26/11/20

La fiera dello strazio

 

 

(Premessa a posteriori: In questo Martirio di San Sebastiano della bottega di Ribera c'è già tutto, o quasi: la rappresentazione dello strazio inferto, la sofferenza di chi lo patisce, la professionalità indifferente di chi lo infligge, gli spettatori con le loro differenti reazioni, l'uomo che assiste, forse l'autore, che guarda fuori verso chi guarda il quadro, a scrutarne le reazioni, a invitarlo alla pietà o a sfidarlo, pietoso anche lui, e compiaciuto.)


... questa volontà di squadernare lo strazio, di condividerlo in diretta, immediatamente, attraverso la (pretesa) pura indicazione dell’immagine, senza la presunzione delle parole di nominare l’innominabile e dare senso all’insensato; come se non solo prendere le immagini, metterle sul proprio blog o su un sito un giornale o un libro senza aggiungere una sia pur elementare didascalia, il nome comune o proprio, una data, un luogo, ma già l’atto di fotografare, la decisione di farlo invece di non farlo, prendere l’apparecchio, mettersi a una distanza, da un certo angolo ecc., non comportasse di per sé una somma di mediazioni e scelte, alcune pure razionalissime, almeno in apparenza, quasi a opporre il presente eterno carpito dall’immagine all’eternità del passato che essa trasmette, e soprattutto a quella fuori tempo, “vera”, della morte... tutto questo, non so, mi lascia perplesso, diviso tra rabbia, per il ricatto, e partecipazione, al dolore, tra disprezzo e pena... anche se questa stessa compresenza mi fa quasi subito propendere per il primo termine, senza cancellare il secondo, e anzi proprio perché, di fronte al secondo, sono indifeso, preso alla sprovvista, vigliaccamente.

Detto questo, non mi soffermerò, come faccio di solito, su ciò che vedo, su ciò che esso mi suscita o mi fa pensare. Forse è meglio chiedersi che cosa voleva fare X. Y.  (e tutti gli X.Y. del mondo) e cosa si aspetta che noi facciamo davanti alla sequenza di foto di sua madre morente; come spera (o pensa; o ha calcolato) che noi reagiamo: il tipo di emozioni che l’opera (perché è questo, al di là di ogni intenzione e giustificazione, che l’immagine diventa una volta resa pubblica, se non già una volta progettata e nel tempo della sua realizzazione: il tempo lasciato al dolore perché il dramma, o l’orrore, a seconda dei punti di vista, crescesse verso il climax, la sua perfezione in qualche modo, il perfetto suggello che a posteriori sembrerebbe dare un senso a tutto...) dovrebbe provocare secondo gli intendimenti dell’autore (quindi alla base del suo gesto: quello cosciente almeno) e nell’orizzonte che l’opera (il suo progetto interno: l’insieme dei percorsi che da essa si dipartono per il semplice fatto che essa è come è) dispiega.

Come a perimetrare il territorio della morte, a circoscriverlo, come se questo tracciasse in qualche modo una barriera, difendesse dalla sua avanzata (o viceversa la difendesse da qualsiasi intrusione estranea o contagio: come se fosse possibile: come se, da quando la si è conosciuta, non si cercasse di fare altro).

Se è vero, come scrive S. Sontag in Davanti al dolore degli altri che “sin dal 1839, quando furono inventate le macchine fotografiche, la fotografia ha corteggiato la morte” (c’è da chiedersi come avrebbe potuto fare altrimenti, dato che la morte è inscritta nell’atto stesso di fare una foto), è anche vero che “l’immagine come shock e l’immagine come cliché rappresentano due facce della stessa medaglia”. Ma ai redattori dei giornali, agli autori di trasmissioni o di blog ecc., anche se hanno letto la Sontag (ma c’è da dubitarne), l’hanno dimenticata o, più facilmente, se ne fregano: ai loro destinatari non chiedono molto: solo l’arrendevolezza, il candore. 

Il fatto che a essere fotografata sia la madre dell’autore (figura alla quale peraltro negli ultimi tempi sono stati dedicati anche non pochi libri: ci si attacca all’amore, all’amore che si perde, invece che parlare del conflitto e dei tentativi di emancipazione con un padre, che non c’è più, e ciò che esso rappresentava; un potere oggi tanto pervasivo che non mette conto nemmeno di provare di combatterlo: in sostituzione ci sono i nemici esterni, che ora ti “attaccano” all’interno: facendo però meno morti di un normale weekend automobilistico, che invece non fa paura a nessuno – perché è la fatalità, quello...), cambia qualcosa agli occhi di chi guarda? La foto di un’altra persona nelle stesse situazioni e condizioni avrebbe forse (o si presume, si calcola, che dovrebbe avere) un diverso, e ovviamente minore, impatto? Cambia qualcosa rispetto alle migliaia di immagini simili viste in altre fotografie, o in tv o al cinema? Fatto salvo il dolore del figlio, che non voglio nemmeno mettere in discussione (semmai la sua pubblica esibizione, anche se il movente potrebbe essere un commosso omaggio, la fissazione di una memoria e insieme la pena – la penitenza –, di tenere la ferita sempre aperta, di non volere che si rimargini, per non sentirsi in colpa, e affranto, al solo pensiero che si possa rimarginare, che pian piano il ricordo si affievolisca fino, un giorno o l’altro, per pochi minuti o ore alla volta, a sfumare, e addirittura fino all’impensabile, ora, di non farsi più sentire...), non potrebbe  sorgere il dubbio che, essendo esposto in primo piamo sulla scena (e proprio per questo, al contempo, osceno), non sia tutto, appunto, inscenato? Dubbio di atroce cinismo, del quale mi vergogno anche se non posso rinunciarvi (la vergogna è l’effetto di questa impossibilità: ma è anche la vergogna per quella che l’altro, l’autore, non prova), se non fosse speculare, almeno in parte, al cinismo che già contiene e veicola l’immagine che ci viene mostrata, che ci viene sbattuta in faccia, che ci viene sventolata davanti al fine di sollecitare e smuovere ciò che di peggio, assieme, e forse anche di più, a ciò che di meglio è in noi?

Sontag scrive, a proposito dei Disastri della guerra di Goya, che costituirebbero un nuovo standard della sensibilità davanti al dolore, che il “resoconto della crudeltà della guerra è costruito come un’aggressione alla sensibilità dell’osservatore”. Non mostrano solo l’orrore e le conseguenze della guerra; non li denunciano solo in vista di una presa di coscienze di un rifiuto, ma si presentano anche, come faranno tante opere di “avanguardia” dal ‘900 a oggi, in un crescendo inarrestabile, una sfida: ce la fai a guardare? sei così insensibile da tollerare tutto questo? E la risposta è no, all’inizio; anzi: no, sì: perché la pulsione a guardare, magari solo sotto forma dell’occhiata fuggevole, di sguincio, non si lascia sopprimere (e infatti è su quella che fanno aggio gli artisti); ma infine diventa: sì, ce la faccio, ci ho fatto il callo, e mi sento (o non mi sento) un po’ un animale per questo, senza averne gli altri attributi: riconosco la parte di animale che è in me, non solo negli istinti e nella carne, ma, qui, anche e soprattutto nell’indifferenza, nel passare lo sguardo sopra la morte senza nemmeno vederla.

A ben poco serve che l’orrore, la sua estremizzazione e l’implicita mozione degli affetti (bambini, madre) si risolva immediatamente in retorica, in cliché appunto, con tutto che anche nel cliché è sedimentata una parte di verità, che esso però copre o soffoca, cioè neutralizza: esso risorge periodicamente, suscita qualche emozione, vera e al contempo standard, e tanti saluti.

Allora qual è l’obiettivo di queste operazioni? a cosa puntano? che pubblico vogliono colpire e quale poi effettivamente le guarda? Forse quelli che per un attimo hanno dimenticato la consuetudine alla durezza e vogliono rifarsi una verginità emotiva, che poi magari, sempre durante quello stesso istante, effettivamente ritrovano, compiacendosi di esserne stati ancora una volta capaci? Oppure uno spettatore avvezzo alle immagini shock che tende a trascurare, se non a cancellare, la realtà fotografata, o la realtà tout court, in cerca di chissà che altro (“documenti”, “bellezza”, “pezza d’appoggio” per questo o quest’altro discorso ecc., la “semplice umanità” o la “nuda vita” o altro ancora)?

Viceversa, ci sono però milioni, anzi miliardi, di persone per cui la realtà, quella “vera”, continua a esserci, anche quella immaginaria, religiosa: gente per la quale essa è più forte delle immagini anche inventate che ad essa si riferirebbero e che appunto per questo è facile confondere e sobillare perché scateni violenza, perché dia una scossa alle cose, come reazione, pura affermazione di esistenza (la propria), anche non avendo mai visto altrimenti, o del tutto, ciò contro cui protestano...  

 

(appunto 2010, incompleto o forse no) 

 

 

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