Rubens, Pallade e Aracne
È abbastanza nota la storia, o leggenda,
che i più abili tessitori persiani lasciavano apposta un’imperfezione nei loro
tappeti perché la perfezione è solo di Dio.
La
storia viene tramandata come esempio di umiltà e di fede dei pii artigiani, o
artisti se si preferisce. A me sembra un esempio lampante, invece, di superbia
e di tracotanza: come se, senza quell’imperfezione volontariamente lasciata, o
meglio: creata a bella posta, il resto dell’opera sarebbe stato esente da
difetti, cioè perfetto. E anzi l’opera intera lo sarebbe al quadrato, perché
anche l’imperfezione sarebbe un gesto creativo (dove e come lasciarla, infatti?
in quale forma e sotto che mentite spoglie celata o mimetizzata?), e segnalerebbe
implicitamente la perfezione dell’autore, oltre a quella dell’opera. Se non
addirittura al cubo, se si include l’acume formale e percettivo e di gusto
dello spettatore o acquirente, che saprebbe infine riconoscerla e apprezzarla,
sentendosi a sua volta intelligente, oltre che pio.
L’unico
a essere ingannato da questo maneggio sarebbe allora Dio, accecato dalla
lusinga nel proprio narcisismo. Ma non credo che ci sia mai cascato. Essendo
compassionevole, però, ha di sicuro perdonato questa maldestra mistificazione,
sorridendone in cuor suo.
Che
il narcisismo accechi gli esseri umani, invece, è un dato di fatto.
Perché
altrimenti alcuni di loro si piccano di sfidare gli dei sul loro stesso campo
(Aracne Pallade nella tessitura; Marsia, che però era un satiro, un essere
ibrido, molto più vicino alla natura dell’uomo, Apollo nella musica ecc.)? Gli
dei sono dei, superiori per definizione. Le arti e tecniche in cui sono sfidati
le hanno inventate loro. Possibile che a un certo punto gli uomini abbiano
pensato di averle portate oltre il limite che era dettato dalla loro origine
divina, di averle superate e migliorate? È l’hybris, certo, la tracotanza che a
un certo punto prende gli esseri umani, e mai gli animali: è un derivato della
coscienza, della consapevolezza del proprio fare e agire, la stupidità insita
nella loro intelligenza, nel suo stesso principio. Per questo i mistici, e in
genere gli uomini di fede, dubitano dell’intelligenza, la mela avvelenata che
Dio ha rifilato agli uomini, la somma tentazione, come se li avesse creati e
gli avesse concesso tante doti solo per umiliarli, per poterli punire. Oppure, dicono
loro, per mostrargli la strada per trascendere se stessi, perché solo avendo
l’intelligenza si può, mediante essa, capire che bisogna andare oltre, e
abbandonarla, alla fine, come uno strumento che ha fatto il suo lavoro; come un
ferro vecchio.
(Altri
pensano che non è così. Che solo con l’intelligenza si può andare oltre,
spingendo i suoi limiti sempre più in là, magari con l’aiuto degli strumenti da
essa stessa creati per potenziarsi, che hanno sempre dato prova della loro
bontà. Con qualche piccolo inconveniente, si sa. Ma anche quelli, sempre con
l’intelligenza, prima o poi si riuscirà a superarli, sostengono. Altrimenti
pazienza.)
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