Racconti, libri, mostre, divagazioni, recensioni, speculazioni varie
01/04/15
Come un angelo svizzerotedesco in mezzo alla pianura (6 gennaio 2012, un antipasto dell'apocalisse)
Stamattina la pianura padana si è ristretta, accerchiata da un orizzonte all'improvviso fattosi più prossimo, come a strozzarla. Gli Appennini erano avanzati fino a incombere sulla campagna tra Cassano e Treviglio, le creste appena sopra gli alberi spogli e le cascine, mentre a Nord il favonio aveva addensato le nubi in fondo, davanti alle cime più alte delle Alpi, lasciando però scoperte le prime cortine, che a causa di questo isolamento avevano assunto figure ignote, tanto che sulle prime, guardando verso Lecco, avevo pensato che una parte fosse sprofondata, facendo innalzare al suo posto, ai margini, due picchi piramidali, simili a Cervini in miniatura, o come canini di un vampiro a lato di una chiostra modesta, quasi del tutto limata e ciononostante minacciosa, mentre io stavo in mezzo, sballottato dal vento come un angelo svizzerotedesco, i piedi puntati a terra, ma sempre sul punto di essere masticato da una parte, o trascinato, dall'altra, via!, verso la barriera del Sud.
23/03/15
Jerzy Kosinski, L'uccello dipinto
2-09-10981
Lekh
il cacciatore, quando la sua selvatica e forse pazza amante lo evita troppo a
lungo, prende dalla gabbia uno dei suoi uccelli, lo dipinge con i colori più
variegati e lo porta nella foresta. Quando il canto del prigioniero ha fatto
accorrere molti compagni, Lekh lo libera così che possa volare a raggiungerli.
ma se gli altri avevano con sicurezza individuato la voce, non ne riconoscono
ora l’aspetto e prima cercano di emarginarlo, poi a turno lo attaccano fino a
ucciderlo.
È
la sorte a cui tenta di sfuggire lungo tutto il romanzo il protagonista di L’uccello dipinto, un bambino polacco di
origini forse ebraiche forse zingare che i genitori, nel 1939, mandano in
campagna per sottrarlo all’orrore dell’invasione nazista. Se non che, anche in
campagna, non sempre il suo aspetto passa inosservato, e ben presto quella che
doveva essere la relativa sicurezza di uno sfollato protetto dall’innocenza
dell’età, si trasforma in una lunga peregrinazione tragica.
Quasi
mai amato, raramente tollerato o superstiziosamente rispettato, più spesso
oggetto di violenze e persecuzioni, il bambino si trova così ad attraversare
tutto il panorama etnico sociale religioso e politico della Polonia durante i 6
anni di guerra, in una lunga fuga che, se lo ferisce, terrorizza e umilia da
una parte, diventa tuttavia la sua singolare scuola di sopravvivenza e
costituisce infine la sua iniziazione alla vita.
Se
però la crescita del protagonista fa da motivo conduttore e fornisce il legame
narrativo ai vari episodi del romanzo, sono questi nella loro specificità e
autonomia che prendono il più delle volte il sopravvento, come segnala anche il
loro incapsulamento separato in ciascun capitolo. Più che l’elemento della
formazione del bambino cioè, importa la parata del mondo davanti e attorno a
lui, il catalogo tendenzialmente esaustivo degli affetti, ma soprattutto delle
aberrazioni e degli orrori che sfila davanti ai suoi occhi o gli piomba
addosso.
La
presunta innocenza del testimone infantile, l’attenzione costante di colui che
tutto deve osservare per imparare e per difendersi ma che da tutto viene
attratto perché inedito e quindi significativo, sedotto anche, e forse più,
dalle atrocità, favorisce inoltre una scrittura che, lungi dall’attenuare,
intensifica in crudezza la rappresentazione delle esperienze vissute e
immaginate, senza che vada perso, in molti casi, il loro risvolto poetico.
Ne
risulta un romanzo originale e composito: romanzo di formazione in una
struttura narrativa picaresca incentrata sulla classica motivazione del viaggio
(qui della fuga), fortemente delimitata in senso tanto temporale (la durata
della guerra), quanto esistenziale (la contrastata accettazione della vita), ma
altrettanto fortemente elastica nelle componenti interne.
Come
dire che, stabiliti certi confini, si può in un certo senso parlare di tutto. E
di tutto appunto si parla in L’uccello
dipinto: della campagna, della foresta, della montagna e della città; dei
bambini, degli adolescenti, degli adulti e dei vecchi; dell’amore, della paura,
della mostruosità e della pazzia; della superstizione, della religione, del
nazismo e del comunismo; della tenerezza, della sopraffazione, del sesso e
dello stupro. Il limite ideale, ovvero il vincolo teorico della costruzione,
non è che la minuziosa redazione della mappa geografica, umana e immaginaria di
quella Polonia in cui Kosinski (già noto come autore di Presenze, Mondadori, 1980, da cui è stato tratto il film Oltre il giardino) ha vissuto fino a 24
anni, quando nel 1957 si è trasferito negli Stati Uniti.
È
lecito ignorare, o lasciare al discernimento del lettore, se Kosinki abbia
inteso conferire a questo suo romanzo qualche porta metaforica concernente le
contraddizioni del suo paese d’origine e la lunga storia delle violenze che ha
dovuto subire, o se il suo sguardo puntasse oltre, verso una più generale
condizione umana, o al di qua, alla liberazione da fantasmi forse non soltanto
suoi; quel che importa è che L’uccello
dipinto riesca come prima cosa a imporre con forza la ricchezza della sua
letteralità, come difatti succede sin dalle prime pagine. Al pari del bambino,
anche il lettore resta affascinato e insieme perturbato dal susseguirsi degli
avvenimenti, medusato da orrori da cui vorrebbe distogliere lo sguardo e
insieme boccheggiante verso le pause di umanità, e soprattutto verso il
desiderio di liberazione finale.
La
lettura diventa così una specie di coazione a proseguire, coinvolgente come
ormai capita sempre più raramente, ma anche, nello stesso tempo, pericolosa in
quanto distoglie in misura proporzionale dai meccanismo di scrittura e di
costruzione. È facile supporre che questo rientrasse negli obiettivi di
Kosinski, ed è indice del suo valore il fatto che li abbia raggiunti, e
tuttavia non bisogna dimenticare che la lettura si dispiega nel tempo e che
prima o poi il lettore ne emerge, per poco o molto che sia.
Gli
risulta evidente allora che proprio là dove risiede la ricchezza del libro, la
sua varietà, comincia anche il suo limite: saturare la mappa è impossibile e,
se manca o non è abbastanza forte qualche principio di coesione interna, la
collazione dei suoi elementi può diventare arbitraria o meccanica. Se però
vogliamo vedere nell’escalation delle atrocità, e nella loro denuncia (se di
questo si tratta) in alternanza alla poesia e alla tenerezza che forse solo la
natura e l’emarginazione possono offrire, il colante interno, allora risulta un
po’ forzata la conclusione ottimistica, a meno che non si voglia dare troppo
peso agli argomenti della forza della vita che continua e dell’amore parentale,
che banalizzerebbero però gran parte del romanzo, ribaltandolo a loro semplice
complemento negativo.
Ma
certo si tratta di appunti marginali: forse infatti, nonostante ogni desiderio
di razionalizzazione, è proprio nell’infinitezza della mappa, accanto alle già
citate qualità stilistiche e fantastiche , che deriva l’originalità del libro:
il cerchio non si chiude ed è inutile cercarne principi organizzativi, così
come la violenza va al di là di ogni tentativo di spiegazione.
Jerzy
Kosinski, L’uccello dipinto,
Longanesi & C, Milano, 1981
21/03/15
Cammino male (fuor di metafora)
Cammino male, con la minaccia sempre imminente del
cedimento, della zoppia. Il piede sembra saldo, il muscolo tonico, ma è come se
avvertissi che da un momento all’altro, non per un dislivello del terreno o per
disattenzione, ma per un’improvvisa carenza strutturale o una sospensione
chimica, per lo sciopero di qualche cellula o il fulmineo tradimento di una
fibra, il muscolo non reggerà più, il tendine, persa la propria guaina, si
sfilaccerà, si allenterà, e la caviglia cederà, gli arti si disarticoleranno,
giù verso terra: un luogo non dove muoversi e passare, ma dove, volente o
nolente, consistere: stare.
Poi, guardando le scarpe, mi accorgo che è solo una questione meccanica. Me lo dice il consumo delle suole: molto maggiore sulle punte, inclusa la tomaia, e sui margini esterni dei tacchi. In genere appoggio i piedi a partire dal calcagno, un po' inclinati in fuori, ben aderenti al suolo fino alla punta, sulla quale esercito una forte spinta per ripartire, mentre quando l'andatura è rilassata li trascino, sfregandoli sul suolo senza alzarli del tutto: in ogni caso, alla minima protuberanza o imperfezione, e quando salgo o scendo le scale, inciampo o viceversa perdo l'appoggio, brancico il piede nel vuoto come a minacciarlo (ma è il contrario, di fatto), ovvero mi ritrovo a effettuare scarti improvvisi.
Oltre che frequentissime, queste deviazioni diventano pericolose lungo i sentieri o ai bordi di certe strade di campagna strette e senza marciapiedi, dove l'asfalto scalina di colpo in una striscia di terriccio in pendenza, pieno di buche e spesso invaso dai cespugli e dalle erbacce dei margini. Il rischio è che, per recuperare l'equilibrio, sterzi verso il centro della carreggiata mentre arriva una bici o, peggio, un'auto o una moto a tutta velocità, tanto di lì non passa mai nessuno. Quasi mai. Perché infatti ogni tanto, con apprensione e soddisfazione insieme, una macchina capovolta in prato, o incastrata in un fosso o tra gli alberi, mi capita di scorgerla. I cippi funerari però sono sempre di persone travolte, a piedi o in bici.
Sia come sia, fatico a tenere la linea retta, procedo sghembo, traccio arabeschi angolari, mi avvito e ondeggio, e per evitare la strada mi ritrovo spesso oltre i margini, tra la sterpaglia, o a una spanna dall'acqua se passeggio lungo il fiume o i canali, come mosso da un tropismo vegetale o liquido, dal desiderio di tornare agli elementi primordiali, di sprofondare una volta per tutte nella memoria materiale del mondo. Di conseguenza sono costretto a guardare sempre e solo gli immediati paraggi, o a focalizzarmi sui dettagli, e non vedo mai il paesaggio, l'insieme. Oltre a camminare, quindi, vedo anche storto, o poco e male, e, come effetto non secondario, penso pure storto. Cammino a testa bassa, e quelli che incrocio mi credono immerso in chissà quali pensieri, e invece sto solo guardando il terreno. Ma a guardare così comincio a notare certe cose, e siccome ho le mie piccole coazioni, mi affretto a cercare quelle simili o che potrebbero entrare in relazione con esse e a organizzarle in una visione seriale, a classificarle secondo criteri noti o inventati per l'occasione, e ripongo tutto in cartellette mentali che forse non riaprirò mai.
Il paesaggio lo compongo a partire da queste serie e dagli affetti di cui le caricano le circostanze e i tempi. La diversità dei pochi percorsi che ripeto da anni dipende meno dai cambiamenti meteorologici e stagionali, pure importanti, che dai segmenti che di volta in volta emergono o sono richiamati da questa o quella percezione o pensiero occasionale, dalle loro combinazioni e dagli elementi portati alla ribalta. E tanto mi basta. Mi sembra importante, anzi, anche se me ne sfugge il motivo. Come mi sfugge di cosa sarei la metafora, che a volte ho la certezza di incarnare, precisa sin nei minimi dettagli. Cammino troppo male per vederla, i piedi che strisciano rasoterra, lo sguardo incollato al suolo, il mondo invisibile attorno.
Poi, guardando le scarpe, mi accorgo che è solo una questione meccanica. Me lo dice il consumo delle suole: molto maggiore sulle punte, inclusa la tomaia, e sui margini esterni dei tacchi. In genere appoggio i piedi a partire dal calcagno, un po' inclinati in fuori, ben aderenti al suolo fino alla punta, sulla quale esercito una forte spinta per ripartire, mentre quando l'andatura è rilassata li trascino, sfregandoli sul suolo senza alzarli del tutto: in ogni caso, alla minima protuberanza o imperfezione, e quando salgo o scendo le scale, inciampo o viceversa perdo l'appoggio, brancico il piede nel vuoto come a minacciarlo (ma è il contrario, di fatto), ovvero mi ritrovo a effettuare scarti improvvisi.
Oltre che frequentissime, queste deviazioni diventano pericolose lungo i sentieri o ai bordi di certe strade di campagna strette e senza marciapiedi, dove l'asfalto scalina di colpo in una striscia di terriccio in pendenza, pieno di buche e spesso invaso dai cespugli e dalle erbacce dei margini. Il rischio è che, per recuperare l'equilibrio, sterzi verso il centro della carreggiata mentre arriva una bici o, peggio, un'auto o una moto a tutta velocità, tanto di lì non passa mai nessuno. Quasi mai. Perché infatti ogni tanto, con apprensione e soddisfazione insieme, una macchina capovolta in prato, o incastrata in un fosso o tra gli alberi, mi capita di scorgerla. I cippi funerari però sono sempre di persone travolte, a piedi o in bici.
Sia come sia, fatico a tenere la linea retta, procedo sghembo, traccio arabeschi angolari, mi avvito e ondeggio, e per evitare la strada mi ritrovo spesso oltre i margini, tra la sterpaglia, o a una spanna dall'acqua se passeggio lungo il fiume o i canali, come mosso da un tropismo vegetale o liquido, dal desiderio di tornare agli elementi primordiali, di sprofondare una volta per tutte nella memoria materiale del mondo. Di conseguenza sono costretto a guardare sempre e solo gli immediati paraggi, o a focalizzarmi sui dettagli, e non vedo mai il paesaggio, l'insieme. Oltre a camminare, quindi, vedo anche storto, o poco e male, e, come effetto non secondario, penso pure storto. Cammino a testa bassa, e quelli che incrocio mi credono immerso in chissà quali pensieri, e invece sto solo guardando il terreno. Ma a guardare così comincio a notare certe cose, e siccome ho le mie piccole coazioni, mi affretto a cercare quelle simili o che potrebbero entrare in relazione con esse e a organizzarle in una visione seriale, a classificarle secondo criteri noti o inventati per l'occasione, e ripongo tutto in cartellette mentali che forse non riaprirò mai.
Il paesaggio lo compongo a partire da queste serie e dagli affetti di cui le caricano le circostanze e i tempi. La diversità dei pochi percorsi che ripeto da anni dipende meno dai cambiamenti meteorologici e stagionali, pure importanti, che dai segmenti che di volta in volta emergono o sono richiamati da questa o quella percezione o pensiero occasionale, dalle loro combinazioni e dagli elementi portati alla ribalta. E tanto mi basta. Mi sembra importante, anzi, anche se me ne sfugge il motivo. Come mi sfugge di cosa sarei la metafora, che a volte ho la certezza di incarnare, precisa sin nei minimi dettagli. Cammino troppo male per vederla, i piedi che strisciano rasoterra, lo sguardo incollato al suolo, il mondo invisibile attorno.
(uscito in doppiozero.com, 2012)
16/03/15
Rahotep e consorte: parole con figure.
(ALS IXH XAN)
Quando
ho visto l'immagine della coppia, la prima cosa che ho pensato è stata: lui non
lo conosco, ma lei è un mio amico, di
cui taccio il nome per discrezione, appena uscito dalla sauna di una beauty
farm (è grasso, anche le tette gli corrispondono in pieno). Soltanto dopo, ma
più tardi, molto più tardi, mi sono accorto di conoscere anche lui, che non
avevo guardato bene perché distratto da una cosa che dirò fra poco: è Roberto,
un giovane amico cultore delle docce solari integrali, identico nel gesto e nel
baffetto, scurissimo sopra il labbro pronunciato (le labbra di Roberto però
sono più fini, e lo sguardo più sveglio, e molto!: è napoletano; Rahotep invece
è morto).
Va
be', è un gioco: la somiglianza che dà il la, che muove a immaginare, e poi a
guardare diversamente; persino a pensare, se proprio, a volte. Una somiglianza
all'origine. Arbitrarie entrambe: somiglianza e origine, intendo.
Inter-soggettive però. Inter, intra... mah! La cosa che ho visto, e pensato
subito dopo, quella che mi ha impedito una visione più ravvicinata e che era a
sua volta, come vedremo, l'effetto di una visione veloce, uguale al lampo della
prima somiglianza, ad essa associata, come il prolungamento del suo flusso, in
continuità si direbbe, ancora senza, o prima di un ritmo, che poi però arriva
subito, ed è composito, o confuso, non so, stratificato anche, sebbene forse
non nel modo in cui vorrei io (potrebbe essere un bene anche questo, però)...
la seconda cosa, dicevo, il secondo pensiero, è stato: ancora e sempre, già lì,
allora, la scrittura alle spalle!
Curioso:
poco dopo, leggendo la lettera che mi invitava a partecipare a questo numero di
Warburghiana, mi sono accorto che,
tra l'altro (Aurelio Andrighetto, il curatore, mi travolge sempre con le sue idee: mi
emoziona e disorienta e impaurisce, e io fatico a stargli dietro; alzo il muro
del dubbio, sulle prime, mi rifiuto, faccio la madonnina, ritrosetto, ma poi quelle
idee mi si installano da qualche parte, e, sia pur senza esagerare, mi
perseguitano, mi fiatano alle spalle, e io, affannato, svicolo in ogni
direzione per sfuggire alla loro presa ma solo per accorgermi che nella fuga
gli sto dietro anch'io, le seguo e inseguo, e non le mollo, come e finché
posso, come se fossimo inscritti, tutti, in una trama all'apparenza circolare,
ma che poi no, da qualche parte si apre, si dirama e lascia respirare, per un
po'...), parlava proprio del rapporto tra scrittura e immagine, della funzione
determinativa delle statue rispetto alla scrittura, e soprattutto, per ciò che
mi riguardava (cioè la ragione per cui ero interpellato), che le statue avevano
voltato le spalle alla scrittura, come accade spesso alle immagini, che pur
essendo in rapporti molteplici con iscrizioni di ogni genere, voltano loro le
spalle, ne fanno a meno, fanno come se potessero davvero farne a meno, tanto
che alcuni credono che davvero esse siano qualcosa di assolutamente diverso
dalla scrittura, che viene prima e che già per questo può farne a meno. Le immagini
meno la scrittura. Con questa
sottrazione che, però, ha lasciato una traccia scavata dentro di esse, come una
cicatrice quasi del tutto rimarginata ma sempre presente, sottilissima,
un'ombra bianca a cui nessuno fa caso.
Ma anche così avevo guardato frettolosamente e male: un muro di scrittura alle spalle!, ho pensato già nel pensare, o meglio: nell'abbozzare, senza formularla, la frase precedente (quella summenzionata, la seconda, e in realtà simultanea alla prima, relativa alla somiglianza: quella della relativa somiglianza, forse addirittura a quest'ultima antecedente, ma incompleta, frammentata: essa pure abbozzata, incisa solo in parte nei vuoti della prima, appena a scalfirla, e ancora, per quel poco, non visibile anch'essa, o quasi: ma già con la stessa onda di emozione, già nello stesso stupore...). Un muro! Perché mi è parso che le due figure fossero a tutto tondo, poste in avanti sul piedistallo, con dietro staccato, un muro: un muro coperto interamente di geroglifici, fitti, come sulla stele che raffigura Rahotep seduto da solo davanti a un tavolino su cui si stagliano oggetti che potrebbero essere vasi ma che a un occhio malizioso, e quindi non al mio, potrebbero assomigliare a..., lasciamo perdere..., e contornato, sempre Rahotep, da altri oggetti e segni che certo sono scrittura e chissà cosa raccontano, mentre qui l'iscrizione alle sue spalle, e più ancora quella della moglie (due, identiche!: ribadite quasi a convincere della verità di ciò che dicono, o a racchiudere come tra parentesi), dice solo di chi si tratta, con i debiti titoli, e cariche, imprese e qualità salienti. Una miseria. E però già tanto. Almeno sappiamo chi sono, i due. Possiamo pensarli, morti, con un nome e addirittura qualcosa di più, aggettivi, caratteri, qualificazioni: bellissima!, lei. Secondo il loro metro. E un po' anche secondo il mio, mica intendo fare lo sfizioso! Le caviglie però...
Senza tutte le scritte: anche quelle, enciclopediche o altro, che mi fanno sapere qualcosa dell'antico Egitto, e poi della rappresentazione, concetto storia e implicazioni, della distanza, qualsiasi distanza, e delle vicinanze, e di ciò che si può unire e dividere, e accostare e distinguere ecc. Solo la somiglianza, resterebbe. La somiglianza e basta. A sua volta, però, iscritta da qualche parte meno nella statua che in me. E se non somigliassero a nessuno che conosco, mi richiamerebbero, quanto meno, due figure umane, con qualche carattere specifico in aggiunta: sesso, abito, colore ecc. Assomiglierebbero alla somiglianza. (La sparo grossa, chiedo scusa...)
Ma anche così avevo guardato frettolosamente e male: un muro di scrittura alle spalle!, ho pensato già nel pensare, o meglio: nell'abbozzare, senza formularla, la frase precedente (quella summenzionata, la seconda, e in realtà simultanea alla prima, relativa alla somiglianza: quella della relativa somiglianza, forse addirittura a quest'ultima antecedente, ma incompleta, frammentata: essa pure abbozzata, incisa solo in parte nei vuoti della prima, appena a scalfirla, e ancora, per quel poco, non visibile anch'essa, o quasi: ma già con la stessa onda di emozione, già nello stesso stupore...). Un muro! Perché mi è parso che le due figure fossero a tutto tondo, poste in avanti sul piedistallo, con dietro staccato, un muro: un muro coperto interamente di geroglifici, fitti, come sulla stele che raffigura Rahotep seduto da solo davanti a un tavolino su cui si stagliano oggetti che potrebbero essere vasi ma che a un occhio malizioso, e quindi non al mio, potrebbero assomigliare a..., lasciamo perdere..., e contornato, sempre Rahotep, da altri oggetti e segni che certo sono scrittura e chissà cosa raccontano, mentre qui l'iscrizione alle sue spalle, e più ancora quella della moglie (due, identiche!: ribadite quasi a convincere della verità di ciò che dicono, o a racchiudere come tra parentesi), dice solo di chi si tratta, con i debiti titoli, e cariche, imprese e qualità salienti. Una miseria. E però già tanto. Almeno sappiamo chi sono, i due. Possiamo pensarli, morti, con un nome e addirittura qualcosa di più, aggettivi, caratteri, qualificazioni: bellissima!, lei. Secondo il loro metro. E un po' anche secondo il mio, mica intendo fare lo sfizioso! Le caviglie però...
Eh
sì, le scritte mi dicono chi sono i due raffigurati nelle statue (nelle, o
dalle? o mediante? o altro ancora?), immagino con una certa somiglianza;
somiglianza che a me, invece, ha richiamato innanzitutto i miei due amici;
prima uno, con la piccola differenza del sesso (che nel suo caso non è poi così
decisivo – come in genere le differenze di genere, oggi –, perché sono sicuro
che lui, già un po' ambiguo di suo, non mente quando dice che, a causa della
salute, sono anni che per lui è solo memoria: che dico anni? secoli, millenni!,
epoche lontane come le prime dinastie egizie); poi l'altro (maschio sì, eccome!,
lui: c'ha pure il baffo).
Senza tutte le scritte: anche quelle, enciclopediche o altro, che mi fanno sapere qualcosa dell'antico Egitto, e poi della rappresentazione, concetto storia e implicazioni, della distanza, qualsiasi distanza, e delle vicinanze, e di ciò che si può unire e dividere, e accostare e distinguere ecc. Solo la somiglianza, resterebbe. La somiglianza e basta. A sua volta, però, iscritta da qualche parte meno nella statua che in me. E se non somigliassero a nessuno che conosco, mi richiamerebbero, quanto meno, due figure umane, con qualche carattere specifico in aggiunta: sesso, abito, colore ecc. Assomiglierebbero alla somiglianza. (La sparo grossa, chiedo scusa...)
Figurarsi
che, per dire come lo sguardo frettoloso e le fantasie che esso genera, o da
cui è generato, proseguono nella generazione dell'errore, in un primo tempo
avevo visto sulle ginocchia di Rahotep, contaminandolo certamente con un'altra
statua, quella famosissima di uno scriba, una tavoletta a sua volta coperta di
scritture. Un muretto orizzontale, tanto per non farci mancare nessuna
direzione. E quindi, l'ho visto, Rahotep, non solo con la scrittura alle
spalle, ma anche con la scrittura davanti.
Non dà le spalle alla scrittura, ma, come l'ha davanti a sé, l'ha alle
spalle, ma questa, senza saperlo. Può darsi, così fioriva il mio errore, che
lui creda che l'unica scrittura sia quella sulla tavoletta, l'unica a contare almeno, che magari ha tracciato di
persona e che di certo lui legge e controlla. E potrebbe anche darsi, allora,
che quella che ha alle spalle, che lui non vede ma che può immaginare per aver già
visto qualcosa del genere, o solo perché è facile immaginarla, potrebbe darsi, insisto,
che lui pensi che sia identica, o molto simile, a quella che ha davanti a sé,
che ne sia anzi la garante, che la
rispecchi (le assomigli), e la protegga, come il muro, con la sua solidità e
con il sapere di ciò che vi è scritto: che sostenga e protegga tutto il suo
essere, le sue proprietà, moglie
inclusa, presenti e future, per il qui e soprattutto per il là, per l'aldilà;
mentre a me sembra che il muro, quel presunto muro, lo separi anche e lo chiuda
a tutto il resto, e che la scrittura, inoltre, questo penso in certi momenti di
scoramento, sia puntata come un'arma alle sue spalle, a minacciare e precludere
ogni sua possibilità e volontà di indipendenza, per figlio di faraone che sia:
che ne de-finisca l'identità che è ignota a lui stesso, titoli e cariche e
qualità che possa o meno enumerare. Che gli tracci un altro profilo. Che ne
disegni, alle spalle, un'altra figura.
E
così anch'io, quando poi vedo le cose
come sono, le statue le scritte e il resto, non le vedo come sono, ma
intrecciate, sovrapposte, o affioranti, o alternate a quelle che avevo pensato
di vedere; e la traccia di questa visione
non la posso cancellare: il suo stampo e la sua onda (uno che accoglie la mia
impronta e l'altra che l'avvolge e la dissolve: via, via!), che si sono
tradotti immediatamente in parole e ora anche in scrittura, hanno continuato a
agire nel modo di vedere bene, a
formicolare nella visione corretta, sovrascritta a quella, e in ciò che poi
davvero ne ho scritto e che qui, con il lettore, anch'io da sopra la mia
spalla, dietro di me, io stesso alle mie stesse spalle, leggo come una specie
di mio ritratto non iconico, di una somiglianza che riecheggia senza
assomigliare o che semmai assomiglia ad altro.
Alle Giubbe rosse, Firenze 20..?
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