Come ti accennavo al telefono, caro M., ho più di un dubbio sulla lettura teleologica a posteriori della vita di un uomo a partire dalla sua morte. Detto in sintesi e con approssimazione: l’espressione (fulminea) di Pasolini “La morte compie un fulmineo montaggio della nostra vita” è certo di grande effetto. Ma proprio per questo conviene dubitarne, almeno un po’. Il tipo di interpretazione che essa incarna è solo una lettura, un racconto e un’immagine, che se ne fanno i sopravvissuti per cercare un senso. Lo cercano, e quindi lo trovano. Davanti alla cosa più insensata, o più aliena dal senso per essere più corretti, meglio un senso qualsiasi che niente, e ancor di più se il senso è “bello”, efficace, soddisfacente anche esteticamente. Dalla fine si ricostruisce una storia e questa storia, in quanto storia, acquisisce e trasmette un senso. E questo senso si trasforma, sempre a posteriori, in destino. Una bella luce, fosse pure nera, verso cui tutto corre e concorre, trovando un suo valore. Bene. Siamo tutti contenti.
Se non che non mi risulta che la vita per chi la vive, finché è vivo, e finché chi la osserva ha rispetto dell’ampio margine di incompiuto e di mistero che in essa è presente, sia un romanzo o un film o una favola. Nel romanzo la lettura teleologica degli eventi narrati non è arbitraria, per quanto ovviamente nemmeno esaustiva; tutto tende alla fine, è costruito in vista di quella che sarà la conclusione, e quando questa arriva, quando l’autore decide di chiudere, anche quando la scopre scrivendo all’ultimo momento, tutto si dispone a partire da essa: se infatti non va, la cambia; e se non va qualcosa nella narrazione precedente, cambia o adatta o cancella quello.
Nella vita invece la morte può essere di ogni tipo e le cose fatte e vissute e sentite non acquistano valore e significato per causa sua, se non raramente. Se finisco sotto un’auto, o mi cade una tegola sulla testa, o mi viene un tumore o un ictus, o ho una malattia congenita o una che arriva per qualsiasi accidente che mi ha incrociato perché ero lì in quel momento, ma poteva anche passarmi di lato o solo sfiorarmi, ecc., tutto quello che ho fatto e vissuto acquistano o cambiano di segno a casa sua? Ma per favore! E che tristezza per tutto ciò che ognuno ha vissuto giorno dopo giorno! Ci piace vedere il destino. Se funesto meglio ancora, purché riguardi qualcun altro. Ma il fatto è che il destino lo disegna uno sguardo esterno, a cosa fatte. Anche per colui che decide di suicidarsi. Lui immagina con il suo gesto di darsi un destino. E anche un senso, di qualsiasi segno sia. Ma si illude. Alla fine sarà solo morto. Niente. E degli altri, magari qualcuno cadrà nella trappola cercandogliene uno, cioè più d’uno, perché cambierà a seconda della direzione dello sguardo e delle idee del guardante. Per tutti gli altri resterà quello che sarà e che già è: niente. Il suicida avrà dato un senso al gesto che sta progettando, all’idea che ha maturato magari senza accorgersene e che comunque ha in quel momento della vita a cui sta per porre fine, e quindi ne trarrà, si spera, un po’ di beneficio e di sollievo, ma il gesto da solo cambierà poco, a voler essere generosi. Di fatto niente. Poi ci saranno i biglietti scritti poco prima, tragici, ma di fatto solo letteratura. Biglietti che rispondono ad altri biglietti, come quelli di Esenin e Majakovskij, o per differenziarsi o rigettare tutti i biglietti noti e immaginati (o come quello di Pavese, o quello di Agota Kristof – ma più probabilmente della protagonista di un suo racconto, non ricordo bene, ma già il dubbio tradisce qualcosa – …dovrei cercare la frase esatta, qualcosa come: in culo a tutti, o vi sputo in bocca a tutti), letteratura, appunto. Ma anche quando saranno la negazione di tutto, non saranno nient’altro, al massimo, che un gesto generoso, verso se stessi e chi lo leggerà, che offre il fantasma di un senso, una consolazione. Il lampo fuggevole di un’illuminazione. Come la frase di Pasolini. Letteratura, appunto.
Fermo restando che quando guardiamo ogni vita, o solo abbozziamo un riassunto, o tratteggiamo la sintesi più scheletrica, da vivi, altro che letteratura non facciamo. Né possiamo fare. E meno male!
(Mi è venuto così, di getto. Non l’ho nemmeno riletto. Ma non credo che siano solo farneticazioni. Preferirei lo fossero, ma non lo credo.)
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