Dopo la pubblicazione dell'ultimo post, La perfezione come scusa:
http://grazioliluigimario.blogspot.it/2017/06/la-perfezione-come-scusa.html
Il buon amico Federico De Leonardis mi posta questo commento su Facebook (con preghiera di pubblicarlo a commento sul blog. Copio anche qui per comodità:)
Tutto Grazioli in 25 righe: la modestia fatta scrittura, un lumacone senza guscio che ritira gli occhi quando arriva una macchina a schiacciarlo sull'asfalto. Potrebbe avere culo e arrivare all'umida erbetta dall'altra parte della strada: un terno al lotto. Potrebbe, sarebbe, vorrebbe, avrebbe... tutta una serie di condizionali che ci fanno precipitare nella profonda tristezza che emana dalla stanza di un povero pittore del seicento olandese che per un attimo ha un'intuizione: niente ha valore se non quest'istante qui, questo specchiarsi nella mediocrità, nella sporcizia, nelle scrostature dei muri, nell'ombra del mio strumento, il cavalletto.
Pardon, la penna ( meglio oggi la tastiera del digitale).
Perfetto.
Vorrei ricordarLe però, caro Luigi Figueroa, che Rembrandt era ricco, potente e prepotente e che aveva quella cattiveria che Lei ha dimenticato di possedere e che io, Federico De Leonardis, apprezzo più di ogni altra sua qualità artistica.
RISPONDO Io
In quel periodo Rembrandt non era ancora ricco e poi finirà povero. La cattiveria c'è cher monsieur Federico De Leonardis anche in questo stesso pezzo. Non importa chi ne è l'oggetto, che lei, peraltro con una certa pertinenza (ma sostanzialmente anche no) legge in modo personale, quasi che si parli del sottoscritto sdoppiato in un Quiroga che scrive e in un Figueroroa che ne sarebbe l'oggetto. Tutto vero, e limitatissimo, cioè falso
FDL commenta il commento:
Tanto per stopparla lì, Le risparmio la mia risposta (pertinente, pertinente...), se pubblicherà il suo post sul lumacone (a meno che non l'abbia già fatto)
LG (io) gli obbedisce mettendo tutti i link (sono 4 in tutto:
http://grazioliluigimario.blogspot.it/2014/01/luce-di-ferragosto.html
http://grazioliluigimario.blogspot.it/2014/08/lepopea-dei-lumaconi-continua.html
http://grazioliluigimario.blogspot.it/2014/09/bruco-oblomoviano.html
http://grazioliluigimario.blogspot.it/2014/10/quattro-minuti.html
(ps. le immagini che vedete qui sono tratte da quest'ultimo)
dopo alcuni giorni FDL mi scrive di nuovo (vole metterlo a commento, ma è troppo lungo e non viene preso: per questo viene messa qui tutta la spataffiata al completo...)
Uno sguardo dal ponte: riflessioni su Rembrandt digitale,
lumaconi e Duchamp
Per la lettura di questo post rimando a quello di Luigi
Grazioli, pubblicato qualche giorno fa (La Perfezione come scusa, su grazioliluigimario.blogspot.com
), al mio commento e alla sua risposta,
sullo stesso.
Caro Luigi, mi scuso del peso aggiuntivo di cui ti carico
costringendoti a questo dibattito (con tutto quello che hai da leggere!), ma
precisione vuole che io non mantenga la promessa di non replicare alla tua
risposta se tu avessi pubblicato la storia del Lumacone; cosa che puntualmente
tu hai annunciato di aver già fatto (naturalmente hai mangiato la foglia della
mia sollecitazione, che serviva ai tuoi lettori per capire il mio ragionamento
sui pericoli dell'attraversamento
stradale da parte di esseri lenti, ai quali penso apparteniamo entrambi).
Figueroa giustamente replica che chi scrive è anche Quiroga
e Monsieur De Leonardis ora qui (ma anche quando ha scritto il suo commento)
teme addirittura che potrebbero saltar fuori anche Ricardo Reis,
Alberto Caeiro, Bernardo Soares ecc. Quindi è perfettamente cosciente
della cattiveria che ha esercitato insinuando che Grazioli avesse fatto un autoritratto.
Ma era a fin di bene, per invitarlo a
esercitare con più decisione la sua non solo letterariamente (come aveva fatto
prendendo per il culo i perfezionisti). E c'è riuscito, vista la reazione un po’
scomposta:
Infatti sei scivolato su una buccia di banana: intanto
Rembrandt a 23 anni non era povero: il papà mugnaio apparteneva alla classe
media benestante e colta (come insegna anche Il formaggio e i vermi) e poi lui, dopo dieci anni di lavoro (si
cominciava prestissimo allora a non fare i bamboccioni) era già ufficialmente
un maestro, con tanto di bottega, molte commesse da parte di potenti ammiratori
e alla vigilia di partire per Anversa (citazione da Benn), pardon Amsterdam,
per avere già da subito là uno studio affollato di allievi, tutti paganti fior
di fiorini e ansiosi di apprendere la sua maniera. Non era affatto povero e, se
non posso mettere la mano sul fuoco circa la sua cattiveria, posso affermare
che era un artista perfettamente cosciente del proprio valore e molto deciso a
valersene con una certa prepotenza. Virtù dubbia la prepotenza, è vero: i
lumaconi non si spintonano, al minimo urto ritirano le antenne e si arrotolano
su se stessi, aspettando il momento giusto per ridistendersi e, avanzando,
lasciare dietro a sé la famosa bava, preziosissima non solo in letteratura, ma
letteralmente (scusami il jeu de mot, ma recentemente a causa della persistenza
di una tosse secca mi son sorbito uno schifosissimo sciroppo cavato da quella:
informatevi coi vostri whatsapp se dico balle!). Adottarla o meno è una scelta
legittima, un po' autolesionista nel secondo caso, ma legittima e affonda le
radici nella propria storia infantile.
Non è questo che volevo ribattere parlando di banane, ma il
fatto che, diffondendo cultura (i social lo sono per antonomasia), condisci i
tuoi interventi con foto e immagini varie ai tuoi post e lo fai con competenza
e pertinenza: non sono il solo a dimostrarla nel campo avverso - sottolineo
l'aggettivo, ma la tua riproduzione dell'autoritratto è decisamente troppo
scura). Che male c'è? Dirai. Già. Evviva facebook, evviva il digitale, evviva
l'immagine piatta, elettronica e con la luce da dietro: è tanto democratica! Ma
noi siamo snob, subiamo molto la attuale democrazia e amiamo quella diretta
(democrazia e luce), riflessa, opaca e tangibile (ti ricordi la mostra di
Chardin a Ferrara?).
No, siamo seri, non ho nulla contro le tue immagini, fai
bene a condire i tuoi scritti, del resto perfettamente autonomi e indipendenti
dalle stampelle visive, ma l'altro giorno, aprendo la tua rivista (00
Doppiozero) mi capita di scorrere
(confesso di non aver avuto la pazienza di leggerla attentamente) l'esegesi di
un'esegesi: indovina su chi? Ma sì, naturalmente il solito Duchamp. L'esegeta,
l'ultimo della serie infinita, era tuo fratello e dell'esegeta dell'esegeta non
ho avuto cuore di ricordare il nome: a' nen pei pu (al mio paese: non ne posso
più!).
Tornando a noi allora: Rembrandt non era povero (anche se in vecchiaia, per
speculazioni finanziarie andate a buca lo era diventato), ma la stanza in cui
si ritrae (pare proprio che quel 25x32 sia veramente suo e non di Jan Lievens),
sì. Perché è sempre una constatazione della propria miseria il momento in cui
da giovani ci si rende conto della caducità della vita e del dominio del tempo.
Ma è povera nella forma, attraverso la forma: non mi ricordo più chi ha affermato
che per un pittore una qualsiasi tragedia è sempre in definitiva un colore. Non
per Duchamp, sia chiaro (e tu, fedele fratello, lasciami spezzare una lancia
contro Elio e il suo persistere a
commentare l'amato maestro: di scacchi).
Purtroppo noi qui (plurale solo maiestatis) ci attardiamo a
chiacchierare, mentre quello dipingeva (e come!): opaco, addirittura denso,
corposo. Ma il digitale non lo riporta.
sempre a colpi di fioretto, dunque. vocazione agonistica. a proposito del trasferimento della forza della lancia a quella della parola...
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