(Secondo me, se il sovrannaturale aveva intenzione di palesarsi, poteva trovare un altro modo. Gente ridicola!)
Racconti, libri, mostre, divagazioni, recensioni, speculazioni varie
21/11/18
Una cosa strana che mi è capitata ieri sera. Giuro che è vero.
(Secondo me, se il sovrannaturale aveva intenzione di palesarsi, poteva trovare un altro modo. Gente ridicola!)
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14/11/18
Commento con molto spazio bianco intorno, a proposito di un episodio dell'altrieri (e di domani)
Un albero non è un albero
o almeno non si può chiamarlo albero
un cane non è un cane
e è opportuno non chiamarlo cane
ma in un altro modo ogni volta da inventare
un buffone non è un buffone
a dispetto delle apparenze
che raramente ingannano
il non buffone non è un non buffone
quindi è un buffone
dire cose opposte è andare d'accordo
andare d'accordo è dire cose opposte
pensare, vivere insieme, è un'altra cosa
***
(Post fb 27 dic. 2020
Non ricordo più a cosa o a chi mi riferivo.
Oppure sì, ma non lo dico.
Se non lo dico ancora per un po',
lo dimentico per davvero.
E allorà sarà vero che non lo ricordo più.
Non vedo l'ora di chiedermelo
aspettando una risposta che non saprò dare.
E dandomi del rincitrullito per la memoria
una volta infallibile, e ora...
Ora cosa?
06/11/18
Julien Green, Passeggero in terra (11-03-82)
Anche in letteratura il destino non si accontenta di un ruolo qualunque: quando c’è, come in molti romanzi di Julien Green, domina tutto. Poco importa la restrizione del possibile, o che i personaggi prendano a volte l’apparenza, per il lettore troppo razionalista, di stupidi o inetti pur nella loro tragicità; la strada è segnata, e il suo esito di paralisi.
La sua rincorsa può durare secoli, come in Varuna (Mondadori), attraverso
individui, situazioni e luoghi differenti, ma niente resta inconcluso. Il
movimento da esso inaugurato tuttavia non è semplice e non si può ridurre alla
metafora venatoria del cacciatore e della preda: occorre infatti che anche la
preda muova quasi specularmente verso il cacciatore.
Man mano cioè che lo spazio del destino, che è quello
della trascendenza, limita il campo reale e empirico dei suoi “oggetti” (nei
romanzi i vari protagonisti), in questi deve corrispondere un complementare
allargamento del desiderio di fuga o di liberazione, che cresce con il progressivo
cedimento dei suoi appigli o delle sue mete concrete, sfociando nella rinuncia
o nell’impossibilità totale di realizzazione. Così che questo finale ma
infinito desiderio che non conosce più la propria meta non sia che la
traduzione della sotterranea vocazione di ciascuno al proprio destino, del
quale si viene a scoprire che ha mosso il primo passo quando la vittima ha
mosso il suo. E’ la divaricazione immanente al personaggio, il quale tanto più
fortemente cerca la sua meta quanto più si dibatte per sfuggirvi, che innesca
così la trascendenza del destino.
Questa viene allora vissuta come incubo, donde la
dimensione spesso onirica di questi romanzi, ma la sua violenza appare tanto
più cogente quanto più si concretizza, come tentazione inaggirabile, in cose ed
eventi che resistono alla manipolazione. Come nel peccato, che forse anzi di
questa situazione è l’esemplificazione migliore, ma un peccato in cui il vero
martirio sarebbe non cadervi, mentre la risoluzione finale della morte diverrebbe
forse più l’apertura alla possibile liberazione che il suggello della condanna,
Non è un caso infatti che, almeno nella modernità, il destino si ritrovi con
maggiore frequenza in autori credenti o a forte caratterizzazione teologica.
E che Julien Green rientri in questa categoria è innegabile,
per quanto comprensibile e giustificato possa essere il suo rifiuto della
stigmatizzazione a “scrittore cattolico”, mediante la quale è stato spesso
accomunato a Bernanos e Mauriac, rifiuto più volte testimoniato dal suo
imponente e importante Diario, in
parte tradotto presso Mondadori. Lo dimostra persino il suo primo romanzo, Passeggero in terra, molto
opportunamente proposto da Serra e Riva con l’aggiunta del racconto Christine, che pure fu scritto nel 1925,
prima cioè della sua conversione al cattolicesimo.
Non sarà difficile infatti scoprire già nella vicenda in
esso narrata, ambientata nell’oscura provincia di fine Ottocento della
Virginia, dove l’autore (di famiglia americana ma nato a Parigi nel 1900 e francese
a tutti gli effetti) ha frequentato l’università, molti dei motivi cui sopra si
è accennato. A prima vista ne è oggetto il tentativo di spiegare la misteriosa
morte di un giovane studente, Daniel O’ Donovan, anche per deciderne la forma
più adeguata di sepoltura, che non potrebbe essere religiosa in caso di
suicidio.
Il libro è composto di tutte le testimonianze a
disposizione sul caso, presentate dall’autore senza altro commento all’infuori
di una breve introduzione circostanziale. L’unione in esso di due finzioni,
quella del manoscritto ritrovato (il diario di Daniel) e quella di un’indagine
giornalistico-poliziesca (le testimonianze dirette e indirette), conferisce
all’insieme un’andatura molto tesa, da romanzo giallo. Solo che qui la scelta
della soluzione viene devoluta completamente al lettore, al quale però sarà
impossibile decidere, nonostante la predominante tentazione per la cifra
psicopatologica.
E’ vero infatti che tutto sembra spingere in questa
direzione: dall’infanzia di orfano non amato in casa di parenti racchiusi
ciascuno nel suo mondo di ricordi, insoddisfazione o fuga religiosa e incapaci
persino di comunicare tra loro, all’indole incline all’introversione e alla
paura, dalla cui forza Daniel è pure intensamente attratto, come dimostra la
predilezione per i racconti di terrore; al fantomatico compagno che, ancora, lo
attrae e lo rigetta, lo deruba e lo aiuta, gli distrugge i libri e lo conforta
nella sua solitudine, ma che nessuno ha mai visto, a cominciare dalla padrona
di casa messa in allarme dalle stranezze dell’inquilino. Ma d’altra parte ci
sono il biglietto che questo compagno gli ha veramente lasciato e le
caratteristiche della sua rappresentazione che, se si considera l’importanza
attribuita al fattore religione, ne fanno più che un doppio o una proiezione
psichica, l’incarnazione del demonio.
Più che l’ambiguità, mi sembra regnino l’ambivalenza, il
doppio vincolo dello schizofrenico e l’indecidibilità, nel continuo passaggio
da una sfera all’altra, la realtà trasformandosi in sogno e racconto e
viceversa. Ma forse proprio negli elementi che specificano questo “viceversa” è
possibile trovare un ulteriore indizio interpretativo, che comprenda in qualche
modo gli altri riconducendoci alle proposizioni di esordio.
Mi riferisco agli unici due racconti esplicitamente
introdotti nel diario: quello dell’incubo ripetuto in cui Daniel con
progressiva esattezza vive quella che sarà la sua morte nel suo luogo reale,
che tuttavia gli è ancora ignoto; e quello, che tanto lo aveva impressionato da
bambino, del giovane che, nonostante la maledizione, disobbedisce al divieto
paterni perché fey, ossia “spinto
verso la morte da un potere irresistibile”; racconti che contengono, sebbene
ancora sparsi, tutti gli elementi citati in apertura, e che solo la morte di
Daniel, ripetendoli, combina e porta a compimento, a conclusione di una trama
lasciata in sospeso dal destino dei suoi genitori, dei quali Daniel ripete la
malattia e la morte, senza però commettere l’errore di lasciare altro resto che
non sia quello di una (innocua?) finzione.
Julien Green, Passeggero
in terra, Serra e Riva, Milano, 1981, £ 5.000
03/11/18
Jean Cocteau, Il mio primo viaggio - Il Giro del mondo in 80 giorni (1994)
Nel 1936 Jean Cocteau, per rendere
omaggio a Jules Verne nel centenario della nascita, decide di ripetere
l’impresa del Il giro del mondo in
ottanta giorni, romanzo dal quale anch’egli, come generazioni di altri
bambini, aveva imparato “il gusto dell’avventura e il desiderio di viaggiare”.
Ma nei resoconti che scrive per Paris-Soir
poi riuniti in questo volume, di avventuroso non c’è nulla, al massimo qualche
serata passata nei quartieri a luci rosse o nelle fumerie d’oppio delle città
orientali (ma senza “toccare la pipa”); per il resto il viaggiatore Jean
Cocteau non dimentica mai di essere in primo luogo un poeta, e in quanto tale
il viaggio per lui non può che avere al proprio centro la bellezza, “come si
presenta e il posto esatto che occupa”, esattamente quello che , a suo parere,
“i viaggiatori non raccontano mai”. Non c’è il tempo, e forse nemmeno la
voglia, di conoscere realtà e persone, anche se non mancano accenni alla
società e alla politica del fascismo e del colonialismo; tutto sfila come una
parata che sembra interessare principalmente per il fascino dei paesaggi e
delle opere d’arte, per le emozioni che l’armonia dei corpi, i colori, le fogge
delle vesti e il gusto dei cibi possono suscitare e per la possibilità poi di
trasformarle in immagini e parole da degustare come un frutto squisito. Il
primo colpo d’occhio è già la verità, la prima impressione si tramuta
istantaneamente in formula, a nessun luogo sarà fatta mancare la sua bella
definizione, spesso di sapore dannunziano (Roma è una “città pesante”, mentre
Atene è “leggera”; Il Cairo è “una città morta” e New York, “un giardino di
pietra”), così come non mancheranno quegli spunti meditativi e morali, meglio
se un po’ provocatori, la cui assenza stonerebbe al cospetto di culture diverse.
Eppure, se gli ingredienti dello stereotipo del viaggio dell’esteta sembrano
tutti presenti, raramente Cocteau finisce per caderci, in primo luogo per
l’attenzione prestata alla scrittura, al solito curata proprio nella sua
apparente immediatezza, ma soprattutto per l’adesione non manierata, mai
astratta, spesso corporea anzi, per il mondo che vede e le persone che gli è
dato, sia pure di sfuggita, di incontrare. Non a caso i momenti migliori sono
quelli in cui maggiore è la presenza dell’esterno e dell’altro, in particolare
le descrizioni degli spettacoli e dei loro protagonisti, si tratti del kabuki o
dei musicisti e dei danzatori di Harlem. Quando poi il caso gli fa incontrare
Chaplin su una nave, la descrizione quasi devota del suo carattere e dei suoi
progetti e la registrazione dei suoi discorsi si innalzano al punto che
basterebbero queste pagine a giustificare la lettura del libro.
Jean Cocteau, Il mio primo viaggio - Il Giro del mondo in 80 giorni, ed.
Olivares, Milano, 1994, pag. 245, £. 15.000
20/10/18
Signore che saluta alzando l’avambraccio di scatto
Nessun gesto, nessuna occhiata, nessun
cenno, nemmeno l’abbozzo di un saluto, una sillaba, un sibilo, l’eco del
respiro. Eppure già a scorgerlo da lontano un po’ mi inquieto, lo sento, in
modo vago, minaccioso, non per qualche violenza che venga da lui, ammesso che
ne sia capace, e che se ne accorgerebbe quand’anche la esercitasse, ma da me,
da qualche punto che da grandi lontananze (eppure accosto, appena dietro una
parete fragilissima) si risveglia al suo apparire e che, per quanto io cerchi
di rassicurarmi, mi fa paura. Una paura che mi avvelena ogni fibra e mi fa vergogna.
Mi sento chiamato in causa senza appello, sollecitato
dall’assenza di sguardo, più ancora che come mi capita con i ciechi, perché qui
gli occhi hanno la potenzialità di vedere, vedono senza vedere, vedono senza
vedersi vedere, non vedono ciò che guardano. Non: vedono ma non guardano, bensì:
né vedono né guardano, sono spalancati sull’abisso del vedere, del puro vedere
senza soggetto né oggetto. Quello in cui potremmo cadere da un momento all’altro,
e forse in cui sempre siamo.
Chi fosse interessato a conoscere un altro episodio di questa piccola saga lo può trovare qui.
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