Gonçalo M. Tavares ha quarant'anni, insegna teoria della scienza all'università di Lisbona e è autore di un cospicuo numero di opere narrative che gli hanno valso numerosi e prestigiosi riconoscimenti internazionali.
In Italia sono già stati tradotti vari libri ma la ricezione non è stata molto vasta. E' auspicabile che questo romanzo la estenda, con effetto di ritorno anche sui libri precedenti, tre dei quali editi da Guanda (Il signor Valéry, 2005, Gerusalemme, 2006 e Il signor Calvino, 2007). Lo merita: è un uno scrittore notevole, come dimostra anche questo Imparare a pregare nell'era della tecnica, premiato nel 2010 in Francia come miglior libro straniero.
Il romanzo narra la storia della formazione, ascesa professionale e politica e declino per malattia di Lenz Buchmann, figlio di un militare di cui ha assunto in toto visione del mondo e valori, anche se non la carriera. La voce narrante la racconta in modo tagliente, come il bisturi del cui uso il protagonista è un maestro, e con il distacco dello scienziato che segue un esperimento, alternando focalizzazioni su aspetti generali del personaggio e riflessioni astratte ma sempre ricondotte a qualche elemento di concretezza, a piccoli episodi che se suonano in prima istanza come illustrazioni o esempi, vengono poi a costituire tante tessere di un puzzle che pian piano dà luogo a una storia lineare e compiuta.
Il libro è composto di tre parti di lunghezza diseguale, suddivise in brevi capitoli a loro volta segmentati in capitoletti che spesso non arrivano a una pagina, tutti dotati di un titolo che a prima vista, come quello del romanzo, sembra non riguardare il testo successivo, ma agisce in funzione ironica, antifrastica o spaesante, come a suggerire che niente va letto (solo) come si presenta e per cosa dice, a maggior ragione quando il discorso è diretto, esplicito, dichiarativo e descrittivo, quasi a fotografare un dato di fatto, a darne un resoconto oggettivo, o addirittura scientifico. Assieme, questi titoli formano un indice di 9 pagine che vale la pena leggere anche da sole, come un racconto autonomo in cui si rifrange l'architettura del libro e che mostra quanto, attorno a una fabula semplice, la sua scrittura sia complessa e ricca di sfaccettature, pieghe, rimandi, implicazioni, variazioni, scarti e stratificazioni.
Il narratore è esterno, ma assume spesso il punto di vista del protagonista per meglio esporne la visione del mondo e il comportamento, facilmente riassumibili nei termini dell'arte della guerra a cui Lenz era stato avviato dal padre militare e che aveva approfondito nella sua biblioteca, che lui aveva accresciuto e curato come il fondamento e l'essenza della sua stessa casa, e che non a caso sarà oggetto di profanazione alla sua morte. Di essenza libresca è lo stesso personaggio, come già indicato da nome e cognome, non solo in quanto io sperimentale alla Milan Kundera calato in una specifica situazione per studiarne presupposti e esiti, ma soprattutto come indizio di un tentativo di comprensione della realtà che già programmaticamente passa attraverso la mediazione e la sovradeterminazione, attraverso una narrazione che prende l'andatura e le modalità riflessive del saggio, che a sua volta può affrontare il proprio argomento e radicalizzarne le implicazioni solo in forma narrativa.
Esempio di tale procedura è già il titolo, che annuncia "Imparare a pregare nell'epoca della tecnica", senza che vi sia poi traccia nel testo di tale apprendimento, né di preghiera peraltro. Almeno in apparenza. Forse non ne ha bisogno. La tecnica infatti, proprio in virtù dei suoi risultati, è anche evocazione e prefigurazione di un dominio delle forze della natura che è sperabile possa, in futuro, diventare assoluto. E' esattamente questa l'illusione su cui si basa la visione del mondo del protagonista, che però si immagina completamente disilluso, cioè cultore di un disincanto che prescinde da ogni trascendenza e morale e che solo nella competenza e efficacia del "fare" tecnico trova il proprio credo.
Egli coniuga il più inflessibile disincanto circa la natura umana, ridotta ai soli dati di cui consentono di parlare le scienze esatte e naturali (chimica, fisica e biologia, incluso il suo risvolto evoluzionistico) e quanto delle discipline umane appare come loro legittima filiazione (tecnologia, medicina, arte della guerra...), alla più incondizionata fiducia in esse. L’unico loro criterio è l’efficacia, così come l’unico per valutare l’uomo è l’efficienza: il saper fare, con la scusa che se non altro questo è quanto di meglio l’umanità ha saputo produrre per contrastare e dominare la natura e il disordine, incluso quello causato dall’umanità stessa nel suo risvolto sociale. La relazione con la natura e con gli altri uomini considerati nella loro essenza naturale anche quando si riveste di abiti civili, è sempre e comunque di guerra: le pause sono recupero, preparazione, rafforzamento; l’idillio e la comunione una strategia per disarmare e colpire con effetti più devastanti. Basta chiudere gli occhi per un attimo, abbandonarsi, dimenticare, e è fatta. Cioè sei fatto; invece di essere tu a fare (che è il verbo per eccellenza, quello che riassume nel sue differenti valenze – inclusa quella sessuale, forse per prima anzi – quanto di meglio è nelle corde dell’uomo vero, cioè nell'uomo superiore: nel maschio alfa, che come tale mal sopporta di essere subordinato e appena assurto a qualche posizione, subito pensa a come salire, a come sbarazzarsi del suo stesso superiore e sostituirlo, come Lenz con il suo presidente).
E' un mondo di totale disincanto, performativo, ma senza che l’efficienza sia un dovere, l’imperativo categorico; peggio: è già passata nell’ordine delle cose: è il naturale. L'anaffettività che ne deriva è sentita non come una mancanza ma come un pregio: il risultato di un’educazione riuscita; la premessa del ben agire: cioè dell’agire senza freni, impedimenti o incertezze, “con mano ferma” come appunto è richiesto a un chirurgo, nella medicina tradizionale, e in quella sociale, vale a dire come azione politica. Niente giudizi che non consistano nei risultati. Tutto sta nel fare, anche se questo fare può apparire, ed è, violenza, come nella scena su cui si apre il libro: quella del padre che porta il figlio dalla servetta e gli ordina di “farsela” sotto i suoi occhi; vera scena primaria non solo dei rapporti sessuali a venire (moglie, mendicante, pazzo ecc.), ma di ogni rapporto in genere, che sia con gli uomini o con la natura, il mondo. Sembra che anche la servetta subisca (accetti) la violenza come un che di naturale. Se ha qualche reazione, non viene riportata, e comunque non importerebbe. Il suo ruolo è quello: è quanto di meglio potrebbe (le si chiede di) fare, e lei lo fa. Lo lascia fare. Si lascia fare. E' una serva, appunto.
Per Lenz invece sarà l’imprinting del piacere sessuale: perché comunque il sesso è qualcosa che va fatto: se non che il piacere, che in quest’ottica andrebbe inteso solo come il contentino che la natura concede al singolo perché neghi se stesso nella propagazione della vita, prende comunque il sopravvento, anche se lui pensa di controllarlo. Il suo presidente glielo dice chiaro e tondo che è una debolezza e che dovrebbe guardarsene: il capo, quell’uomo rozzo che lui vorrebbe scalzare alla prima occasione e che invece gli sopravvive.
In questo curioso matrimonio tra Sun Tzu e Comte (o la vulgata positivistica), L’arte della guerra funge da guida strategica e il controllo della natura e degli uomini da obiettivo, mentre l'efficacia dell’azione segna la misura dell’andamento della lotta.
Non è raro che i pessimisti – e tutti coloro che pensano alla natura in termini conflittuali, se non sono gli stessi – approdino su queste rive, magari con gli abiti stracciati. Ma se l'obiettivo è il controllo, allora la concezione della natura come qualcosa di malvagio, e quindi da combattere, è implicita, soggiacente: si veda a p.133 la malvagità della natura come qualcosa che sta nel basso, sottoterra, luogo da lì viene la paura, che è il motore primo di ogni agire, in difesa o in attacco a seconda delle circostanza ma anche della tempra di ogni individuo, destinato a emergere e comandare se forte oltre che capace e competente, o a subire e ubbidire, anche per il proprio "bene", se incapace o debole; nessuna comunanza: "c'era fra natura e uomo un punto di rottura che da molto tempo era stato superato"; "gli uomini e gli elementi della natura ... non condividevano neanche un istante storico".
Anche nei momenti in cui sembra indurre all'idillio, la natura cova qualche catastrofe che non è altro "in fondo, [che] un'esigenza eccessiva di atti da parte degli avvenimenti: gli umani non [riescono] a fare tante cose in così poco tempo" e solo con l'invenzione della tecnica hanno compiuto, secondo Lenz, un grande balzo in avanti nell'ordine della velocità e della quantità di risposte possibili. Per questo "non lo entusiasmava l'ordine degli elementi", al contrario dell'ordine della città dove "il maestro, le leggi e il poliziotto indicano la giusta direzione [e si] sa bene dove va a finire ogni cosa" (p.32) e quindi come con la tecnica si può operare bene: eseguire "la buona azione, l'azione morale, [cioè] l'azione competente" (p. 161).
Lenz però è troppo smagato per nutrire davvero queste illusioni circa la tecnica, eppure è su di essa che regge la propria vita, come unica via percorribile da chi concepisce vita e natura essenzialmente come conflitto per sopravvivere derivato dalla paura. Il romanzo, specie nella prima parte, è l'analisi di questo credo che si disconosce in quanto tale e si presenta come incontrovertibile dato oggettivo, "scientifico", attraverso momenti cruciali della formazione di Lenz e soprattutto della sua attività professionale, di chirurgo prima e poi di politico, che della precedente è solo l'estensione e l'applicazione al campo collettivo. Dalla chirurgia individuale a quella sociale. In questo senso il sottotitolo "La posizione nel mondo di Lenz Buchmann" appare più adeguata a caratterizzarne il contenuto. Ma anche questo spostamento, questo dire indiretto che si presenta sotto la più diretta delle esposizioni, è un dato caratteristico del libro e un indizio sul modo di leggerlo.
Il lettore è indotto a assumere una posizione di osservatore analoga, e forse ancora più esterna, a quella del narratore e del protagonista nei confronti dei rispettivi oggetti. Tanto il primo e la sua storia, infatti, quanto il tono del secondo non favoriscono alcuna forma di empatia: l'anaffettività che caratterizza il comportamento di Lenz, è la stessa richiesta dalla lettura, che non trova nessun aggancio in facili sentimentalismi o in argomenti di forte impatto e che viene immediatamente raffreddata non appena accenna a riscaldarsi. Il piacere, qui, è l'intelligenza. Se un sapore c'è, è quello del fiele: forte, ma più ancora amaro. Che invece di incantare e suscitare il lieve rimbambimento del fascino, tiene sveglio, vigile.
Lenz non si propone di fare del male: cerca di affrontarlo, anzi; però il male è l'effetto "secondario" (ma anche "necessario": tanto che lui sadicamente ne gode) del suo imperativo del "ben fare" da una parte, e ciò che annienta lui e tutto ciò che gli appartiene dall'altra; e, infine, il male è l'oggetto del libro.
Come si configura nell'era della tecnica? Da dove proviene, dove si trova e come si affronta? In che cosa differisce da ciò che era male nelle epoche precedenti? C'è una forma specifica che è insita nello stesso assumere la scienza e la tecnica come orizzonte di riferimento per osservare e affrontare il mondo? Di questa concezione Lenz incarna forse l'anima più profonda, e che per questo si ha spesso ritegno a mostrare in piena luce e a dichiarare apertamente. Egli la assume in tutta la sua crudezza senza il minimo tentennamento, ne fa proprie le implicazioni basilari e ne trae le rigorose conseguenze nei campi di pertinenza del suo agire: privato, professionale e pubblico. E se questo comporta dolori, violenze o addirittura l'eliminazione fisica di ciò o di chi si frappone come ostacolo, poco importa. La chirurgia deve essere condotta a termine, e se occorre tagliare, si taglia.
C'è quindi il male naturale, che prende la forma delle malattie e delle catastrofi (e della morte, che però per altri aspetti, non fa problema: se "utile" per sbarazzarsi di un diverso male, o di un ostacolo, di un fastidio: come la moglie) e, accanto ma non percepito, quello che deriva dal considerare non pertinente la valutazione morale dell'agire umano. Se il modello della comprensione è la scienza e quello dell'azione è la tecnica, che ha come fine l'efficacia e come strumento l'abilità e le competenza, allora nessun criterio morale tradizionale è valido. La compassione, per esempio, è "un attrezzo inutile per l'esistenza, che tecnicamente non risolve(va) nulla", e l'azione efficace non è buona anche se agli occhi di chi ne beneficia può dare questa impressione (alla figlia di una paziente da lui salvata che gli dice: "Lei è un uomo buono!", Lenz risponde: "niente affatto. Sono medico."). Tutto va quindi affrontato in quest'ottica che certo non viene invalidata dal fatto che catastrofi e malattie affastellano problemi in tale misura e velocità che siamo ben lontani dal poter risolvere: ma la tecnica è l'unica arma che ha saputo aumentare la velocità e l'efficacia delle risposte, anche se una sola morte è già la sconfitta definitiva. Senza contare tutto ciò che nell'uomo stesso, nello stesso soggetto tecnico-scientifico, resta non soggetto alla razionalità decisionale, e che niente riesce a mettere a tacere, a dispetto della facilità apparente di appagamento (della facilità dell'appagamento apparente). Come il sesso, che è sì un "fare", ma anche e sempre un "essere fatto", perché è il soggetto a dipendere da esso e non viceversa. O come il tumore al cervello che, dopo aver tolto di mezzo il fratello maggiore, l'indegno usurpatore del nome di famiglia, colpisce anche Lenz e pian piano erode ogni sua possibilità di agire e lo priva anche della forza più insignificante, come quella di cui avrebbe bisogno il dito per schiacciare il grilletto per farla finita: per decidere anche la morte come invece il padre era stato capace.
Di fronte a questo, in passato non sarebbe rimasto altro che accettare, disperare o pregare. Ma ora? Alla fine sembra che alla domanda implicita nel titolo non si dia risposta. La sola preghiera che conosciamo è quella nata in epoche antiche, quella che loda e ringrazia, ma soprattutto invoca consolazioni e aiuti da forze trascendenti di fronte a tutto ciò che governa e minaccia l'esistenza di fuori di ogni controllo umano. L'era della tecnica, che ha ridotto la religione a strumento di potere per manipolare le menti più deboli, non sembra aver trovato nessuna preghiera che risponda ai propri mutati presupposti: forse però questa carenza non deriva dalla sua inutilità nel nuovo contesto, bensì dal fatto che è la tecnica stessa a costituire la preghiera della propria era. Una preghiera ignota a se stessa, inconsapevole, che non ha altra forma che il proprio nome, altra sostanza che l'invocazione dei propri risultati, anche quando questi si dimostrano limitati, e in sostanza impotenti. E alla fine non resta che recitarne il nome e le giaculatorie, come fa il protagonista morente che ripete il nome di suo padre scritto in un biglietto che tiene sempre in mano, stringendolo e quasi sgranandolo come un rosario anche quando il biglietto viene cambiato per un dispetto crudele, in una ripetizione apotropaica ossessiva, consolante per il solo fatto di essere ripetuta, rosario di un solo nome.
Questo articolo è stato pubblicato in forma più breve su doppiozero.com il 7 marzo 2012
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