29/03/17

L'io lazzarone



“Quando mi raccontano una storia, mi piace sapere chi me la racconta", scrive E. Carrère. "È per questo che mi piacciono in racconti i prima persona, e io stesso ne scrivo, e non sarei capace di scrivere niente in un altro modo.” (147-8). Una delle "domande rituali" del '68 era: ""Da dove parli, tu?". Io la trovo sempre pertinente".
Anche a Paolo Nori, per esempio, quando legge i romanzi in terza persona “viene da chieder(si): Ma dove sta questo qui che parla? Da dove viene questa voce qui?”. E me lo chiedo anch’io, qualche volta. Anche se io, piuttosto, sperando di non essere il solo, me lo chiedo quando scrivo. Cioè: “da dove viene questa voce che dice io? non potrei farne a meno? chi diavolo è questo io che dice io in ciò che scrive, magari solo perché non si sente autorizzato a parlare a nome di nessun altro? E se non si sente autorizzato a parlare a nome di nessuno, da dove gli verrà mai l’autorizzazione a dire io? da chi?” Secondo me non gli viene da nessuno. Dire io è come se a parlare non fosse nessuno; come se parlasse una voce che non è nessuno (o tutti). Solo che è più comodo. Quindi sarebbe che dico io perché sono un lazzarone. Che chiunque dice io, in fondo non è altro che un lazzarone.

22/03/17

L’acqua vuole ponti



a) Il mio amico Federico mi chiede di scrivere un racconto sull’acqua.

Non mi piacciono le cose che, anche prese alla lettera, sono già metafore. Tanto più che, in genere, sono quelle di cui è impossibile fare a meno. E io non sono mai riuscito ad accettare fino in fondo che di qualcosa sia impossibile fare a meno. Ma ovviamente, poiché di farne a meno è impossibile anche a me, ne sono attratto nella stessa misura in cui ne diffido. Ne diffido non solo perché dipendo da esse, ma anche perché mi sfidano su un terreno troppo vasto, che non posso controllare, dove rischio di perdermi ancora prima di riuscire a incontrarle. E mi attraggono per lo stesso motivo. La loro forza sta nel fatto che, quando credi di averle trovate, ti sfuggono da tutte le parti, come acqua dalle mani, ogni volta che cerchi di afferrarle. E del resto anche afferrarne un lembo, accontentarsi di coglierne un aspetto, oltre che insoddisfacente, è ancora cedere al loro potere, restarne prigioniero, nonostante che spesso quanto ci è concesso non si riduca che a questo. Ma è appunto questo che mi fa imbestialire. L’onnipotenza o niente: mi dico consumando l’obolo che mi viene distrattamente gettato tra i piedi. E intanto il nodo di diffidenza e attrazione si stringe sempre di più e loro si stagliano sempre più gigantesche davanti a me. Beffarde. Ben mi sta.
Ne diffido e mi attraggono perché mi fanno paura. Ho paura della paura, ma a volte mi piace. Così a volte distolgo lo sguardo, fuggo; altre invece resto medusato, incapace di fare alcunché ma con tutti i sensi acuiti, con la testa percorsa da innumerevoli piccole scariche che schizzano incontrollabili in ogni direzione. In questi casi prima cerco di prestare attenzione a tutte, poi, chissà perché, resto come attaccato a qualcuna, preso nella sua corrente, e così, senza accorgermene, comincio a muovermi, e quando me ne accorgo sono già abbastanza avanti da non sapere più come, e a volte da non volere, tornare indietro. Allora non mi resta che lasciarmi trascinare da esse, attraversarle e esserne attraversato, in una specie di panico attivo. Sono tutto meno che un eroe: lo faccio perché devo farlo, perché senza di esse non si vive (non si pensa, non si parla). Infatti queste sono le cosiddette cose elementari.
Più una cosa è elementare, meno è possibile prenderla alla lettera. Meno puoi prendere alla lettera una cosa, più difficile diventa parlarne. Si potrebbe pensare il contrario: più immagini e connessioni una cosa suscita, più spazio hai per muoverti e più materiale a disposizione. Ma sarebbe un errore, almeno per me. Più una cosa è elementare e meno è a tua disposizione: semmai sei tu a disposizione sua. Una cosa elementare non è un materiale. Né uno spazio libero in cui muoverti: meno sono visibili i vincoli, più forti sono e più facilmente ci si ritrova ingorgati. Lo stesso avviene con le parole.
Non considero il passato (le immagini) come un magazzino teatrale al quale attingere allegramente ciò che mi serve né le parole come altrettanti costumi da indossare, come faceva Rembrandt, per rappresentare ciò che voglio, ammesso che i costumi a Rembrandt interessassero veramente. Anche se poi si finisce per farlo comunque; ma non è una scusa. E poi io non sono Rembrandt. Piuttosto preferisco immergermi e percorrere tutte le strade, senza darlo a vedere (senza citare: allora le uso anch’io come costumi per nascondermi, o meglio come falso bersaglio per scremare i distratti, quelli il cui sguardo scorre sulle parole come l’acqua verso valle), per cercare di tracciarne un’altra, se possibile. E quest’altra deve partire da me, dall’esperienza, poca o tanta che sia, che io ne ho, della quale ovviamente le immagini e le parole fanno parte.



b) Dichiaro che è impossibile. Poi lo scrivo.

A cominciare dalle immagini invece non si finisce più. Un’immagine non è niente da sola: anche una bella immagine, per quanto ci sia chi per essa afferma di essere disposto a sacrificare parecchio, se non tutto. Ma allora, non è più l’immagine che conta, è l’ossessione. Ammesso che dica il vero, e che non si inganni sulla verità di ciò che dice. Comunque con l’acqua è impossibile persino cominciare. O si è sempre già cominciato.
L’acqua è ovunque, dal poema di Gilgamesh e dalla Genesi a tutte le cosmogonie, dall’Iliade alla mia lista della spesa (acqua minerale non gasata, acqua demineralizzata per il ferro da stiro), dalle acque che si sono rotte perché io potessi nascere a quelle che rilascerò alla mia morte. Non ci sono vie preferenziali per attraversare l’acqua. A parte le correnti, i venti e il calore, cioè qualcosa che è in relazione con l’esterno, su cui però anch’essa influisce. L’acqua è ciò che attraverso senza tracciare strade e che mi attraversa lungo strade che ignoro. Mi avvolge e la avvolgo. Mi contiene e la contengo.
Io sono fatto d’acqua, ma lo so davvero solo quando ho sete e sudo. Quando ho sete bevo. E io devo bere molto, poiché soffro di coliche renali. Comunque bevo, e mi piace che l’acqua sia buona.
L’acqua che bevo deve essere pura. Cioè quasi pura. E questo “quasi” dell’acqua mi piace molto: quasi pura perché possa berla, quasi trasparente per vederle attraverso vedendo anche lei. L’aria non la vedo, se non raramente: la sento, la respiro; l’acqua la vedo sempre. (Il mio amico Aurelio mi dice che la trasparenza di una cosa le deriva dall’essere composta di atomi che sono al nostro occhio invisibili e perciò non si manifestano come colore ma acquistano solo un valore di brillanza.) L’acqua pura non esiste, deve essere distillata apposta. L’acqua non esiste pura: anche la più buona deve contenere dell’altro. Pura, l’acqua è dannosa, per il mio organismo quanto meno. E se non dannosa, poco buona. Perché mi purifichi, deve essere quasi pura.
L’acqua piovana invece non è buona da bere; neanche quella del fiume lo è, se non vicino alle sorgenti. Non è buona l’acqua che scende, lo è quella che sale. Ma prima di salire deve essere scesa, deve essersi resa invisibile passando attraverso la terra, che non è buona. L’acqua filtra attraverso la terra, scende piano, paziente, finché non trova un fondo, il suo. Lì si deposita e si accumula; quando il livello è troppo cresciuto, lentamente sale verso la superficie o lentamente scivola verso un altro fondo collegato al primo: arrivata lì, è buona. Ma ci vuole tempo. È da lì che bisogna farla salire per poterla bere. Se invece sale troppo allagando il terreno, bisogna prosciugarla.
Quando ho bevuto, l’acqua si distribuisce nel mio corpo e poi ne fuoriesce. Tutta, o quasi tutta. Perdo acqua in continuazione, di solito senza accorgermene. Evapora. Mi piacerebbe vedere il mio corpo evaporare. Qualche strumento in grado di riprendere il processo ci sarà senz’altro, ma io, faute de mieux, mi limito ad immaginarlo, e poiché è estate e fa caldo, lo immagino come il calore che esce dall’asfalto, che infatti allora sembra bagnato, in lontananza, e vivo. Vedo la mia pelle ingigantita, come un’enorme distesa offuscata da queste esalazioni che fanno impercettibilmente vibrare la peluria che la ricopre a tratti densa e in altri rada, mentre in certe pieghe scorrono rivoli d’acqua. Fiumi, boschi, campi, pianura. Quella dove abito io.
Mi accorgo di perdere acqua solo quando sudo: allora non sono invisibili esalazioni ma gocce. Anche il sudore in genere è buono. Lo dico perché sono sano, non devo faticare quindici ore al giorno in miniera e non sono disperso nel Sahara. Il sudore è buono non solo quando è prodotto dallo sforzo di un corpo che ha il vigore per compierlo, ma anche quando cerca di ripristinare la temperatura corporea d’estate o durante le febbri (“prendi un’aspirina, mettiti a letto e fai una bella sudata”, mi diceva mia mamma quando ero influenzato) e perché trasmette l’odore del nostro corpo a chiunque in un modo o nell’altro vi sia interessato. Non si sa mai.
Quando sudo, o comunque mi sento sporco, mi lavo. Ma l’acqua da sola non lava. È un discreto ma blando solvente e uno sgrassante deficitario. Lavarsi può essere fastidioso (quando fa freddo per esempio), ma in genere è piacevole, specie al mattino, appena sveglio. Di solito io mi alzo allegro, e l’acqua mi fa buona compagnia. Mi piace anche farmi la barba, pelo e contropelo, con devozione, e quando le guance sono perfettamente lisce e morbide è bello sciacquarle con l’acqua fredda. Ho ricevuto il buonumore in dote alla nascita. Sono felice. Non scrivo perché la vita mi fa male (anche se una quota la versa anche a me); scrivo per aumentare la felicità, la mia in primis e eventualmente quella di qualcun altro. Non ce n’è mai abbastanza. (Il mio amico Marco, leggendo ieri questo passaggio, mi ha detto che devo smetterla di scrivere queste cose. Se uno dice di essere felice insistendo come faccio io, non verrà mai creduto: cent’anni di psicanalisi saranno pur serviti a qualcosa! Si chiama denegazione, lo so. Ma io non pretendo di essere creduto quando scrivo. Se c’è una verità in ciò che uno scrive, non si esaurisce certo nella lettera. Comunque va bene: sono infelice. Molto infelice. Disperato. Così mi crederanno. Non il più disperato degli uomini. Meglio non esagerare. Se si dice a qualcuno di essere più disperato di lui, garantito che quello si offende. Allora diciamo che sono piuttosto disperato, ma un filino meno di ciascuno dei miei lettori. Così sono contenti tutti. Si scrive per questo, no?)
Mi lavo e canto, sottovoce. È la bellezza della doccia del mattino: le acque mi scorrono lungo il corpo, mi massaggiano e mi consegnano fresco a una nuova giornata nella quale, olimpicamente, non mi importa se combinerò qualcosa o il solito fico secco. E tu che dall’alto dei mondi. Do re mi. Il bagno invece è meglio la sera, quando sono stanco, cioè quasi mai. È però la prima cosa che faccio quando prendo possesso della mia camera d’albergo dopo un viaggio. Faccio scendere l’acqua calda mentre disfo i bagagli e quando è pronta ci resto immerso fino a quando non mi sono abituato al nuovo luogo. E poi via! Quanto al resto non sono un patito del bagno, neanche al mare, dove infatti di solito non vado.

Facevo invece molti bagni da ragazzo, al fiume, vicino al punto dove si incontra con uno dei due canali che lo costeggiano al mio paese. È un punto pericoloso, dove annega sempre qualcuno, come è accaduto proprio una decina di giorni fa, in modo banalissimo, a due ragazzi, due fratelli. A guardarlo così, senza pensare a niente, è un incanto. Ci vado ancora, da solo o con gli amici che vengono da fuori, a fare delle passeggiate, e tutti ne sono conquistati. C’è una pace! E invece ogni anno ci muore qualcuno, qualcuno ci annega o va ad annegare.
Una volta sono partito proprio da lì per attraversare il fiume controcorrente nonostante fosse più veloce del solito. Nuotavo in diagonale, verso monte, per non rischiare di ritrovarmi dalle parti della diga che c’è più a valle. Poco oltre la metà del fiume le forze hanno cominciato a mancarmi e così ho cercato di resistere meno alla corrente, pur senza assecondarla. Alla fine, stremato e vicino alla disperazione, sono riuscito ad aggrapparmi ad un arbusto che sporgeva sull’acqua, ancora lontano dalla diga. Mi sono trascinato sulla sponda e sono rimasto lì, sdraiato in pendenza tra i cespugli, confuso e col batticuore, per non so quanto tempo. Con l’acqua è così.
Per tornare a riprendere le mie cose mi son dovuto fare un giro lunghissimo. Mancava ancora parecchio al tramonto, ma le nubi si stavano già preparando per il solito temporale serale. Avevo freddo. Dei miei amici molti se ne erano già andati a casa. Ho messo i vestiti in silenzio e mi sono seduto contro un albero a guardare il ponte alla mia sinistra, tranquillo adesso. Allora gli amici rimasti mi hanno chiesto cosa mi era successo. L’ho riassunto velocemente. Bel pirla, mi hanno detto, e si sono tuffati per un’ultima nuotata.
Eppure io ero convinto di aver capito qualcosa.

Sono approdato proprio qui. Il ponte si vede sullo sfondo
L'immagine prededente è un tratto del fiume in questione
Le prime due sono opere di Federico De Leonardis
La prima si intitola - Essere Mare 1 - esposta alla casa di Pessoa a Lisbona
Scritto per una mostra a Verona di non ricordo più quando

10/03/17

Emmanuel Carrère e Philip K. Dick. La nuova traduzione di “Io sono vivo, voi siete morti”




La prima volta che ho letto questo libro, da poco tradotto per Theoria con il titolo di Philip Dick. Una biografia (1995), è stato solo per Dick, e confesso, da frequentatore alquanto deficitario del genere biografico, di averlo letto volentieri ma un po’ disorientato, perché non aveva molto delle classiche biografie da una parte, ma nemmeno di una tradizionale monografia critica dall’altra: la vita mi sembrava troppo narrata, con intrusioni del narratore che peraltro non mi dispiacevano, mentre il discorso critico era troppo incline al biografico e alla psicologia, cioè a usare disinvoltamente il dato fattuale per l’interpretazione dei testi e viceversa i testi come materiale per la ricostruzione della complessa psiche dell’autore e dei suoi conflitti.
La seconda volta invece, pur senza trascurare quanto diceva di Dick anche alla luce di una conoscenza più estesa della sua opera, l’ho letto vari anni dopo per il suo autore, attento a quanto rivelava di Carrère, del suo modo di procedere, cioè di scrivere, pensare e proporsi: come se l’oggetto del libro fosse, sia pure indirettamente, lui, cioè una figura (persona, autore e personaggio) che nel frattempo avevo visto delinearsi nei suoi romanzi successivi, e a situarla nel complesso della sua opera, a cui si è da poco aggiunta anche la raccolta di articoli, reportage e saggi Il est avantageux d’avoir où aller (P.O.L., 2016), che tra l’altro contiene anche l’introduzione alla traduzione francese di tutti i racconti di Dick (Nouvelles, Denoël, 2000) e alcune indicazioni relative alla nascita di questo libro.
Sotto questa nuova lente, ciò che nella prima lettura mi era parso spaesante è diventato invece non solo più visibile e meglio situabile, ma anche più significativo. Fermo restando che il libro mi era piaciuto prima e mi è piaciuto altrettanto, se non di più, dopo.
Questo cambio di prospettiva è segnalato ora anche dalla nuova edizione (http://www.adelphi.it/libro/9788845930874), meglio tradotta per Adelphi da Federica e Lorenza Di Lella e più accurata nei riferimenti della precedente comunque benemerita, che ripristina il titolo originale Io sono vivo, voi siete morti, che richiama Dick solo a chi lo conosce già bene (la frase è tratta da uno dei suoi capolavori, Ubik) mentre agli altri comunica solo come si tratta di un’opera di Emmanuel Carrère, il cui oggetto è quindi secondario.


Anche alla luce dei libri successivi, e soprattutto di quelli che come Limonov più si avvicinano alla biografia, sia pure declinata in una forma molto originale che anzi ora costituisce una delle cifre di riconoscimento di Carrère, questo libro appare come una specie di momento di passaggio, di incubatore di qualcosa ancora a venire, ma già compiuto di per sé. Dick infatti, nonostante lo scrupolo documentario che il genere esige, vi appare quasi come un personaggio di romanzo. E non tanto per la sua vita, che pure di tratti romanzeschi non ha difettato (morte precocissima della gemella Jane che lo ossessionerà fino alla fine, droghe e anfetamine assunte a manciate, serie di matrimoni falliti in quella che Carrère chiama “una lunga carriera di monogamo compulsivo”, ricoveri in clinica psichiatrica, tentativi di suicidio, fino alla “rivelazione” della realtà “vera” del febbraio ‘74 e alle conseguenti illuminazioni-allucinazioni-rimuginazioni e compulsioni degli ultimi anni: sebbene in fondo, come tutti gli scrittori, la maggior parte del tempo Dick l’ha passata da solo, a leggere e scrivere, anche nei periodi in cui si circondava di gente di ogni risma, tossici, devianti, delinquenti, oltre che di amici e colleghi amanti del cazzeggio e dell’interminabile sofisticheria a perdere), ma per il trattamento che le riserva Carrère. Se infatti si confronta questo libro con la classica biografia di Lawrence Sutin (Divine invasioni. La vita di Philip K. Dick, trad. A. Marti, Fanucci, 2001), che è stata uno dei riferimenti anche per lo scrittore francese, si notano subito alcune divergenze decisive.

Sutin lascia parlare quanto più possibile Dick, attraverso lunghe citazioni delle lettere, dei saggi e degli autocommenti tratti da quanto conosceva delle 8000 pagine dell’Esegesi, ora in parte anche edite, e da poco tradotte in italiano da Maurizio Nati, sempre per Fanucci (vedi quanto ne scrive su doppiozero Antonio Lucci: http://www.doppiozero.com/materiali/recensioni/lesegesi-il-vangelo-secondo-philip-k-dick), così come ricostruisce nel dettaglio i momenti della sua vita, dà un nome, finché possibile e opportuno, a tutte le persone che in qualche modo hanno avuto a che fare con lui e segue i suoi spostamenti di luogo in luogo, i suoi umori e amori di giorno in giorno, senza trascurare nessuna notizia o aneddoto; Carrère invece traspone ciò che ha letto (e immaginato, per empatia e consonanza di sentire e di intenti) nella propria voce e gli impone il proprio timbro e ritmo.
Chi legge sa, o presume con buona approssimazione, che le cose narrate sono vere, o basate su documenti e testimonianze, ma ciò non impedisce che pian piano si delinei una storia, nella quale esperienza, pensieri e ricordi e temi delle opere si amalgamano in una corrente mossa e variegata ma unitaria. Carrère riracconta ciò che Dick e chi lo ha conosciuto hanno scritto e detto, portando però tutto nel solco del suo, di racconto, adattando le citazioni al flusso del discorso o drammatizzando eventi e momenti decisivi, dubbi e riflessioni, tormenti esistenziali e mistici, psicosi e razionalizzazioni, in una narrazione a volte partecipe e altre distaccata, e in dialoghi spesso brillanti e divertenti.
Il dettaglio e l’aneddoto sono, come nei “veri” romanzi, funzionali alla delineazione del personaggio e alla sua storia, mentre Sutin, anche a costo di annoiare, vuole essere il più completo possibile, senza omissioni o buchi, spingendo lo sguardo microscopico a focalizzare ogni minimo evento o incontro, come se lì potesse nascondersi la verità, trascurando l’ammonimento più volte ribadito da Dick, che al massimo quella verità sarà sempre e solo la penultima (come ha intitolato uno dei suoi romanzi, peraltro non tra i migliori). Carrère, dal canto suo, non si cura dei buchi e dei salti, perché raccontare è legare e riempire, connettere e saldare (raccontare come ha scelto di fare lui, naturalmente; anche se forse è sempre così, perché anche il silenzio e il bianco, se da una parte disseminano e disperdono e separano, dall’altra creano uno spazio comune, lasciano che il legame si istituisca quasi da solo, tessono fili invisibili e per questo più saldi), e quindi per definizione i buchi non ha bisogno di colmarli, perché non lì ce ne sono.
In compenso Carrère, dal momento che si rivolge a un pubblico francese (ma vale anche per il lettore italiano) che in gran parte lo ignora, dà più informazioni sul contesto politico e socio-culturale, come i buoni realisti di una volta, esposte con lo stesso tono colloquiale e ironico che permea anche molti passaggi della biografia vera e propria. Riserva inoltre molto spazio a genesi, trama, con bellissimi riassunti che sono già interpretazioni e racconti a sé, e analisi di alcuni libri, senza per forza sentirsi in dovere di passarli in rassegna, o solo nominarli, tutti. È questa economia dei riferimenti, questa esenzione dalla completezza, che fa capire come l’autore più che uno studioso sia uno scrittore, preoccupato meno di riferire eventi che di costruire una storia indagando a questo fine il rapporto vita–società–opere fin dentro i temi in esse trattati.
È una forma di libertà, che scrivendo questo libro Carrère conquista. Esso segna infatti il suo ritorno alla scrittura, dopo anni di totale siccità, senza le restrizioni (soprattutto interiori) che, prima in seguito allo scontento per Fuori tiro (1998), il romanzo che aveva fatto seguito all’eccellente riuscita di Baffi (1986), e poi in concomitanza con la crisi religiosa dei primi anni ’90 di cui parla in Il regno, aveva ostruito ogni suo impulso “creativo”. Una crisi non di scrittura, tuttavia, perché durante questo periodo commenterà quotidianamente il Vangelo di San Giovanni fino a riempire una ventina di quaderni: cosa che certamente avrà favorito la sua comprensione della furia di scrittura che prende Dick dopo i fenomeni, allucinazioni o altro che siano stati, del febbraio-marzo 1974, che poi egli cercherà di capire, in un delirio a volte pasticciato ma più spesso lucidissimo di ipotesi e controipotesi e di interpretazioni antagoniste eppure conviventi, nei romanzi dell’ultimo periodo (il capolavoro Un oscuro scrutare e la cosiddetta Trilogia di Valis) e appunto la sterminata Esegesi.
Impostare in questo modo la biografia permette a Carrère di scrivere senza farsi troppi problemi qualcosa di molto simile a romanzo tradizionale, con tanto di inizio e fine, personaggi di vario spessore, psicologia, finestre sociali ecc., con la leggerezza di chi sa che da una parte può farlo perché è vincolato a dei dati e alle esigenze di un genere che impone determinate regole, mentre dall’altra sa pure che, in un certo senso, proprio perché si inserisce in un genere codificato, questa piega romanzesca può risultare paradossalmente trasgressiva. Così Carrère può immaginare senza inventare di sana pianta, abbandonarsi a deduzioni e supposizioni, sollecitare il lettore a fare altrettanto e cercare di coinvolgerlo creando attese, facendogli domande o, con prefigurazione dei risvolti performativi che diventeranno ricorrenti in seguito (come in Facciamo un gioco, poi inserito in La vita come un romanzo russo), proponendogli giochi e test: può insomma sperimentare una inedita disinvoltura di tono e escogitare e mettere a punto alcune delle procedure che poi contraddistingueranno gran parte dei suoi libri successivi.
Ma queste sono in un certo senso delle considerazioni a posteriori: quello che soprattutto gli interessava nel momento in cui decise di affrontare questo progetto, era piuttosto di scrivere proprio di Dick, uno degli autori fondamentali per la sua formazione (Carrère lo considera “il Dostoevskij del XX secolo”, e non è il solo), e che gli avrebbe ispirato, direttamente o meno, alcuni dei suoi temi più peculiari, che infatti si possono ritrovare già nelle sue primissime opere, a cominciare dal quello dell’identità e del problema di cosa è vero e cosa falso, di cosa è reale e cosa illusione, ma anche di come l’illusione influisce sulla realtà, e di chi o cosa la genera e la gestisce.
Già nei primi romanzi Carrère, per sua esplicita ammissione, è come ossessionato dalla paura di non essere se stesso (come Dick dalla morte della sorella gemella e dal dubbio di non essere lui invece il morto che sta dall’altra parte dello specchio), e di essere deprivato della propria esistenza dalle consuetudini o da altre circostanze e pressioni sociali, come per esempio l’indifferenza in cui vive e la scarsa attenzione che il soggetto riceve anche da coloro che più gli stanno vicini (Baffi). La verità, a partire da quella relativa a se stessi, vacilla e diventa indecidibile. Ci si accorge di vivere in un mondo che non è quello comune agli altri, ma che pian piano si scopre non coincidere nemmeno con quello che si credeva proprio. Se non si sa cosa è vero, è difficile anche determinare la natura del male, che pure ci attornia e di cui magari siamo portatori; la materia perde consistenza e si sfalda, in preda all’entropia, e tutto diventa virtuale e si moltiplica in varie realtà possibili, che seguono strade completamente divergenti a partire dal minimo scarto che le potenzialità insite in ogni atto spalancano.

Si tratta di un discorso dagli ampi risvolti teologici (Da sempre Dick cercava di formulare quest’unica domanda, quella che fa esplodere Dio o Lo costringe a rivelarsi” – p. 195) e mosso da una radicale e onnicomprensiva (e in quanto tale paranoica) ricerca di senso, che certo Carrère, specie in quel periodo, non poteva sentire estranea, ma che prefigurava con grande preveggenza alcuni scenari che poi sono diventati la nostra realtà quotidiana: “si può dire”, scrive nella citata prefazione ai racconti, “che viviamo nel mondo di Dick, questa realtà virtuale che un giorno è stata una finzione, l’invenzione di una specie di gnostico selvaggio, e che ora è il reale, il solo reale”. Dick peraltro non si limita a questo, ma (come ha mostrato Gabriele Frasca in quella che è la più bella, acutissima, per quanto a volte stilisticamente un po’ irritante, monografia critica italiana sullo scrittore americano: il deleuze-guattari-žižekiano L’oscuro scrutare di Philip K. Dick, http://www.meltemieditore.it/Scheda_libro.asp?Codice=Y055), arriva a descrivere nel dettaglio, nelle storie stesse che narra, anche alcuni meccanismi profondi della psiche e della realtà contemporanea, dai rapporti produttivi e sociali all’instaurarsi di nuovi tipi di poteri sovranazionali e nuove forme di gerarchia, fino alla sorte degli individui, alla dissoluzione della loro personalità e alla perdita di qualsiasi valore e significato dei loro ruoli.
Quanto più tende all’entropia, tanto più sembrano aprirsi nella realtà percorsi alternativi, che inducono a dubitare anche retrospettivamente ciò che si dava per assodato. Mondi possibili e ucronie vanno di pari passo, gli uni non sono che il risvolto delle altre. Alle storie alternative del futuro (ma anche del presente, realissime, che Dick afferma di conoscere nel famoso discorso di Metz del 1977), si affiancano quelle che riscrivono il passato. Se le prime sono uno degli oggetti della fantascienza classica, Dick riserva ampio spazio anche all’ucronia. La più nota è il grande romanzo che l’ha fatto conoscere, L’uomo nell’alto castello (noto anche come La svastica sul sole), che narra una storia in cui i nazisti e i giapponesi hanno vinto la seconda guerra mondiale e si sono spartiti il territorio degli Stati Uniti; ma anche Carrère si è interessato a questo argomento, a cui ha dedicato uno studio del 1987, Le Détroit de Behring, non tradotto in italiano. Lo stretto di Bering è la voce che nell’Enciclopedia Sovietica staliniana sostituisce quella dedicata a Berija dopo la sua espunzione, simbolo di tutte le cancellazioni che il totalitarismo opera per riscrivere la storia eliminando non solo i suoi oppositori ma ogni loro traccia, fino allo stesso nome proprio.
Il totalitarismo è anche una delle tematiche che più hanno appassionato (e intimorito: fino a essere convinto di viverci dentro, specie dopo l’avvento al potere di Richard Nixon) Dick, che “nel leggere Hannah Arendt, era stato molto colpito da un’idea: che lo scopo degli Stati totalitari fosse quello di tagliare fuori le persone dalla realtà, di farle vivere in un mondo fittizio. Gli Stati totalitari hanno dato corpo a una fantasia: la creazione di un universo parallelo”.
 E che altro è un’ucronia se non la “descrizione metodica di universi credibili e realistici nei quali la Storia ha seguito un corso diverso dalla nostra in seguito a un evento fondatore”, secondo la definizione di Eric B. Henriet, citato da critico canadese Mario Touzin (http://www.memoireonline.com/01/08/881/m_art-bifurcation-dichotomie-mythomanie-uchronie-emmanuel-carrere.html).
Ma cosa succede quando l’ucronia non è più solo fittizia, ma in tutto e per tutto reale?
E cosa succede quando queste false realtà si impongono fino a sostituire la “vera” o a convivere con essa? Come interpretare questi conflitti? Che influsso hanno sugli individui che magari, dopo aver vissuto innocentemente in una di esse credendo fosse la sola e autentica, scoprono una crepa, qualcosa che non va, una piccola incongruenza che mette in questione tutto, come in Tempo fuori sesto (noto anche come L’uomo dei giochi a premio, vera fonte di ispirazione di The Truman show di Peter Weir)?
Il conflitto delle interpretazioni, da esterno, tra gruppi e classi e individui, si trasferisce anche all’interno, tra io “parziali” e in rapida eclisse anche quando riescono ad avere il sopravvento, perché ogni egemonia conquistata lascia dei residui e non riesce a eliminare le alternative, che in rapida successione ribaltano le gerarchie, una alla volta o, più spesso, in compresenza, nella confusione totale delle (di tutte le) voci. I romanzi di Dick (e il romanzo in genere) sono questa compresenza, organizzata però, specie attraverso l’adozione di punti di vista multifocali, e non confusa; ma Dick persona non sempre riusciva a dominarla e cadeva in sua presa al pari di molti suoi personaggi.
Si scrivono romanzi anche per questo. L’orizzonte plurale delle alternative nasce da un difetto, dall’insoddisfazione di vivere una sola vita, o dall‘incapacità di starci dentro stabilmente e di gestirne la complessità e le contraddizioni, ma attrae anche chi è preda di un eccesso di vita che non riesce a contenere in una sola. Da un lato scatena il desiderio di vite multiple, come per alcuni personaggi di Carrère (così come il desiderio di viverle immaginandole è stato per lui uno degli stimoli a diventare scrittore): sono una tentazione, o una necessità, un rifugio; ma dall’altro possono anche essere una condanna, come per Dick e per i suoi personaggi.
Allo stesso modo i mondi possibili possono anche rivelarsi non altrettante opportunità, ma l’inferno. Se tutte le possibilità che si aprono ad ogni istante e che vengono immediatamente chiuse dall’unico percorso imboccato in quello successivo, trovassero davvero la loro realizzazione in altrettanti mondi possibili e paralleli, in altrettante vite, molto probabilmente non sarebbe l’eternità dei compossibili, l’apertura infinita di tutto a tutto, ma solo quella della condanna. L’infinito realizzato delle possibilità sarebbe l’infinito degli inferni. L’inferno infinito.
Dick temeva di essere prigioniero di questi inferni e di non poterne più uscire, come Carrère ha temuto di restare prigioniero del mondo da lui stesso ricostruito in L’avversario, ma mentre fino all’ultimo Dick, nonostante a momenti pensasse di avere ricevuto la rivelazione della verità, ne ha avuto il dubbio e si è dibattuto in esso lungo tutta la sua sterminata Esegesi, lo scrittore francese non ha cessato di provare a uscirne affrontando i segreti famigliari e personali più torbidi e censurati nelle opere successive a questa biografia e insieme andando a vivere nei diversi mondi che si offrono ogni volta che viene accostata la vita degli altri. A costo di restavi impigliato, ma anche felice di poterlo fare.




12/02/17

I MORTI E IL CAMMINARE


 

Cammino sui morti. Tutta la terra qui intorno è solo morti, e più in là, ovunque. Li sento sotto le scarpe che urtano, si muovono, mi fanno sobbalzare, mi aggrediscono, così che non posso mai arrestarmi e riposare. Cammino, di giorno e soprattutto di notte, perché la notte, in quel suo povero silenzio di gente chiusa in casa che finge di dormire e in realtà trattiene il fiato impaurita, non sentirli è impossibile: sono loro l'incessante rumore della notte, quello che l'udito si esercita da millenni a non udire fino quasi a riuscirci, quello che altrimenti attribuiscono alle fabbriche e alla città lontana. Ma quali fabbriche? quale città? Riempiono la notte di rumori arbitrari e fasulli per non sentire quello dei morti che si agitano. Ma io li sento, di giorno e di notte ancora più chiari, e non mi resta che camminare. Miliardi e miliardi di erbe e di piante con la loro debole anima, miliardi di insetti, di animali e soprattutto di uomini: uomini morti è la terra che calpesto. Dovrei abitare all'ultimo piano di un palazzo del marmo più lucido e duro, o meglio di cristallo se sapessero cos'è il vero cristallo, e invece mi hanno inflitto questa camera incastrata nella terra, quasi tutta sepolta nella terra, in questa casa fatta di questa stessa terra che è fatta di morti.

Cammino tutta la notte su questa piazzetta che costeggia la strada dalla quale arriveranno i camion che trasportano il cristallo per la mia vera casa, l'altissima casa di cristallo che costruirò per potermi fermare a riposare e finalmente a vivere: una sfera sopra uno stelo piantato in un cubo immenso tutto di cristallo. Tutta la notte avanti e indietro sul selciato intollerabile di questa piazzetta a spiare il diverso rumore, il rumore vero, dei miei camion che devono arrivare. Li sento da lontano, sento il loro vero rumore che avanza tranquillo e inconfondibile come l'unico canto possibile tra il rumore dei morti e gli altri rumori e falsi canti che servono solo a coprirlo senza riuscirci; lo sento, e poi d'un tratto più nulla. E poi subito, dopo un intervallo infinitesimale che io solo so percepire, di nuovo rumore di camion, ma non più dei miei: gargarismi mimetici di falsi camion che si avvicinano e mi passano accanto arroganti senza fermarsi, alcuni solo fingendo di frenare per la ridicola curva che precede la piazzetta, come a volermi irridere illudendomi, illudendo me che da molto avevo capito e li avevo dimenticati. Passano e se ne vanno, solitari o a gruppi come un'orda onnipotente, e in realtà per proteggersi a vicenda, per dissimulare la loro debolezza essenziale.

Cammino per ore e ore fino alla prima luce con l'orecchio più puro teso all'ascolto, fumando sigarette su sigarette, le peggiori, quelle che non fuma nessuno e che mi regalano con la torbida pietà di chi vuole solo ammansire. Di giorno è inteso che non verranno, non ci devono scoprire prima che tutto sia finito e quindi indistruttibile. Farò tutto in una notte. Una notte è lunghissima, non finisce mai, quindi una notte basta. Nessuno deve accorgersene, nessuno deve saperlo, eppure ci sono dei giovanotti che vengono certe sere, sul tardi, quando non c'è più nessuno in giro, solo le scie della paura della gente fuggita nelle sue tane, mi parlano delle loro avventure (ma quali avventure?) e tra un discorso e l'altro, come distratti, cercando di soffocare il misero sarcasmo di cui soltanto sono capaci e alcuni un fondo infetto di umanità mortale, mi chiedono della mia casa. Non è una casa, dico loro per sviarli con una menzogna molto vicina alla realtà, di solito la più efficace: non è una casa, è un ponte che sorvolerà altissimo tutto questo paese di cui siete gli stupidi prigionieri, secondini di voi stessi, la strada eccelsa per uscirne; ma loro continuano a chiedermi della casa offrendomi le sigarette migliori, che io accetto per non tradirmi e perché mi piacciono anche se non ignoro di cosa sono fatte. A cosa serve un ponte se tutta la terra anche fuori del paese è solo morti? Un ponte lunghissimo servirebbe, tanto lungo da non poterlo percorrere tutto prima di morire, una fascia tutto attorno al pianeta su cui trasportare la terra e i morti che muoiono e moriranno ancora, fino a liberare il nucleo di cristallo che sta sotto e che i morti hanno coperto morendo a cominciare dal primo essere, dal primissimo che c'è stato e che per aver voluto essere è morto.

Cammino su questa terra dove ora sequestrando i miei camion mi impediscono di costruire come prima ostacolavano i miei scavi. Hanno inzuppato la terra di acqua, sotto, per far marcire i morti vecchi, come se servissero a qualcosa, e non permettere a nessuno di scavare fino in fondo. Ogni volta che ho scavato mi hanno fatto trovare l'acqua, acqua in quantità enorme, inspiegabile, per potermi dire: smetti di scavare, è inutile, anneghi, c'è sotto solo acqua, dappertutto. Per prendere le arie degli amici affettuosi che intendono proteggerti mentre proteggono solo se stessi. Ma io lo so benissimo che ci sono dei posti dove sotto l'acqua non c'è, e che c'è qualcuno che al cristallo ci arriva, ma se lo tiene ben stretto, si fa le case per sé, e gli altri via lontano. Solo che quello non è il vero cristallo, io quelle case le ho viste, ignare quanto presuntuose, e sono scoppiato a ridere: non è il vero cristallo quello! è ancora e solo terra, terra lucida e trasparente che sembra cristallo. Il cristallo vero c'è solo una persona che lo ha trovato, che è stato capace di raggiungerlo perché se lo era meritato, e questa persona io la conosco, è il mio amico del cuore che mi ha promesso di mandarmelo perché io sono il suo amico del cuore, l'unico che ha capito insieme a lui. Noi due sappiamo, sappiamo distinguere. Mi ha giurato che mi manderà i camion tutte le notti finché qualcuno non sarà riuscito a raggiungermi. Ma finora nessuno ce l'ha fatta. Ogni notte, uno ogni ora dal primo buio, partono i meravigliosi convogli, ma loro li fermano, gli fanno sbagliare strada, li sequestrano senza nemmeno sapere cosa stanno sequestrando, qualcosa che non gli interessa e che quindi si limitano a frantumare e a gettare qua e là per la campagna senza sospettare che così piano piano si formeranno delle isole e che queste isole piano piano si ricongiungeranno l'un l'altra coprendo tutta la terra dei morti che finiranno così col non avere più spazio, i morti e coloro che devono morire perchè accettano di vivere volendo vivere nel modo della morte, coll'ostacolare inconsapevolmente la propria crescita e coll'eliminarsi da sé. Combattendoci lavorano per noi: è la nostra rivincita. Chissà quanto tempo ci vorrà però...

Io, nel frattempo, cammino, sono costretto a camminare senza poter dormire nè riposare, sigaretta schifosa dopo sigaretta schifosa, per l'inconsistente sollievo di uno schifo diverso, perché i miei camion tardano ad arrivare, col terrore che non facciano in tempo, che le mie suole si consumino, che la terra dei morti mi raggiunga e mi assimili prima che io possa veramente vivere. Ma le mie suole non si consumeranno, contrariamente a quanto credono loro fino quasi a contagiarmi quando sono sfinito inoculandomi lo sconforto impalpabile che muove ogni loro gesto, loro che non fanno altro che erigere incuranti la propria tomba chiamandola coi nomi più diversi, alta ormai fino a impregnare di morte tutta l'atmosfera e oltre; le mie suole non si consumeranno perché non solo il cristallo io l'ho veramente visto, ma il mio amico del cuore me ne ha dato due pezzi, due pezzi piccoli che nessuno avrebbe notato, due frammenti perfetti, eterni, da cui ho tratto queste suole che sono la mia unica difesa.

 

 

 




10/02/17

L’epopea di Gilgameš


C’è questo Gilgameš che, come tutti noi, così dicono, è figlio di un dio, ma che diversamente da noi che ce ne siamo dimenticati e quindi pensiamo di essere solo umani e quindi che prima o poi, beh, insomma... si sa, ci tocca morire, lui invece se lo ricorda benissimo, perché è un grande re, è bello, e forte, e ha tutti questi poteri che gli altri esseri viventi, e gli uomini comuni in particolare, non hanno, ed è per questo che quando scopre che di un dio sarà pure figlio, ma lui un dio in tutto e per tutto non è, e che quindi prima o poi anche lui... insomma: quello... ci siamo capiti... ci resta proprio male e non riesce a farsene una ragione. Per gli altri sarà anche ingiusto, ma non così tanto, che gli altri mica sono come lui... ma lui, dài... non è possibile! e proprio non si rassegna. Non gli possono fare un’ingiustizia del genere! È un’infamia! Ci sarà pure un modo per evitarlo... che poi magari vien buono per tutti. Il risvolto umanitario si trova sempre. Di figli di dio come lui, con queste belle pensate, lui non lo sa, ma il mondo è pieno... però va bene, è da apprezzare lo stesso. Anche perché fanno tutti una brutta fine, per questo, che a un pessimista verrebbe da pensare che è così che va a finire, sempre, la generosità. Insomma, Gilgameš si chiede cosa può fare, ma all’inizio non è che ci pensa tanto: è un re di un grande regno, che lui rende sempre più potente, uno che viaggia, compie imprese, perché ci tiene al suo buon nome, tanto più che la gloria è anche un modo per non morire del tutto, come diceva il poeta, ma è anche un giovanotto piuttosto arrogante e prepotente e libidinoso, come si addice a uno che per nascita, biologia e censo è superiore a tutti, e i suoi sudditi lo ammirano, ma alla lunga si stancano anche (specie i mariti, che non gradiscono il fatto che le fresche mogliettine, tutte vergini ovviamente, vengano prima deflorate da lui, con il rischio alquanto plausibile di non reggere poi, loro, il confronto) e insomma tutti quanti pregano gli dei che mandino qualcuno che gli faccia abbassare le arie.
Così gli dei creano un uomo selvatico, ispido, sporco, fortissimo, ma piuttosto sempliciotto, chiamato Enkidu, che vive nella steppa e nei boschi con le fiere, in totale simbiosi, tanto che alcuni malignano di rapporti anche più intimi..., e grugnisce e muggisce e ruggisce e si intende benissimo con tutte, si nutre di erbe come loro e scorrazza giulivo in lungo e in largo senza pensieri, spaventando però i contadini e i cacciatori, liberando le fiere catturate e imperversando al loro fianco. Un bestione anche simpatico, che appena entra in scena si capisce subito che diventerà amico inseparabile del protagonista e che se qualcuno dovrà morire, come in tutti i film hollywoodiani che si rispettano, quello sarà lui, e molto probabilmente al posto di quell’altro, in sua vece, come la capra al posto di Isacco, come tutti gli animali al posto degli uomini. Intanto però gli dei lo hanno creato per contrastarlo, questo amico predestinato, Gilgameš, ma lui, essendo sempliciotto, viene buggerato. Da una donna, manco a dirlo. Sono le donne che fanno uscire dall’eden e entrare nella cultura, o nella civiltà, se si preferisce, nelle dolcezze dell’infelicità. Questo è quanto dicono gli uomini, perlomeno. Gli mandano una prostituta sacra che gli insegna tutti i segreti della carne per sei giorni e sette notti (è una formula che ritorna spesso), facendogli recuperare in una volta sola tutta l’astinenza pregressa, dopo di che lui è come se si svegliasse al mondo, mentre io, e chiunque come me, sarebbe crollato molto, ma molto prima, anche se poi mi sarei vantato della performance come tutti... La prostituta lo porta in città, lavato, pettinato, profumato e ben vestito, e lì, anche se così conciato sembra un po’ un fighetto di taglia xxxxl, sfida Gilgameš, e cosa strana, lo vince, ma in realtà poi non lo vince davvero, e lo sconfitto, magnanimo, prende a volergli bene e lo coccola e lo impone anche al popolo come il miglior amico che gli dei potessero inviargli. Che vi avevo detto?

Ne fanno insieme di cotte e di crude, finché non gli viene in mente di tentare l’impresa delle imprese, quella di andare in una montagna sacra coperta di grandissimi cedri, che poi sarebbero venuti utilissimi per i palazzi e l’edilizia di lusso della capitale, la grande metropoli di Uruk, già dotata da Gilgameš di possenti mura di mattone cotto, e di ammazzare il custode Hubaba, un mostro protetto da una cooperativa di dei che lo hanno dotato di forze e strumenti di guerra insuperabili. Eppure i due, dopo una lotta memorabile, ce la fanno, con l’aiuto non secondario, bisogna dirlo, dei doni del dio supremo che li ha presi sotto la sua ala. Immobilizzano e poi, nonostante le suppliche, macellano il mostro, o demone, o incarnazione di tutti i mali, che almeno sparissero per sempre con lui!, e se ne vanno carichi di bottino e di fama. Le montagne e le foreste tremano, scosse da brividi, e anche gli dei non sono contentissimi quando i due depongono la testa tagliata davanti a loro (un’usanza che da quelle parti non è mai venuta meno, perché loro, diversamente da noi rinnegati, alle tradizioni ci tengono); specie Enlil, potentissimo dio della terra e parecchio altro ancora, che al defunto era particolarmente affezionato.

I due non si preoccupano e quando tornano sono feste e canti e danze per tutti! La gloria rifulge attorno a loro. Attorno a Gilgameš, in particolare, tanto che vedendolo, Ištar, la dea dell’amore, per non smentire il suo titolo, è presa dalla foia per lui e gli si offre senza mezzi termini. Di corsa uno ci andrebbe! Vogliamo scherzare? La dea dell’amore! Altro che tutte le sciacquette e gli sciacquetti che girano per la corte e in città! Godurie mirabolanti, come minimo... impensabili! Invece Gilgameš le dice di no! No??? ...eh no! Mica è scemo! Lo sa che fine hanno fatto tutti i suoi amanti una volta che se ne è saziata... non solo, glielo rinfaccia anche! Le dà, senza mezzi termini, della troia! strega e vampira e assassina... Un tatto squisito. Una volta a palazzo usava così (le moine arrivano dopo, con i francesi e quei loro baffettini a filo di labbro). Che già rifiutare una donna, anche racchia (mi scuso per la mia, di indelicatezza), uno si attira odio eterno e vendetta garantita, figurarsi una che, oltre che dea dell’amore, lo è anche della guerra! Perché a quei tempi avevano le idee chiare e non avevano ancora diviso l’endiadi come faranno, per esempio, greci e romani, salvo poi cercare di rimediare, parzialmente quanto meno, facendo dei rispettivi titolari due amanti. Va be’, Gilgameš, l’impavido, non cede, lascia il talamo della dea vuoto e desolato. Uno si aspetterebbe che la dea oltraggiata si faccia vendetta da sé, che ci vuole?, e invece no, come una bambina viziata lei va a chiedere aiuto al babbo e ai famigliari. C’ha la bua, poverina! Fa i capricci. Lo voglio morto, lui e quel bifolco calzato e vestito del suo amichetto! Pretende un Toro Celeste che li stermini, compresi un bel po’ di concittadini, già che c’è. Gli dei glielo confezionano seduta stante e lo spediscono a Uruk, dove appunto imperversa spargendo stragi su stragi. Poi però arrivano i due amigos, che all’inizio tremano di paura (sono forti e coraggiosi, ma non cretini: il pericolo lo vedono, e ne sono atterriti) ma poi si riprendono e decidono di affrontare lo stesso il Toro e le proprie paure (il coraggio sarebbe questo, dicono i filosofi, che raramente ce l’hanno però; non che io sia meglio, sia chiaro...). Dopo una lotta furiosa, Gilgameš trattiene per la coda il bestione inferocito e gli conficca lo spadone nel coppino. Poi, invece di tagliargli la testa, che è un onore che si fa solo agli uomini, gli strappano il cuore e lo offrono al loro protettore, il dio del sole e della saggezza. Ištar naturalmente ci resta malissimo, torna a lamentarsi e in più lancia maledizioni belle a sentirsi. Enkidu, che sarà anche forte ma non brilla per intelligenza, strappa una coscia al toro e gliela scaglia contro. Non bisogna esagerare con le umiliazioni! Anzi, a rigore non si dovrebbe nemmeno umiliare. Ma questa è storia recente, quindi lasciamo perdere. La dea corre di nuovo dagli dei e stavolta, appoggiata anche da Enlil, già furioso per  la brutta storia del suo protetto Hubaba, ottiene dal consiglio il decreto che uno dei due deve morire. E a chi toccherà mai, secondo voi? Dovrebbe essere Gilgameš, a essere onesti, ma dopo i soliti negoziati, immagino, si accontentano di far morire Enkidu. Q.E.D.
C’è sempre qualche dio tra i piedi. Un pover’uomo non può starsene un momento in santa pace che qualcuno degli dei superni, o sottani, arriva a tampinarlo, gli manda un sogno, una punizione, a volte anche un aiuto. Non resistono a starsene per conto loro, hanno sempre bisogno di essere temuti, pregati, adulati, invocati, al limite anche maledetti, ma guai a fargli uno sgarbo! Sono una brutta razza, è risaputo... a quei tempi ancora di più, antichi e bambini al contempo, volubili, irritabili, che basta un niente che decidono di sterminare gli uomini, mandare cataclismi, carestie, pestilenze... Diluvi! Troppo facile, così! E se anche per una volta sembra che ci passino sopra, stiamo certi che la punizione arriva, se non al primo colpo, al secondo; e se non direttamente, di lato. Ma allora è ancora più tremenda. Non colpisce te, o Gilgameš, ma individua ciò che ti è più caro, come Enkidu, ed è su questo che si accanisce. Non di te stesso ti priva, che allora amen, uno non ci pensa più, ma ti fa vivere senza ciò che era la tua vita. Nel dolore che non muore. È la loro misericordia.
Altro che fama imperitura! In quei momenti il desiderio di lasciare ai posteri un nome duraturo, compiendo imprese, sfidando mostri, abbattendo nemici potenti e altre iniziative testosteroniche, si rivela per quel che era: puro fumo, niente, fame di vento..., perché chi se ne frega dei posteri, in fondo, il postero voglio essere io, solo questo conta! Io con i miei cari! Non senza... Ma la morte, per il povero Enkidu, non tarda ad arrivare. Il regno buio, la casa di polvere, prima si affaccia nei suoi sogni, poi comincia a corroderlo dal didentro per giorni e giorni, senza pietà né remissione. Che sia maledetta in eterno! Non valgono lacrime né preghiere. Le offerte, abbondantissime, lusingano gli dei, che appena sentono un profumo di sacrifici accorrono come mosche (viene usata proprio questa formula), ma stavolta non si lasciano impietosire. I loro capricci di gentaglia viziata diventano legge. Figurarsi che, quando ancora si degnavano di abitare sulla terra, avevano decretato il diluvio perché infastiditi dal numero degli uomini e dal chiasso che facevano, che allora non c’erano nemmeno le fabbriche, gli aerei e le discoteche... Che poi si sono pentiti, a vedere tutto quello sterminio, ma tant’è: ormai il disastro era fatto E per fortuna che ci aveva pensato Ea (dio, tra l’altro, delle acque dolci e della sapienza) a salvarne uno, cioè il saggio re Utnapištim e tutta la sua famiglia servi compresi... anche se poi c’è stato pure chi, pentito o meno, si è risentito che il segreto era stato spifferato... il solito Enlil, che però alla fine, come se niente fosse, non solo lascia sopravvivere il buon Utnapištin, ma gli concede per soprammercato la vita eterna, alla faccia delle coerenza. 

Gli eroi invece hanno una parola sola: gente seria, forte, capace di grandi gesta e sacrifici, ma anche squassata da sentimenti smisurati, inclusa la paura, immensa, indomabile, sfrenata! ...gente che non si vergogna di piangere, e anzi vi si abbandona anche in pubblico con tutto il repertorio di vesti e capelli strappati e altre pagliacciate di contorno... mica sono stati sedati dalla società delle buone maniere, repressi e incitrulliti! ...si concedono tutto alla grande, persino le debolezze, e proprio questo ce li fa amare ancora di più: non perché tramite queste debolezze li assimiliamo a noi, ma perché proprio esse ci mostrano la loro incommensurabilità. E noi ci stupiamo e li ammiriamo. Cioè li amiamo. Li amiamo senza chiedere niente, per pura gratitudine. Attraverso la quale, solo, ci accostiamo a loro e siamo davvero prossimi... Tale è la grandezza, la scintilla divina, che in sé ogni gratitudine contiene.
I sogni portano agli amici meraviglia e terrore, e la consapevolezza definitiva che “la fine della vita è dolore”. Se è per questo basta essere un po’ svegli per accorgersene. Ma pazienza, a quei tempi l’ultima parola spettava sempre ai sogni. La realtà viene dopo. A mettere il sigillo. Ma quello definitivo, allora: come il verme che esce dalla narice di Enkidu, che solo quando appare si decidono a seppellirlo.
I sogni sono l’annuncio o la ratifica: vengono dagli dei, come è noto, quei creatori instancabili, di fuffa piuttosto che di niente, e allora la loro sentenza è definitiva, non rivedibile. E questa storia, di sogni è piena; forse essa stessa è sognata.
Solo quando l’amico del cuore muore, Gilgameš è sopraffatto dalla vera e profonda consapevolezza di essere lui pure mortale. Prima era un pensiero vago, qualcosa di lontano, forse nemmeno così grave come si dice... qualcosa che si può aggiustare... Ora invece, “contaminato dall’inquietudine”, si dispera, sprofonda nell’angoscia più nera, ma poi, da quello spirito indomito che è, decide di mettersi in cammino a cercare l’unico uomo che abbia ottenuto l’immortalità (in realtà anche la moglie... ma quella non conta, è inclusa nel pacchetto regalo degli dei), il citato Utnapištin, la cui storia viene poi raccontata diffusamente per quanto a ben vedere c’entri poco. Per raggiungerlo Gilgameš attraversa le viscere della terra in dodici ore doppie (è scritto proprio così: ed è come se queste ore fossero infinite) di tenebre, “con la carne degli dei nel suo corpo ma la disperazione nel cuore”, fino al giardino degli dei, dove gli viene consigliato di lasciar perdere e di godersela, intanto che può, che è in forze e ne ha tutti i mezzi. È un re mica per niente! Suggerimento sagace!, ma per chi ha la morte dentro, tutte quelle parole, al pari della saggezza racimolata durante le imprese e i viaggi, sono vuote. Aria pura. Cosa vuoi che gliene freghi di feste e banchetti o di qualche scopata?
Lascia stare, insiste però l’ostessa del giardino degli dei... torna a casa, è impossibile, non ce la puoi fare! Succeda quel che deve succedere, Gilgameš invece non desiste. Morire per morire, meglio rischiare di diventare immortale! Trova il traghettatore, lo tratta anche male già che c’è, distrugge le steli protettive come uno stupido arrogante, ma riesce a convincerlo a portarlo da Utnapištin, di là dal mare di morte. Però poi, quando arriva a destinazione, non riesce a superare la prova che gli farebbe ottenere l’immortalità, e invece di restare sveglio per i fatidici 6 giorni e 7 notti, come era stato capace di fare Enkidu con la prostituta sacra, si addormenta subito come un sasso. Neanche mezz’oretta resiste il poveretto, stracciato dalla fatica... crolla e tanti saluti! Non se ne accorge nemmeno. E non servono le scuse, al risveglio, una seconda possibilità non c’è. Inutile piangere e farsi compatire. Un po’ di dignità, che diamine! È finita! Capitolo chiuso!
Anche se... Anche se cosa? Ci sarebbe, suggerisce Utnapištin, o piuttosto sua moglie, impietosita, questa pianta in fondo al mare, che assicura l’eterna giovinezza... Una pianta irraggiungibile, spinosissima, ma il cui effetto è garantito. Nessun problema, fa Gilgameš, sarà irraggiungibile per gli altri, non per lui! ...e sulla via del ritorno, giunto al posto indicato in mezzo al mare, si lega delle pietre ai piedi, come i campioni di apnea che tentano i record, e si lascia andare giù, verso il fondo! ...sì, per non morire si attraversano i mari, si va agli inferi, si raggiungono i giardini degli dei, e si va in fondo, in fondo, giù, dove ci sono mostri e piante strane... una vita orrida sconosciuta, mai raggiunta dalla luce del sole... fiori di tenebra... il fondo del fondo!, da dove chissà se si potrà mai tornare... giù, dove si andrà comunque se si fallisce, se si muore... e intanto, in questo, la vita va... e se non tutta la vita, la vitalità, la gioia di vivere, la forza di affrontare le cose, di rivoltare il mondo... Però Gilgameš è Gilgameš, un eroe mica per caso, un testone che non molla mai, e arrivato sul fondo la pianta la trova e poi, liberatosi dalla zavorra, la porta su, per sé e per tutti. Non moriremo mai! Saremo sempre, tutti, giovani e belli! E non da qualche parte nei cieli, o in altre dimensioni, improbabili, temute e insieme ambite, ma qui, sulla terra, a casa nostra, tra i nostri amici. Sia gloria eterna a Gilgameš


Solo che poi, appena risalito sulla barca, lo stanco eroe si distrae e un serpente sbucato dagli abissi (un altro serpente? allora è un vizio!) gliela ruba e, spine o non spine, se la pappa tutta quanta. E subito cambia pelle. Quindi funzionava davvero! Intanto però il ladro si è di nuovo inabissato e chi lo ritrova più! Va a godersi l’eterna giovinezza, a sprecare questo dono inestimabile, come forse è destino che vadano sprecati tutti i doni del genere, da solo, in quei postacci bui e disabitati, che io in un buco del genere quello che vorrei sarebbe solo crepare in fretta... altro che giovinezza! E intanto la barca va, inarrestabile, solca le acque dolci e quelle salate, ripete la traversata a ritroso, e a nessuno sarà  più concesso di tentarla. Mai più. Mai più...
A Gilgameš allora non resta che tornarsene a casa, dove sarà accolto con giubilo e feste, dove potrà compiere magari altre imprese, governare con maggiore saggezza, quella che le esperienze, e anche la disillusione, lasciano in eredità, e fare incidere la sua storia su una stele, essere cantato ancora in vita, celebrato e ammirato e invidiato, e infine, come tutti, morire.
Perché alla fine, al contrario di tutti i film hollywoodiani che si rispettano, anche il protagonista morirà, per sempre, senza remissione, gloria o non gloria, regno o non regno, madre divina o non madre divina.
Poi sì, è vero, qualcuno racconta anche altre cose di lui, ma io solo questo ho sentito, e solo questo ho letto e racconto. E sebbene pure qui dentro ci sono altre storie, per stavolta non le riferirò. Solo questo dirò: in tutte la morte regna sovrana, ma sempre l’incanto le viene appresso.
Perché così è: la storia più antica nasce dalla più antica domanda, quella che l’uomo ha cominciato a farsi non appena è diventato uomo, cioè ha cominciato a pensare, cioè a pensare a se stesso: perché devo morire? E noi oggi questa storia non ci stanchiamo di leggerla perché anche noi continuiamo ancora a farcela, questa domanda, sempre senza risposta, sempre con lo stesso terrore e lo stesso meravigliato infinito sgomento.



L’epopea di Gilgameš, a cura di N. K. Sandars, trad. di Alessandro Passi, Adelphi, 1986
(Ma vedi anche, per chi preferisce le edizioni filologicamente più accurate e commentate, che ricostruisce tutte le vicende della saga e della sua tradizione con tante varianti e versioni alternative spesso bellissime di interi episodi, La Saga di Gilgameš, a cura di Giovanni Pettinato, postfazione di Silvia Maria Chiodi, ultima edizione Oscar grandi classici, Mondadori, 2004, ora purtroppo introvabile anche sulle piattaforme online.)