Sono entrate in carrozza dodici ragazzine sui 14-15 anni (le ho contate). Mi sono sfilate accanto, una dopo l’altra, chiassose senza esagerare, vivaci, come giusto, qualcuna in silenzio, ma non triste. Tutte brutte.
È rilevante? No. Eppure sul momento mi è sembrato che lo fosse. Che significasse qualcosa di preciso, o fosse un indizio, nemmeno troppo difficile da interpretare: che fossero, tutte, l’esatto prodotto della campagna dove sono salite, della periferia. Come se da lì, dalla sua storia recente e remota, non potesse venire altro. Perché così era stata e era la vita, da generazioni.
I ragazzi che sono passato dopo non li ho contati. Non ho prestato loro attenzione e quindi non ho notato se erano brutti anche loro. Meno delle ragazze, in ogni caso. Più atletici, più vitali nei movimenti, se non nelle parole, più disinvolti, mi è parso. Un po’. Ma non mi importava.
A breve saranno le ragazze ad alzare la voce. A decidere. A dare l’indirizzo, dettare i modi. Il tono. Per comandare. Loro alzeranno le mani. Per afferrare, o offendere, alcuni. Il resto per arrendersi. Nessuna parità. Non se ne parla neanche.
A volte l’inferiore reagirà con violenza. Oppure si terrà dentro tutto. A breve, a lungo o per sempre. Sfogandosi in qualche modo, quasi sempre sbagliato.
Non so perché mi hanno suscitato questo piccolo delirio. E sì che stavo bene. E lo sto ancora. Cosa sarà successo? Niente. Reagisco anch’io in modo sbagliato. Magari a quello che stavo leggendo.
Ci penso un po’. Poi più a niente.
All’arrivo, nel sottopassaggio che portava all’altro binario, alla coincidenza, mi sono parse tutte, in qualche modo, belle.
I ragazzi, tutti insignificanti.
Come me. Mi sono detto allegro e baldanzoso.
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