini. Di quelli
educati, beninteso.
Qua e là
i rari visitatori (il solito gruppetto di vedove che, eleganti, splendenti di
una seconda, ben più felice giovinezza, si danno appuntamento al cimitero, a
due a due o a tre a tre, per poi chiudere la mattinata in qualche bar; un
ragazzo che smette di piangere non appena ci vede; due gemelli adulti che
stanno portando dei fiori appassiti all’angolo della spazzatura) ci squadrano
da lontano, indecisi se far prevalere la curiosità o la discrezione. L’oggetto
della curiosità sono io, che vivo in città da più di vent’anni e, pur tornando
spesso a casa di mia madre, non mi faccio vedere molto in giro. Forse qualcuno
mi riconosce, o deduce chi io sia dalla tomba davanti a cui mi trovo.
Io non
voglio essere qui. Mi hanno detto che la mia presenza era necessaria, che
almeno un famigliare doveva assistere all’esumazione, e dietro le insistenze
adeguatamente spruzzate di lacrime e preghiere di mia madre e mia sorella, che
adoro, preferibilmente da lontano, sono venuto io; ma non volevo venire, e
adesso che sono qui, ancora non voglio. Mia madre e mia sorella sovrintendono
alla tomba chiusa, io all’apertura; loro alla normalità, al rito attossicato
dal vizio pressoché quotidiano di mezzo secolo ormai, io all’effrazione. Così è
stabilito, e io mi adeguo come meglio posso, costante nell’incostanza,
schiacciato dalla leggerezza dell’assenza di vincoli evidenti che ha finito per
appesantire anche i miei lineamenti una volta belli e questo corpo, che porto
in giro come un pacco postale lasciatomi in deposito da qualcuno che poi non si
è fatto più vedere, un povero corpo che non ha mai danzato.
Mentre
becchino e aiutante si godono un po’ di fresco nella tomba della mia famiglia
prima di estrarre la cassa dal suo alloggiamento e di metterla su due
cavalletti previamente calati fino al pavimento, penso alla donna che avrei
dovuto incontrare questa sera se non avessi rinviato l’appuntamento, e penso
anche che avrei potuto rispettarlo, se avessi voluto, tanto le pratiche non
dureranno a lungo; ma adesso non vorrei essere nemmeno con lei. Non voglio
essere da nessuna parte. Mi sento, come mi capita spesso, ma con più forza,
quasi che tutto (tutto cosa?) si fosse concentrato nelle mie membra
aumentandone la densità senza lasciare spazio a pensieri o emozioni, come uno
che si muove incessantemente tra nessun posto e nessun altro e non fa
assolutamente nulla se non non essere da nessuna parte, o quanto meno volerlo.
Sto in
silenzio e guardo il sudore tra i peli che coprono persino le spalle al
becchino, che adesso si è tolto la maglietta e sfoggia una canottiera traforata
di un bel colore arancione: sta passando due cavi sotto la bara e nelle quattro
maniglie laterali e ne getta le cime all’aiutante che è già risalito. Poi con
un salto si aggrappa al bordo marmoreo della tomba e risale anche lui tirandosi
su a forza di braccia senza usare la scaletta appoggiata alla parete. Qualche
vedova e i gemelli hanno fatto alcuni passi nella nostra direzione ma si
tengono ancora a prudente distanza. Allungano colli da fenicotteri e ne assumono
con disinvoltura le espressioni. Si vede che ci sono portati. Meglio guardare
il collo dei due uomini che stanno estraendo la bara con movimenti rallentati e
sincronizzati, per non farla cadere e scoperchiare prima del tempo.
Scommetto
che al becchino non dispiacerebbe (e forse nemmeno a me, dal momento che me n’è
venuto il pensiero), ma la professionalità prima di tutto. Si volge verso di me
come a chiedermi di dare una mano nel momento decisivo, quello del passaggio
dal vuoto della tomba al cemento antistante, ma io fingo di non accorgermene e
sto a guardare come se la cava. Voglio proprio vedere se ti viene ancora da
canterellare, adesso. La bara si piega di lato, ma prima che scivoli giù i due
uomini riescono ad afferrare le maniglie alle estremità e la issano con
delicatezza, nonostante il peso, fino al carrello che aspetta sul vialetto,
evitando la sosta sul cemento. Il becchino mi lancia un’occhiata, ma io mi sono
già voltato verso il medico e il maresciallo che hanno da poco deciso di
concedere una pausa alle rispettive intelligenze. I curiosi hanno preso
coraggio e ora sono a una decina di metri. I loro grugni stanno cercando
espressioni più consone alla circostanza. Ci riescono benissimo: ora sono
passati alla classe degli scifozoi. Posso vedere i muri del cimitero attraverso
di loro, pur ammirandone la forma cardinalizia, decorativa come la danza
macabra sul muro d’ingresso. Più si avvicinano allo stato minerale, meno gli
uomini sono repellenti.
Seguo la
bara fino alla camera mortuaria, dove verranno tolte le viti e il coperchio
verrà alzato. Non credo che ci saranno saldature da dissigillare; non ho
chiesto, non voglio sapere. Devo riconoscere la salma di mio padre che non ho
conosciuto. Io almeno una scusa buona ce l’ho: è morto che ero ancora in fasce.
Un sollievo, in fondo; col tornaconto di un periodico rimpianto che mi fa
sentire più buono. Lo posso amare da lontano, senza lo scoglio della realtà,
anche se a volte ascrivo la mia debolezza al fatto di non aver dovuto lottare
con lui. Ma no! Non faccio altro da tutta la vita, come se fosse mia la colpa
che lui si è tolto di mezzo prima. Non c’è scampo. Penso ai figli del becchino.
Mi rifiuto di pensare a quelli dei due ufficiali.
Di mio
padre ho visto solo qualche fotografia, e per lo più di sfuggita, perché le mie
due donne, quando le sorprendevo assorte nel loro passatempo preferito,
sfogliare l’album di famiglia, si sono sempre affrettate a nasconderlo per
evitare i miei sarcasmi, quando non le mie sfuriate. Sono cattivo. Meno di
quanto vorrei tuttavia. Adoro la perfidia, ma poiché sono affetto dalla terzana
di una coscienza che inclina a imbrattarsi quando meno dovrebbe (press’a poco
sempre), ne faccio un uso strettamente privato, riservandola quasi con
tenerezza ai miei famigliari, come un privilegio di cui purtroppo di rado si
dimostrano all’altezza. A scanso di equivoci, quindi, ho sempre interrotto le
loro storie. Non sopporto l’elegia, disprezzo il tormento; e se della sua
assenza, di mio padre intendo, mi sono cibato per tutti i miei cinquant’anni,
ho almeno la consolazione che è stata totale. E adesso dovrei vedere quel che
resta di lui, come una vendetta postuma e l’incarnazione, si fa per dire, dei
rimproveri taciuti di mia madre e di quella poverina di mia sorella. Anche per
me è venuto il momento di pagare il fio (loro parlano così; non rinunciano al
tono, loro; non si sminuiscono come faccio io, che nascondo persino i miei
titoli). Dovrei specchiarmi nella sua polvere, raccogliere commosso i brandelli
del suo vestito funebre, misurare i frammenti delle sue ossa, al più qualche
ciocca di peluria, fibre di cartilagini, centimetri quadri di pelle
rinsecchita. Infine di mio padre non avrò conosciuto nemmeno il cadavere che
per tutta la vita, secondo le regole, mi avrebbe abitato e eroso. Di questa
giornata non potrò ricordare che i volti delle persone che mi accompagnano, i
loro gesti, il sudore dei loro crani e le loro parole senza sordina. Ben mi
sta.
Si sta
bene nella fresca penombra della camera ardente, anche se preferirei che
accendessero la luce, perché già che ci sono, quello che c’è da vedere lo
voglio vedere chiaro. Senza accorgermi accendo una sigaretta: è un miracolo che
abbia resistito tanto. Gli altri, incapaci di imitarmi, mi guardano storto, ma
io non la spengo. Essendo la camera spoglia, deposito la cenere nella mia
sinistra piegata a coppa, quasi rattrappita, come quelle che popolano, come un
marchio troppo evidente, infinite foto di guerra. Giunto al filtro, apro la
porta e la getto assieme alla cicca ancora accesa tra i sassi. Il capannello
dei curiosi mi spia da lontano. Alzo la testa nella loro direzione anch’io,
quel tanto che basta per sostenere la loro riprovazione ma non per decifrare
eventuali nuove metamorfosi. Non li voglio vedere. Voglio che si sappiano visti
mentre mi guardano, ma non voglio vederli. Penso alle ascelle delle vedove,
alle ascelle senza le vedove, poi all’odore senza le ascelle. E poi ancora
all’odore che esalerà dalla bara aperta.
Ma quando
rientro il coperchio è già stato tolto e di odore non ce n’è. Non c’è nemmeno
profumo, per fortuna. Sento esclamazioni di meraviglia che sfuggono dalle
bocche aperte dei tre uomini e dello scimunito (o dell’uomo e dei tre
scimuniti; o dei quattro scimuniti e basta). Li vedo agitarsi, e l’aiutante che
quasi mi travolge correndo verso la porta. Mi volto e chiudo a chiave. Quindi
mi dirigo alla bara, mentre i tre rimasti, ora in un silenzio assoluto, mi
fissano con sguardo sospeso, in attesa delle mie reazioni. Non ne vedranno, non
voglio dargli nessuna soddisfazione.
Il
cadavere dell’uomo nella bara è intatto. Ha i capelli, i baffi e il pizzetto
ben pettinati, i vestiti senza una piega, le scarpe lucide sui piedi ben
allineati. Due anelli gli stringono leggermente gli anulari delle mani
intrecciate sul ventre. Solo la pelle ha una sfumatura grigia di troppo, ma
forse è colpa della penombra. È un uomo di trent’anni, ma come gli uomini di
trent’anni di una volta, che sembravano un po’ più vecchi della loro età.
Potrebbe essere mio figlio; ed è come tale che lo guardo. Mio padre è mio
figlio, l’ipotetico figlio che non ho voluto, e per questo non mi interessa.
Sono meno curioso che se lo avessi trovato sbriciolato. Mi irrita questo suo
fare il fenomeno anche da morto, secondo l’esecrabile abitudine dei padri morti
giovani. Ma io non voglio irritarmi.
Piego la
testa e chiudo gli occhi per respingere l’ira. Gli altri lo interpretano come
una richiesta di restare solo e scivolano via ansiosi di non arrivare secondi a
divulgare il portento. Hanno per lo meno l’accortezza di accostare la porta. Mi
giro e la richiudo a chiave. Il movimento improvviso mi distoglie per un attimo
dal controllo dell’ira, che ne approfitta per imboccare qualche scappatoia
laterale e farmi perdere le sue tracce. La ritrovo troppo tardi, quando ormai
ha potuto defluire in vasi secondari sconosciuti e da lì diffondersi fino a
quelli periferici, nutrendosi per strada con tutto quello che incrociava e
trasformandosi in furore. Sento il furore strisciare e corrodermi come una
cancrena che mi fa marcire dall’interno; i vestiti si afflosciano su di me
impregnati del liquame che mi abbandona, le ossa si sfarinano, i tendini si
sfilacciano, i denti cadono e il cervello trova infine la sua esatta
dimensione: esattamente niente.
Intanto
fuori si devono essere radunati tutti i visitatori del cimitero, forse se ne
sono aggiunti altri, senza dubbio avranno già telefonato a mia madre e mia
sorella. Li sento vociare, chiamarmi. Qualcuno batte i pugni sulla porta.
Scorgo in un angolo un tavolino con tutti i documenti da compilare, senza
accendere la lampada individuo lo spazio per le mie firme, cerco una biro nella
tasca interna della giacca, ne esce una rossa, va bene lo stesso, firmo
diligentemente tutte le copie. Per me, possono scrivere quel che gli pare.
Firmare mi fa bene. Quando ho finito, posso dirigermi verso la porta e
andarmene.
La apro
con uno scatto secco e senza dire una parola mi fermo davanti alla folla che si
accalca fuori. Guardo quelli più vicini, non rispondo a domande né a saluti,
aspetto che mi facciano spazio per passare. Le voci si abbassano, ma non
cessano; qualcuno comincia a spostarsi, poi altri, finché si apre un varco
sufficientemente ampio. Non voglio sfiorare nessuno. Aspetto ancora e infine mi
dirigo verso la mia macchina. Non passerò da casa, non aspetterò le mie donne.
Ne intravedo da lontano le sagome in fondo al viale d’ingresso, ma il motore ha
già preso velocità. Passo loro accanto, le saluto e faccio segno con la mano
che telefonerò. Ma non voglio farlo. Telefonerò invece per tentare di ricombinare
l’appuntamento. E perché non dovrei riuscirci? Cosa vuoi che abbia da fare
quella là? E comunque ho un sacco di cose da fare anch’io.
grazie, Luigi. è bellissimo
RispondiElimina