Credo
valga la pena di ritornare* su Seminario
sulla gioventù di Aldo Busi (Adelphi, 1984, p. 353, £ 16.000) e di analizzarlo più da vicino, come romanzo,
non tanto per interesse locale o perché è stato presentato come l’ennesimo caso
e scandalo letterario, quanto perché, pur tra i molti problemi che suscita, il
libro lo merita, per le doti che lascia intravedere e le ambizioni che lo
animano. Un po’ di ambizione non guasta certo quando un libro è costato venti
anni di lavoro e quattordici stesure, ed è anche un sintomo di positiva
vitalità, specie laddove il libriccino lindo e ben curato sembra essere la
mediocre norma.
Busi ne è
cosciente (dal suo secondo libro, già pronto, si aspetta infatti che lo
riconfermi “non solo scrittore italiano ma anche scrittore europeo”; bisogna
accertarsi però che tale lo riveli il primo) e non ha paura della dismisura,
che è anzi una delle costanti del suo romanzo, anche a rischio di tonfi e
stonature.
Non mi
riferisco tanto alla dismisura vitale sistematicamente perseguita da barbino,
il protagonista, quanto a quella stilistica, che della prima è fors’anche il
riflesso o il prodotto necessario, ma che può abbassare il livello della
narrazione alzando invece quello retorico. Certo, con un personaggio e
situazioni come quelle di Seminario,
e se programmaticamente non si rinuncia dire nulla, bisogna anche avere il
coraggio di rischiare la retorica (a meno di procedere a una quindicesima
stesura e ad ampi tagli, o di cambiare in gran parte il tono del discorso), e
questo rischiare ed esporsi piace, ma quando le cadute si infittiscono, allora
crescono anche i dubbi.
In una
sua intervista Busi accenna al “diaframma che separa la verità dalla
scrittura”: i fatti narrati sono veri, ma il tempo del ricordo e l’azione della
scrittura ne fanno “fiabe apocrife” che dovrebbero ubbidire solo alle leggi
della finzione romanzesca. Dico “dovrebbero”, perché proprio da qui credo
derivino le maggiori difficoltà del libro. Ora, l’attraversamento del diaframma
e le leggi del romanzo, lungi dall’essere fissate una volta per tutte, devono
essere rifondate o ristrutturate da ogni scrittore, ma è appunto questo che Seminario non sempre riesce a
raggiungere. Busi infatti compie un continuo andirivieni al di qua e al di là del
diaframma, incapace non dico di rinunciare a uno dei due versanti, ma di
subordinarlo all’altro in modo coerente, così che anche le leggi del suo
romanzo ne risultano talvolta confuse, a grave discapito delle numerose parti
di impianto per lo più tradizionale nelle quali la narrazione è stilisticamente
più fluida e non meno interessante. Tale confusione agisce a più livelli che
cercherò di esemplificare schematicamente.
Quando un
fatto, o una frase o un sentimento entrano in un romanzo, poco importa che
corrispondano a qualche verità esterna: è al romanzo che da quel momento
appartengono. Così, che il padre fosse veramente tale, che la Nanda sia
veramente diventata una puttana, che la levatrice abbia veramente detto la
frase storica sull’“è funesto a chi nasce il dì natale” ecc., poco importa, se
poi ricalca cliché adusati e aumenta la prevedibilità romanzesca. Se invece le
cose non sono “veramente” andate così e sono state inventate apposta, è ancora
peggio. Già la loro scelta implica la coscienza di eventuali richiami e
corrispondenze, soprattutto quando si tratta di modelli largamente noti.
Così
anche il protagonista (la cui infanzia, che pure non manca di episodi notevoli,
risponde al principio didascalico: ecco come ti fabbricano, o cresce, il futuro
omosessuale-artista nel cupo mondo contadino), quando viene presentato come maudit è ai maudits letterari che deve essere rapportato, sia che lo si intenda
seriamente sia che si segnalino le distanze. Come maudit però è in ritardo, a mio parere, e anche poco estremista,
tanto che la sua volontà di “infettare il mondo” non si preoccupa di coniugarsi
con sentimentalismi caramellosi da bravo ragazzo compassionevole (“povera
Arlette”, “povera Comare Volpe”, poveri tutti; ... e il cioccolatino di papà
che ti fa piangere di gioia, e la sberla data alla sorella che pesa e peserà
più di tutte quelle prese...). Anche la volontà di scandalizzare e di prendersi
rivincite, che non mancano di certo (sia detto per inciso, trattandosi di
aspetti secondari) mi sembrano l’una ultradatata, l’altra poco pertinente: se
Busi ha scritto il suo libro per scandalizzare beghine e circondario, sicuro
che ci riuscirà, ma se l’ha scritto per scandalizzare e rivendicare a più largo
raggio è fatica sprecata, c’è già arrivata anche la televisione a queste cose;
né questo basta a scrivere un buon libro, come non basta la volontà di
rivincita, che pure può essere un ottimo motivo per cominciare a scriverlo, il
libro.
Tutto
ciò, e l’inflazione retorica e degli stereotipi, credo dipendano dalla
fondamentale confusione tra chi narra e il protagonista (non dico tra Busi e
barbino, anche se spesso c’è motivo di pensarlo), dalla difficoltà di
distinguere chi sta parlando. Se l’ironia del titolo e i paragrafi iniziale e
finale istituiscono infatti una distanza rispetto a ciò che è narrato e detto,
ciò non basta ad introdurla anche nel resto del testo, che deve quindi essere
accettato seriamente (salvo non prendere sul serio nulla), tanto più che di
ironia sul protagonista non ce n’è mai, o è tanto diffusa da sembrare
invisibile, né si può dire che egli cambi in modo tale da differenziare i punti
di vista da una fase all’altra della sua vita e della narrazione.
L’unica
carriera che Barbino si riconosce infatti è di “diventare ‘io’”, ma questo
“io”, eccetto forse la fase infantile in cui impara a riconoscerlo, egli
teleologicamente già lo possiede dall’inizio, né cambia pur nel gusto
conclamato della metamorfosi, nella sua attitudine a eclissarsi e a inventarsi
i propri passati ecc. La felice riuscita del progetto è così assicurata, ed
egli diventa “io” talmente bene da assimilarsi anche tutto il resto o quasi:
niente cioè (o quasi) è quello che è, ma solo (o soprattutto) lo spunto per
riflettere, riflettersi addosso, spiegare e spiegarsi, privando spesso di
interesse anche ciò che potrebbe suscitarlo e trascinandolo nella maniera. Non
a caso le parti migliori del libro, più numerose nella seconda metà, sono
quelle in cui Barbino, pur raccontandosi, per così dire si dimentica e diventa
personaggio tra gli altri, che in tal modo riescono a raggiungere una loro
autonomia.
Ma
eccessiva rimane la tendenza al giudizio e alla massima esistenziale e morale
(evidenziata dalla frequente collocazione in chiusura di paragrafo), tanto che
Barbino finisce per identificarsi in un moralista non privo di sensi di colpa,
molto propenso a giustificarsi e nemmeno troppo cattivo (semmai troppo poco).
Un bravo ragazzo anzi, come dicevo, ingenuo e disinteressato, che ha solo
spostato il suo grande desiderio di purezza dalle azioni al proprio io, che
deve essere mantenuto rigorosamente incontaminato; poi, come per certi eretici
e mistici, è possibile fare tutto, ad anzi peggio si fa dal punto di vista
“normale” e meglio è (magari con la complicazione del “così imparano”: il padre,
Giacomino ecc.). Ma poi che male fa Barbino? Niente di niente, a nessuno. E’
omosessuale; e con ciò? C’è chi si indigna, ma qualcuno disposto a indignarsi
lo si trova sempre. Barbino, lui, è onesto, sincero, non tradisce i segreti,
non si fa comprare: è puro insomma. Sarebbe molto meglio se qualche volta
rinunciasse a dire la sua su tutto e che in compenso narrasse di più, visto che
quello dimostra di saperlo fare bene e che di storie da raccontare ne ha,
facendo attenzione a non ripetere quelle che già conosciamo.
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