Guardo
quest’uomo che il caso mi ha messo di fronte sul treno che mi porta a Firenze,
ne osservo il volto e i vestiti, poi passo ai tre braccialetti d’oro al polso
destro e alla mano che tiene le pagine di un giornale sportivo spalancato sul
tavolino, sul quale vedo ripiegato un altro giornale sportivo, un volume
seminascosto di cui un po’ frustrato non riconosco né il titolo né la collana,
un pacchetto di Lucky Strike e un telefono cellulare, e penso: “Quest’uomo va a
Roma; quest’uomo è un romano”.
Mentre
lui continua la sua pignola, sistematica lettura prima di un giornale e poi
dell’altro e io quella di un libro che mi entusiasma come da tempo non mi
accadeva, quando ogni tanto alzo gli occhi o prendo una pausa per accendere una
sigaretta o vengo interrotto dal suono di un cellulare che fa sobbalzare anche
lui inducendolo ogni volta a controllare che non sia il suo (e ogni volta non
lo è, così che alla lunga la frustrazione lo costringe, non prima di averlo
passato in rassegna ben bene centimetro quadrato per centimetro quadrato, a
usarlo per chiamare qualcuno che – ovviamente: mi vien da pensare – non
risponde, mentre prima o poi a tutti gli altri cellulari, uno per ogni tavolino
che posso raggiungere con lo sguardo, più numerosi altri che risuonano in tutta
la carrozza, – in particolare quello di un signore cieco seduto una fila più
avanti che risponde sempre prontamente con una voce squillante, come a
compensare alzando il tono l’impossibilità di vedere: ma di vedere chi,
l’interlocutore?, quasi che gli altri il loro lo avessero lì davanti –, si
avvia una comunicazione che riesco ad ignorare senza sforzi, con l’eccezione,
per un po’, di quella di una signora accomodata nella fila alla mia destra
intenta a studiare, con una matita in mano pronta a sottolineare e a prendere
appunti, un libro intitolato La scrittura
e l’anima, che tratta però non di letteratura o di religione ma, più
correttamente, di grafologia, perché a un certo momento la signora usa,
lasciandomi esterrefatto, l’espressione «è
mancato ieri», un vecchio zio, zio
Carlo, obbligandola di conseguenza a una frettolosa partenza per quella che a
questo punto non posso esimermi dal chiamare la città eterna); poco a poco
immagazzino i suoi tratti somatici, che tutti, infatti, mi sembrano confermare
la mia impressione immediata che quest’uomo è un romano, non può che essere un
romano, un vero romano, ma senza spingermi ad andare oltre o a cercarne la
motivazione: io sono preso dal romanzo che sto leggendo, il treno scivola senza
scosse con un bisbiglio monotono che fa di tutto per farsi dimenticare, di modo
che la registrazione avviene progressivamente, un tratto per volta e come da
sola.
Da sola
si è formata la certezza di trovarmi di fronte a un romano, nonché, decisiva,
la frase: “quest’uomo è un romano”, senza che essa avesse, né abbia tuttora
altre implicazioni. Una pura constatazione, se ce ne sono. Mentre proseguo
nella lettura, l’unica cosa che percepisco con continuità del romano è il
respiro, regolare ma, nel silenzio che non può essere tale di un treno comunque
in corsa e pieno di gente discreta ma viva, rumoroso. Registro anche il
respiro, che pian piano si trasforma in un ritmo non voluto che si accorda con
perfida naturalezza alla prosa del mio romanzo, alla sua sintassi molto
complessa, persino confusa a prima vista, ma che si dipana non appena ci si
affida, come ho avuto modo di verificare leggendone ieri alcune pagine ai miei
studenti, alla scansione della voce, e quindi al respiro.
Anche il
respiro del romano ha un ritmo tutto suo, particolarissimo anche se uniforme,
al quale tuttavia quello del romanzo, o della mia lettura, sembra adattarsi
senza fatica, accompagnandolo più che soggiacendovi. Così non ne sono
disturbato e continuo a leggere più di un’ora, finché mi vien voglia di
prendere un caffè.
Al
ritorno dal barettino, nel corridoio di passaggio tra una carrozza e l’altra,
davanti alla toilette, incontro un poeta che non vedevo da anni. Nonostante i
miei capelli grigi e i suoi lineamenti più gonfi ci riconosciamo subito, ci
salutiamo affettuosamente, ci scambiamo fulminee informazioni, generiche e
sincopate, sulle rispettive esistenze e attività, specie lui, dietro mie
sollecitazioni derivate anche dal rimorso di non aver risposto all’invio di due
dei suoi ultimi libri, e promesse di sentirci al più presto, meglio se dopo
Pasqua, perché ora ha molti impegni, dice lui (quando di conseguenza sarà
facile che entrambi avremo dimenticato questo impegno, penso io, anche se ora
che l’ho scritto è difficile che almeno io me ne dimentichi per davvero),
scusandosi di dovermi lasciare perché fra poco deve scendere e sua moglie a
questo punto magari starà pensando, ansiosa com’è, che si sia perso. Eh sì, i
treni sono labirintici, confermo, prima di dirigermi verso il mio posto, ansioso
anch’io di riprendere la lettura.
Il mio
vicino nel frattempo è passato al volume, che ora riconosco come una raccolta
di fumetti, sulla cui copertina nera patinata riesco finalmente a decifrare, se
non le figure colorate, almeno il titolo, scritto in caratteri gotici: ElfQuest, che tuttavia non mi fornisce
ulteriori informazioni sul suo contenuto, e quindi sul lettore, a parte un
sospetto di magia e avventura, mondi incantati, natura selvaggia, elfi, fate,
bellezze capziose e eroici cavalieri di vaga ascendenza celtica. Fantasy insomma. Paccottiglia.
Mitologicume. (Sono uno stronzo.)
Ho da
poco ripreso la mia lettura che il treno si ferma a Bologna. Cambiano molti
passeggeri ma ovviamente il mio dirimpettaio, essendo romano e quindi diretto a Roma, resta al suo
posto, mentre quello accanto, finora rimasto vuoto, viene occupato da un
giovane dai capelli corti ma, come credo si dica, scolpiti col gel, sia pure in
forma per niente vistosa. Ha una bella faccia, intelligente, mi sembra, a meno
che la mia impressione non sia indotta dalla grossa cartella portadisegni che
ha appoggiato contro la sua poltrona sul pavimento del corridoio. Ma allo
stesso modo forse, mi vien da pensare, è da ciò che narra il romanzo che sto
leggendo, dall’importanza che Roma riveste per il narratore, per la sua vita e
per la sua possibilità stessa, a suo dire, di pensare e di narrare, più che dal
fatto che questo treno sia diretto a Roma sommato a qualche stereotipo
fisiognomico, culturale e sociale, che mi è venuta la convinzione che l’uomo
che mi sta di fronte è un romano.
Sì, può
anche essere, mi dico come a tagliar corto un filo che mi sembra meno
interessante da seguire, o più perturbante, del romanzo da cui sarebbe
scaturito. Ne riprendo dunque la lettura accompagnato dal respiro del romano
che però, chissà perché, quasi subito mi sembra di percepire come ancor più
rumoroso. È lo stesso di prima, ne sono certo, eppure adesso lo sento in
maniera distinta e lo sento come veramente rumoroso, pesante, animale.
Nel
momento in cui lo avverto, avverto anche la mia mente che cerca una parola per
definirlo, e come prima, senza che lo volessi, aveva definito lui romano, ora definisce il suo respiro animale. E tutto in lui, ora, mi sembra
animale, così come, prima, tutto mi era sembrato romano. Non un romano di oggi,
mi dico adesso che dal secondo aggettivo sono costretto a pensarci con una
urgenza che prima il riferimento al romanzo non aveva suscitato: piuttosto un
romano antico, ma un romano antico come sarebbe oggi. Guardando meglio il suo
viso, infatti, mi accorgo che è esattamente quello di molte statue del periodo
imperiale: i capelli sono corti e a ciocche ondulate, alta la loro attaccatura
alla fronte che due rientranze ai lati rendono più spaziosa, carnose le labbra
e leggermente bovini gli occhi, verdi su uno sfondo giallo paglierino. Tutti
elementi che, se prima mi erano parsi romani, i tratti di un antico romano oggi
e non di un odierno, cinematografico borgataro – nonostante gli scarponcini
nuovi, la camicia a quadri, il cellulare e soprattutto i braccialetti d’oro sul
polso forte, giuntura esatta a un corpo massiccio ma non grasso, un corpo
massiccio e forte che necessita di giunture solide
–, e neanche di un fascista – come mi porterebbe a supporre la costellazione
giornali sportivi \ tifoseria romana \ percentuale di fascisti a Roma \ fumetto
fantasy (vergognandomi immediatamente della mia stupidità e di un
criptorazzismo da cui mi sono sempre illuso di andare esente) –, ora mi fanno
pensare, anzi mi rendono sicuro, di essere di fronte a nient’altro che a un
animale. E non lo penso in senso dispregiativo (mi accorgo con sollievo), bensì
come una nuova constatazione di fatto, e in quanto tale più positiva che
neutra, perché soggiacente c’è la sua accettazione, e nessun rifiuto e nessuna
sfumatura critica più o meno mascherata; quasi una forma di rispetto invece.
La
consolazione suscitata dall’affiorare di quest’ultima parola sarebbe completa
se in essa non si insinuassero, quasi immediatamente, tutte le altre che hanno
messo in moto il processo (ahi ahi!) che mi ha portato a essa e che ora mi
sfila davanti polverizzandola come una cortina inconsistente quanto
gratificante, e anzi: la parola,
l’aggettivo animale e, alle sue
spalle, che stava prima ma ora si unisce a essa, tanto da farmi pensare a una
parola sola, il sostantivo uomo. Che
adesso mi turba, così vicino a quell’altra, come una prossimità, una
congiunzione teratologica. Una
congiunzione alla quale l’aggettivo sostantivato romano, piuttosto che da trait d’union, fa da vertice, come in un
triangolo osceno, un mostro a tre teste alla cui origine ci sono, solo
genitore, solo io.
L’una e
l’altra parola, e la terza tra di loro, non sono niente prese a sé, o anche
tutto se si preferisce (o molto, quantomeno), ciascuna con la sua storia e il
suo carico di senso e di effetti, ma ora, qui, loro due assieme, e entrambe
assieme alla terza, e tutte e tre assieme a me e a questa persona di fronte a
me, assieme loro e noi, sostantivo e aggettivo e io e lui, e la terza tra di
noi, sono, siamo, teratologia allo stato puro. Che, ora che io scrivo e lui si
è addormentato, si impone e trova la sua conferma definitiva, la sua
validazione indiscutibile, senza altra possibile discussione o giustificazione
o scongiuro. Il suo punto fermo.
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