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Affrontammo
questi primi impegni con il cuore meno pesante, perché alla levata una remissione
temporanea aveva fatto sperare che la bufera fosse finita, o almeno che si
fosse attenuata tanto da consentire una marcia non troppo disagevole, ma già
durante i preparativi il vento riprese a imperversare, trascinando ondate di
neve non si sa se dal cielo o da terra o da entrambi. I montanari della truppa
bestemmiavano ribadendo in tutte le salse terrestri e celesti che era una
follia avviarsi con quel tempo su un versante così sguarnito e esposto, e un
giovane tenente di carriera se ne era fatto portavoce con il maggiore, o
capitano o tenente colonnello che fosse, guadagnandosi come compenso un
cazziatone memorabile davanti a tutta la truppa, da lui accettato a testa alta,
sull’attenti, senza aggiungere nemmeno una parola a propria o nostra discolpa, ma,
immagino, con la coscienza a posto, ora. Come se la coscienza a posto bastasse.
Bisognava
anzi sbrigarsi, accelerare le operazioni e partire anche prima del previsto,
per evitare che la neve finisse per riempire il canale della pista che avevamo
scavato, guastando tutto il lavoro di una settimana e obbligandoci a nuovi
interventi per consolidare le pareti onde evitare smottamenti e per liberare i
passaggi più intasati. Nonostante il rallentamento che il tempaccio avrebbe
causato, dovevamo arrivare in cima al massimo a mezzogiorno, per poi scendere
per un paio d’ore fino a una malga dove avremmo consumato in tutta fretta un
rancio sommario e subito dopo proseguire per raggiungere la caserma sull’altro
versante della montagna prima del tramonto. Era tassativo! Il programma andava
rispettato, nei tempi e nei modi preventivati fin nei minimi dettagli, e se le
condizioni erano più dure di ogni previsione, tanto meglio: più gloriosa
sarebbe stata l’impresa, infinita la soddisfazione e incancellabile la memoria.
I
fiocchi sfarfallavano innumerevoli alla luce delle lampade, fluttuavano in ogni
direzione come se la gravità fosse stata abolita, solo per loro, con effetto
immediato ed esenzione perpetua: scendevano e tornavano a alzarsi, si
scontravano e univano e dividevano, poi deviavano e si perdevano lungo tutte le
diagonali del buio. Nel cavo della pista si stava depositando uno strato di
neve fresca che superava l’altezza degli scarponi e si insinuava tra il cuoio e
la lana dei calzettoni, nonostante la pressione successiva dei muli e degli
aprifila avesse stampato delle sagome profonde a cui adattare i nostri passi.
Procedevamo al buio, alzando i piedi a fatica, la testa china contro la
tormenta, stremati prima ancora di metterci in cammino, svuotati dall’umore nero
e da un furore che si ripiegava in se stesso, senza sfogo, il sangue che si
rifiutava di affluire alle estremità, la voce di uscire.
Era
tutto scuro, ma anche quando giunse l’alba dal cielo coperto riusciva a
filtrare solo un piccolo barlume di luce scura, che però pian piano si andava
illuminando come dall’interno, o dal suolo, da sotto la neve, così che tutta la
valle aveva preso quasi a luccicare, pervasa da un biancore tenue ma assoluto,
che copriva e avvolgeva tutto, le cose, gli alberi, le poche rocce che
sporgevano dalla coltre, la pista, mentre le nostre figure apparivano minuscole
macchie sfuocate, puntini grigioverdi in rapida dissolvenza, in dissolvimento
in tutto quel candore, come se anche la nostra materia si stesse sciogliendo
per fondersi con tutto il resto, assimilata, resa nulla e pacificata.
Eravamo
una lunga fila di sonnambuli, o piuttosto di ectoplasmi di sonnambuli,
ologrammi a bassa definizione sempre in via di svanire, che scorrevano
silenziosi su un binario nascosto nella neve: la rassegnazione incarnata,
l’apoteosi dell’esercito, il sogno realizzato dell’autorità. Ufficiali inclusi
però. A parte il maggiore, o capitano o tenente colonnello che fosse, che aveva
un ruolo da sostenere, una sua dignità da sventolare nel vuoto. Anche se al
momento si limitava a guardarci dallo spiazzo davanti alle malghe; non vedendo
che il niente, peraltro – per dirla con un’immagine che ha l’unico merito di
definirlo alla perfezione. Io, secondo gli ordini, stavo in fondo alla fila,
seguito dal dottore, da un sergente maggiore che aveva firmato il prolungamento
della ferma perché si era innamorato di una bellissima autoctona, che poi lo
aveva addirittura sposato seminando grossi dubbi sul suo discernimento e
facoltà limitrofe (l’entusiasmo con cui la famiglia aveva dato il suo assenso
li aveva poi fugati tutti con una clamorosa controprova genetica), e dal
sunnominato tenente, militare di terza o quarta generazione, figlio di un
generale a tre stelle, imprevedibilmente intelligente e colto, che ogni tanto
indulgeva a parlare di libri e cinema con il sottoscritto. Imprevedibilmente
secondo la mia supponenza e i miei schematismi di allora.
Un
giorno mi aveva rivelato, non so a qual fine, di aver letto Marx e di
condividere alcune delle sue idee: alcune, non tutte; ma forse era solo una
tecnica per farsi benvolere, un modo per strappare informazioni ben più
compromettenti. Nella truppa pascolavano sovversivi o presunti tali; alcuni, in
libera uscita, si incontravano pure con giovinastri locali dalle idee poco
sudtirolesi. Si era nel febbraio del 1972. Tralicci saltavano su quelle
montagne e altri stavano per essere vanamente minati altrove. A me il tenente
sembrava sincero. Per nulla ingenuo, e sincero. Ma forse l’ingenuo ero io.
Io,
come detto, stavo in fondo alla fila, unico soldato senza arma, con la fondina
del revolver gonfia solo di una sagoma di legno, il bauletto dei medicinali
sulle spalle, leggero leggero, e lo zaino legato al basto dell’ultimo mulo,
assieme a quello del dottore, che mi seguiva privo di altri impedimenti al di
fuori del suo corpo impacciato, piccolo e rotondo, non allenato, che aveva
visto la neve solo da lontano, sulla cima dell’Etna, senza aver mai avuto il
desiderio di toccarla con mano, mentre ora quasi vi sprofondava, con poco più
del collo che sporgeva dalle pareti della pista, i piedi che si trascinavano a
fatica, il corpo compresso sotto abiti pesanti che non era abituato a
indossare, il freddo che mordeva la pelle che già a aprile si bagnava nel mare.
Io ogni tanto gli rivolgevo la parola, per fargli sentire la mia presenza nel
buio davanti a lui, al di là della parete di neve che vibrava davanti ai suoi
occhi, per tenerlo sveglio, dispensargli un po’ di forza, come se io ne avessi
in esubero, da gettare al vento delle buone intenzioni, come un bengala sparato
nella notte, da consumare nella gloria dell’autocombustione.
Si
camminava piano, i muli spesso si bloccavano e ci volevano i santi a smuoverli,
i soldati inciampavano o finivano addosso a chi li precedeva non appena
rallentava o prendeva una pausa. Di avvisare, chiamare, mandare un segnale
qualsiasi mancava, più ancora delle forze, la voglia. Nessuno aveva intenzione
di sprecare il fiato, di liberare la bocca dal passamontagna ed esporla al
gelo. Nessuna parola gelata pioveva dal cielo. Nessuno prestava attenzione ad
altro che a se stesso. Così spesso finiva per farsi del male, per perdere
l’equilibrio, inciampare sull’altro e cascare a muso in giù nella neve.
La
testa della fila era già nei pressi delle malghe superiori quando arrivò la
notizia. Come una scossa elettrica di incredulità e di paura che fece schizzare
il sangue, di colpo, verso la periferia a irrorare i muscoli gettandoli in
un’agitazione frenetica senza altro scopo che il proprio scatenamento
momentaneo, galvanico, e compresse tutta l’aria dai polmoni nella gola,
ricacciata indietro dal panico a bloccare ogni gesto, per ristabilire una stasi
immemoriale, il presunto equilibrio della materia inerte, la salvezza minerale.
Una slavina ha travolto gli alpini! Venti, trenta...! C’è bisogno di tutto,
pale, coperte, medicinali... Chiamate il dottore, l’infermiere, fateli passare,
veloci! ...e avvisate il comando più vicino con la radio, chiedete aiuto anche
a loro!
Non
era così semplice fare in fretta, per noi... sorpassare soldati e muli! Il
passaggio era stretto, la ressa grande, la confusione ovunque. Tutti volevano
accorrere in aiuto, ma le pale erano contate, i muli non potevano essere
abbandonati, e il pericolo che altre masse di neve seguissero la prima sempre
incombente. Più di tutto serviva ordine, organizzazione: quello a cui avremmo
dovuto essere più addestrati; quello che invece, in quei momenti, più veniva a
mancare. Io e il dottore avremmo dovuto avere la precedenza, la strada libera,
aperta al nostro passaggio, e invece incontravamo ostacoli a ogni passo, gente
che si muoveva ubriaca, cadeva, procedeva a strappi, altri che dondolavano come
in una preghiera meramente corporea, in una specie di inno disperato dell’anatomia,
e i muli che si mettevano di traverso, contagiati dall’agitazione anche loro,
zaini che cadevano tra i piedi, pezzi di obice che scivolavano a terra, da soli
o con tutto il basto a cui erano fissati. Io ero un buon camminatore di mio e
in più ora, per essere stato gentilmente
assegnato a tutte le sacrosante marce e esercitazioni, ero allenato, mentre il
buon dottore, già scarsamente predisposto al movimento in condizioni normali,
era alla sua prima vera uscita e in quella situazione si muoveva a momenti come
dentro uno scafandro di acciaio, e in altri a scatti, come un robottino,
cadendo a ogni passo, rigido, col solo sguardo vivo, ma di terrore. Allora lo
prendevo per mano, lo rialzavo, e lo lasciavo solo quando sembrava che
riuscisse ad avanzare con le sue forze, correvo avanti ma durava poco, non ce
la faceva a starmi dietro, subito qualcuno mi chiamava, lui o un altro che nel
frattempo si era interposto, e quindi dovevo tornare a raccattarlo, lo prendevo
sotto le ascelle, per un braccio, e lo trascinavo, per abbandonarlo di nuovo
quando le richieste di aiuto riecheggiavano più forti, più pressanti. Correvo,
arrancavo, sostavo, mi precipitavo, ma una volta sul posto cosa avrei potuto
fare io da solo? Che ne sapevo? A distinguermi da qualsiasi commilitone era
poco più che la denominazione dell’incarico: aiutante di sanità. Aiutante! Poco
più di un servo! Uno che dà una mano a chi sa e può, ma che da solo non è in
grado di fare alcunché. Nient’altro che essere lì. Aiutare in qualsiasi cosa
venga richiesto. Cercare, quantomeno. Tentare. Niente di più. Capace solo, al
massimo, di eseguire ordini. Purché chiari, dettagliati.
Trovai
la baita grande invasa dagli alpini scampati, sconvolti, frastornati,
prostrati. In un angolo, vicino a un camino, sdraiati sui sacchi a pelo, sotto
pile di coperte, c’erano quelli che erano già stati estratti dalla slavina,
scioccati ma solo ammaccati, o feriti in modo leggero. Ragazzi che stavano
verso i bordi e che quindi erano stati coperti da poca neve, e che in genere ce
l’avevano fatta a venirne fuori quasi subito, da soli o con l’aiuto dei
compagni più vicini. I due cadaveri recuperati sino a quel momento erano stati
invece deposti in una malga più piccola lì accanto, la porta sorvegliata da una
guardia armata, con l’ordine tassativo di far entrare solo gli ufficiali e il
medico, quando fosse arrivato, per certificare il decesso. Non c’era niente che
potessi fare. Nessuno aveva bisogno di me. Allora mi diressi verso il luogo del
disastro. La slavina era caduta a pochi passi dalla spianata dietro le baite.
Parte di essa aveva travolto il tratto che per 5 giorni avevo scavato io: dove
stavo ancora il mattino prima, fingendo di rifinire i lavori, che non ne
avevano più bisogno peraltro, e in realtà, appena potevo, seduto sul pastrano,
nascosto dalle pareti di neve, a leggere il Fedone. Le belle fantasie sulla
morte e l’anima e il resto. Quei teneri ricami.
Chi desiderasse leggere tutto il racconto, può richiedermi il pdf via Facebook o a questo indirizzo:
luigi-grazioli@virgilio.it
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Chi desiderasse leggere tutto il racconto, può richiedermi il pdf via Facebook o a questo indirizzo:
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