11/02/15

La foto più bella dell'anno (2011)





Questa è stata votata come foto più bella nell'annuale rassegna del premio World Press 2011 che per le immagini, per quanto mi concerne, equivale agli Oscar o ai Telegatti.
La faccenda potrebbe essere liquidata con un'alzata di spalle o una battuta: "perché sorprendersi? è tutto nella norma"; ma vedendo i commenti in rete, anche da parte di gente colta: scrittori e poeti, intellettuali e compagnia bella di non so che categoria (più o meno la mia, se la frequentassi), mi sono un po' irritato e allora, senza documentarmi oltre, mi sono messo a scrivere questo. Cose che si sanno e che a molti appaiono scontate, peggio: datate (basta che passi del tempo perché tutto lo sia); ma ogni tanto è utile ripeterle. Ricominciamo:

Questa foto è stata votata la più bella dell'anno dalla giuria del premio World Press.
Da qualunque parte la guardi, e sotto qualunque aspetto la consideri, è una foto che non mi piace. E' una foto brutta e falsa; e è brutta perché falsa; e è falsa perché brutta; e è sbagliata, cioè brutta, anche, se non soprattutto, nel modo in cui è falsa: e tutto questo lo è per motivi in gran parte opposti a quelli che essa vuole incarnare e rappresentare (nel senso di esserne la rappresentante), e per i quali, appunto, è stata premiata, ad avallo alla sua ambizione e a suggello della dimenticanza e mistificazione che in essa si opera e che la cultura che l'ha premiata vuole diffondere, o meglio: confermare nella sua già globale diffusione. Non è la rappresentazione e la documentazione mediatica di un evento, ma la perfetta documentazione, mediante una rappresentazione con cui si identifica, di un evento mediatico.
Ignoro chi in concreto l'ha votata e per quali ragioni manifeste e recondite, e non mi interessa saperlo. Chiunque sia, ha urgente bisogno di lavare e sgrassare la sua coscienza, incluso l'arredo estetico.
Ancor più bisogno ne ha però la coscienza di chi l'ha scattata. Non so (preferisco trascurare il paratesto, per il momento, per concentrarmi solo sull'immagine): forse il fotografo era lì o ci è andato apposta, dovunque e qualunque cosa sia questo lì, ha visto la scena e ha scattato la foto, tra decine o centinaia di altre. Non lo credo: credo anzi che, sul posto, abbia annusato subito il colpo di fortuna (eh, il colpo d'occhio...) nella scena davanti ai suoi occhi, o la possibilità di aggiustarla alla meglio bisogna; ma se anche così fosse, se nessuno dei sospetti malvagi che mi sono passati per la testa fosse giusto, non avrebbe dovuto scattarla; o, una volta commesso questo errore, avrebbe dovuto cancellarla, o quantomeno scartarla; e infine, concessa anche la debolezza di amare le proprie creature tanto da non riuscire a eliminarne anche una sola, non avrebbe dovuto stamparla, e divulgarla, e venderla. Non capisco nulla di luce e tecnica e quindi non ho strumenti per valutare istantaneità o preparazione, illuminazione naturale o adattata se non creata, e tutti gli altri elementi che potrebbero deporre materialmente a favore della mia impressione, ma non importa: tutto in questa immagine è costruito, e quindi falso, anche se il fotografo non l'ha fatto, perché la costruzione è nell'immagine stessa, che vuole rappresentare un dato di fatto, testimoniare un "essere stato qui", e insieme citare, dandolo forse anche a vedere, ma come se questo fosse un valore aggiunto all'immagine, un valore "estetico", ma che non ne inficia quello primario, di "verità" e "testimonianza". Se essa "cita", quindi, cita in modo scorretto, e ancora falso. Fa ridere pensare a una citazione falsa che non sia un apocrifo; a una scorrettezza che non sia una distorsione voluta; ma qui è l'uso del riferimento a esserlo. L'immagine cita Bill Viola, come è stato notato, ma anche Marina Abramovic, perché no?, per quanto magari il fotografo non li conosca (ma ne dubito); suggerisce una serie infinita di citazioni pensando di nasconderle nella misura in cui sono scontate, cioè generiche, idealtipiche si sarebbe detto una volta, e in quanto tali diffuse come clichés, o di passarci sopra sperando che lo facciano anche gli spettatori e di sfruttarle per un maggior effetto di reale; cita il dolore e ovviamente ne fa mercato. Non voglio riprendere i discorsi della Sontag e di altri: mi limito al puro dato estetico: a come l'immagine è percepita (da me: cioè dal più importante degli spettatori, per quanto mi riguarda).
Anche se era lì, il fotografo ha voluto scattare la bella foto, fare il giornalista, documentare, e insieme l'artista, pensando che fare l'artista, per come lui ne concepisce la figura e l'attività, avrebbe accresciuto la potenza documentaria e comunicativa, e emotiva, della foto, della bella foto, che infatti come tale è stata premiata. Con la coscienza (sia falsa che vera) a posto, oltretutto, perché l'uomo non sembra ferito in modo grave (di sicuro non sembra morto: la posizione delle braccia lo dimostra), la donna già lo accudisce e certo si appresta a farlo ancora meglio a breve, cioè una volta chiusa la formalità della foto mi verrebbe da dire se fossi maligno, e lui non può essere tacciato di crudeltà e omissione di soccorso (glielo auguro: al ferito, mica al fotografo, che di benefici ne ha già tratti a sufficienza, al di là dei rischi che in questa come in altre occasioni ha dovuto correre per stare "sul fatto": al cui proposito auguro anche a lui di stare sempre bene, sano e salvo e di ottenere onori e che le sue immagini abbiano effetti positivi e via dicendo: non è questo il discorso...).
Quando guardo la foto, non mi chiedo che malattia o ferita abbia l'uomo, ma di cosa sono parte i dettagli ai margini dell'immagine, ritagliati perché l'insieme centrale acquistasse maggior forza (perché cancellarli e basta non era corretto: cioè andava a ritoccare direttamente l'immagine, come fanno i fotografi pubblicitari o di moda - è lo stesso -, rendendola falsa nel senso che non documentava più direttamente ciò che l'obiettivo aveva catturato: ciò che era stato lì davanti all'obiettivo, così trovato o disposto); e soprattutto mi chiedo cosa dice il tatuaggio sull'avambraccio, che da una parte richiama i numeri delle vittime dei lager nazisti, dall'altra il cartiglio sulla croce "re dei giudei", come se fosse trasmigrato dal legno alla pelle: come una forma di equivalenza dei tre monoteismi, almeno nella sofferenza dei loro fedeli, se non in quella che si procurano l'un l'altro, molto più problematica. Asimmetrica per definizione (per la definizione che ciascuno degli interessati ne dà.)
I buoni sentimenti di tutti sono a posto. L'insipienza estetica e culturale non conta nulla: e infatti nessuno ha ritegno a sbandierarla. L'aria che soffia basta e avanza. Le madri dolorose di ogni luogo e cultura hanno qualcosa in più a cui identificarsi e su cui piangere (quelle che guardano le foto: non quelle che hanno motivi reali di dolore); tutto è politicamente corretto: il velo sul volto dice una cosa, ma l'assenza di volto apre a ogni possibile identificazione; il corpo bianco va bene dal Kashmir alla Patagonia; l'iconografia è cristiana,

l'abito islamico (ma anche mediterraneo d'antan: tra l'altro il tessuto sembra molto bello, così a occhio: e il colore blu richiama la madonna di molte Pietà, come quelle di Sebastiano del Piombo tanto per fare un esempio); i circoli della fotografia qualcosa su cui discutere, e certo da ammirare, con qualche riserva del solito bastian contrario; i documentatori della verità potranno far finta che documentarla è possibile, e abbastanza facile e gratificante, oltretutto. Basta scattare. Basta essere lì: lì, da qualche parte, anche se spesso è pericoloso, e duro e doloroso, nessuno lo nega e per fortuna che qualcuno lo fa (per la buona cattiva coscienza nostra e mia). C'è ancora spazio per la realtà: e per l'ennesima volta siamo contenti tutti. O quasi. (Io no: e non credo di essere il solo.)

Un qualsiasi crocefisso ligneo di ignoto intagliatore di qualche secolo fa, mi trasmette un'idea del dolore 100 volte più intensa e diretta, pur non essendo io credente. Perché lo era l'intagliatore; ovvero: perché condivideva le idee (le idee di dolore e di fede) con i committenti e i destinatari: forse non nella realtà (nel suo intimo: ma questo non importa affatto), ma certo nella concezione della rappresentazione. Cosa che non si può dire qui, oggi, e con questa foto. Né del suo autore, buona o cattiva che sia la sua coscienza. Quella artistica non lo è di sicuro: e non lo è anche se lui è in buona fede; anzi: se è in buona fede, lo è ancora meno: conviene ribadirlo con tutto l'andazzo della riscoperta della realtà e della verità con annessi e connessi, pizzi e pezze - meglio se intrise di umori vari -, come rispecchiamento, testimonianza e compagnia bella, come se niente fosse. Mala tempora currunt. Ora come sempre. Ora più di sempre, perché potendo sapere, dobbiamo sapere; e, sapendo, non possiamo tacere. Parliamo delle cose terribili, quindi: è un dovere! Mica faremo i fighetti che svicolano! O i narcisini che circolano in numero sempre maggiore, "col sole in fronte", ma sempre cantando "beatamente",  i fatti loro. I nostri. I miei.
E' ora di tornare ai fatti, sembra, alla realtà. Eccoli lì che ci chiamano, come sirene e teste di Medusa: che ci incantano e struggono, e agghiacciano e impietriscono. Il falso come modo o come passaggio verso una qualche forma di vero che come tale si sottrae, è solo esercizio retorico; la coscienza dei linguaggi, delle forme e delle loro storie, inutile esibizione, alessandrinismo; ecc. Invece niente è più retorico di ciò che si presenta come diretto: e questa foto ne è un'ottima testimonianza. Trasuda retorica, e è proprio questo che ne assicura il successo di ricezione. Mi spiego: trasuda retorica senza citare la retorica, fingendo che non ci sia, o al massimo ascrivendola nella rubrica: omaggi, memorie; cioè strizzando seriamente l'occhio. Ma come cazzo si fa a strizzare l'occhio seriamente? Con l'obiettivo (con l'obiettivo dell'obiettivo), per di più, di indurre alla pietà, di suscitare reazioni forti? Reazioni positive, sia chiaro: quelle che nascono dal comune sentire umano. Dal "comune" "sentire" "umano". Chi ci casca mai? Beh, in tanti, a quanto pare.

09/02/15

La goccia



C’è questa ex-allieva che inaspettatamente (i nostri rapporti si erano sempre fermati a una tiepida correttezza) viene a trovarmi in classe: sempre ben vestita, ingioiellata, capelli freschi di parrucchiera e trucco in perfetto ordine. Mentre parla le cola una goccia dal naso, che, forse per il gelo esterno che ancora si sente addosso, lei non avverte. Parla: non la sento; sorride: rispondo di riflesso. Vedo solo la goccia che si allunga e ha ormai raggiunto il labbro quando lei finalmente se ne va.
 


05/02/15

C’era questa donna sui 35-40’anni



C’era questa donna sui 35-40’anni, o forse meno, ma anche più, seduta su un gradino della breve scalinata che collega il tratto dell’alzaia che entra in paese con una stradina chiusa su cui si affacciano alcune villette e, in fondo, il bar con spiazzo alberato dove si fermano viandanti e ciclisti a prendersi un po’ di ristoro. Sono una decina di gradini al massimo, incassati tra un muro di cinta e due grossi cespugli di mahonia e  di gocce d’oro su cui, al momento, convivono una miriade di fiori gialli, nonostante tutti i rametti appena gemmati che ho strappato per abbellire la mia casa, e altrettante foglioline sbocciate in questi giorni al primo sole dopo settimane di pioggia: un cunicolo che fra un po’ sarà ombreggiato da una volta di glicini. Per questo lei l’ho vista solo all’ultimo momento, mentre già avevo abbozzato la curva per imboccare la scala con una corsetta allegra. Se ne stava accucciata, con le ginocchia rialzate, i gomiti sulle cosce e le testa appoggiata ai palmi aperti delle mani nella postura classica della malinconia. I capelli, di media lunghezza, le cadevano lungo le guance e grossi occhiali dalle lenti scure impedivano di decifrare i lineamenti e l’età. Per il resto indossava un giubbetto, jeans e stivaletti color cuoio. Lo sguardo era fisso verso il gradino dove poggiavano i suoi piedi, in mezzo ai quali erano posati una pochette e un cellulare acceso, senza salvaschermo. Mi sono fermato di colpo, ma lei non si è nemmeno accorta dei miei movimenti, o non l’ha dato a vedere, assorta com’era nei suoi pensieri, o nella contemplazione del cellulare. Io l’ho guardata senza insistere e, sia pure un po’ piccato per tutte i dettagli che non ero riuscito a leggere, stavo per recuperare la direzione e il passo di marcia quando mi sono sentito pronunciare queste parole: “è una telefonata specifica che sta aspettando o le basta una generica?”. Ho fatto una pausa per lo stupore, trattenendo il respiro, e ho aggiunto: “Se mi dà il suo numero sarò felice di chiamarla io”. La donna non si è nemmeno degnata di alzare la testa, però dopo un attimo ha preso dalla pochette una biro e un taccuino sui cui ha scritto un numero. Ha strappato il foglio e senza guardarmi me l’ha porto. Io l’ho afferrato con due dita, attento a non toccare la sua mano, me lo sono messo in tasca e senza salutare ho ripreso la mia passeggiata.
Ho cincischiato il foglietto in tasca per qualche minuto, poi l’ho lasciato in pace ancora per un po’. Che era un modo per lasciare in pace lei. Per lasciarle il tempo di ricevere la chiamata che aspettava, o di spegnere e allontanarsi. E, a me, il tempo per decidere se dar seguito alla mia sorprendente richiesta con una non meno sorprendente iniziativa o lasciar perdere, come se non fossi stato io a parlare. Come se le parole fossero venute da un altro e da altrove (come ero quasi certo che fosse). Giunto al centro sportivo che di solito segna il punto in cui inverto il tragitto dei miei passi (il punto più lontano dalla scala), ho estratto foglietto e cellulare e digitato il numero. Dopo quattro squilli la voce di un uomo ha detto: “Sì?”. “Serena?”, ho risposto, con il primo nome che mi è venuto in mente. “Chi desidera, scusi?”, ha detto la voce maschile con un’intonazione un po’ incerta, quasi impaurita. “Oh, devo aver sbagliato numero”, l’ho interrotto, “mi scusi” e ho chiuso la chiamata. Poi mi sono messo gli auricolari, ho scelto una musica piuttosto grintosa, non fischiettabile, e ho iniziato il percorso di ritorno.

Ero uscito con le scarpe sbagliate e mi formicolavano le dita. L’alluce picchiava contro la scarpa e il passo era meno baldanzoso del solito, pur senza tradire incertezze o zoppie, come se fosse tutto a posto. Ho alzato il volume della musica, per lasciarmi prendere solo da essa e isolarmi da tutto il resto. Giunto presso il cespuglio di gocce d’oro mi è venuta l’idea di fotografare la breve scalinata per illustrare la breve storiella che nel frattempo, nonostante tutto, si era formata nella mia testa, sicuro che la donna non ci sarebbe stata più. Invece ho visto i suoi piedi che sbucavano da dietro il cespuglio. Era ancora lì, nell’identica postura dopo più di un’ora, e chissà da quando prima. Per non disturbarla ho scattato la foto da dov’ero, con la speranza che si vedessero almeno gli stivali (cfr. foto sopra) e ho fatto per voltarmi e tornare a casa con un giro più lungo evitando di farmi vedere. Nel frattempo però mi ero mosso e ero avanzato di un passo, o anche meno, ma abbastanza perché lei sentisse il rumore e, stavolta, alzasse la testa e, chissà come, mi riconoscesse.
“Ha risposto un uomo”, ho detto allora. Lei ha dondolato lentamente la testa avanti e indietro in segno d’assenso. Poi mi ha chiesto: “tu dove vai?”. “Di là”, ho indicato. Lei ha continuato a dondolare la testa, ha raccolto pochette e cellulare e, senza dirmi altro, si è alzata e mi è venuta accanto.