27/04/21

Intervista a Giovanni Giudici (31-5-83)

 


Giovanni Giudici è nato vicino a La Spezia nel1924 e vive da tempo a Milano. La vita in versi (1965), Autobiologia (1969), Obeatrice (1972), Il male dei creditori (1977), Il ristorante dei morti (1981) sono le sue principali raccolte poetiche, tutte edite da Mondadori che ha pubblicato anche negli Oscar, Poesie scelte (1957-1974). Critico letterario di L’Espresso e L’Unità, ha raccolto parte dei suoi interventi in La letteratura verso Hiroshima (Editori Riuniti, 1976). Della sua notevole attività di traduttore conviene ricordare almeno l’Evgeij Onegin di Puskin negli Oscar e Addio, proibito piangere e altri versi tradotti (Einaudi1982).

 

Dice Giovanni Giudici, in assoluto uno dei più importanti poeti del dopoguerra, che alcuni hanno potuto scambiare ciò che scrive “per una poesia molto semplice e dimessa, mentre in realtà la semplicità è solo una maschera”. Una scelta, cioè, e il risultato di un lavoro complesso.

 

E’ un’osservazione che in un certo senso vale anche per la sua persona, composta e misurata e “di solido buon senso”. A prima vista. Perché il suo atteggiamento anti-intellettualistico, l’attenzione verso la concretezza e la dominante razionale del suo discorso si aprono non di rado ad un uso non spettacolare, ma appunto per questo più significativo, del paradosso e ad una diffusa frequenza ironica che, lungi dall’essere la solita forma di difesa, si rivela come un diverso aspetto della razionalità e l’effetto della consapevolezza che certe cose, le più importanti in poesia, mal combaciano con una forma esclusivamente argomentativa. Niente impedisce che ne abbiamo una, certo: solo che è sempre opportuno ricordare che c’è una sfasatura. Così come niente impedisce che ironia e argomentazione entrino nella poesia.

Chiedo allora a Giudici che ruolo hanno nella sua.

“C’è nella parola stessa un’ironia oggettiva. Come la parola ha in poesia una sua virtù autoliberatoria, tanto importante in un’epoca in cui tutti i significati paiono cancellarsi anche per ragioni tecnologiche,così ne ha anche una autoironica, poiché è in sé fortemente ambigua e sfiora aree di significato contigue. L’ironia e il lapsus, la poesia lo sapeva prima della psicanalisi, sono già nella lingua”.

 

Cosa intende esattamente per “virtù autoliberatoria”?

In poesia non siamo noi che diciamo o decidiamo di dire le parole, sono esse che si dicono attraverso di noi, liberando i significati. Come suggerisce il vecchio concetto di ispirazione, al quale io credo ancora, noi dobbiamo solo lasciare spazio a questa capacità della parola di autoliberarsi. Bisogna chiedere pochissimo alla poesia, anche se poi questo minimo, come ciò che chiede K. nel Castello: una casa, una moglie… è il massimo.

 

E’ come dire che bisogna escludere l’intenzionalità dalla poesia?

E’ l’eccesso di intenzionalità ad essere molto pericoloso. E’ un peccato contro lo spirito, un tentarlo: il più grave peccato. Come l’oratore deve pensare a svolgere una propria argomentazione e non al possibile effetto delle sue parole sugli ascoltatori, così, dice Leopardi nello Zibaldone, il poeta non deve pensare all’effetto della sua poesia o ai critici, ma dovrà limitarsi a narrare, esortare e compiangere, a seguire cioè la spinta del sentimento che lo porta a scrivere, a esprimerlo in modo autentico, certo con l’ausilio di tutti gli strumenti dell’arte, e poi aver fede nella propria parola, e il resto (cioè la possibilità di riuso del testo poetico) sarà dato in sovrappiù.

 

Che spazio potranno avere allora gli elementi narrativi e argomentativi?

Goethe diceva che per fare una poesia è innanzitutto necessario un buon argomento, come ci dev’essere un interesse iniziale del lettore che faccia da stimolo e lo attiri nella poesia, anche se poi scoprirà che magari l’essenziale è altro. Quanto all’argomentazione è uno degli elementi meno considerati della poesia, ma secondo me uno dei più importanti. C’è nella lingua poetica anche una pseudologica che porta a delineare sillogismi e pseudosillogismi che esprimono certe cose con estrema lucidità, elementarità ed essenzialità. Shakespeare ne è ricchissimo. Naturalmente, come ogni altro in poesia, è un elemento che non vive isolatamente. Ma perché è molto persuasivo? Perché è scritto in versi, ha un certo suono, un certo ritmo, una certa ricordabilità. Quasi come un’espressione aritmetica.

 

E gli elementi, diciamo, fisici della lingua poetica?

Certo, sono fondamentali, tanto che la lingua io non la chiamerei language ma tongue. E’ una cosa e l’altra cioè, è una funzione corporea preminentemente, ma anche etica e esistenziale. Una cosa è sicura: la lingua non è la linguistica.

 

L’ultimo suo libro è di traduzioni? Può dirne qualcosa?

Il libro inizia con la traduzione di un poeta (J. Donne) che in un certo senso rappresenta quello che in passato, e per pura suggestione dell’epiteto, avrei voluto essere: un poeta metafisico, e termina con quella di un tipo di poeta che, anche se temo di non poterlo più, vorrei ora diventare: un poeta romantico. Una parola questa che, usata oggi, comporterebbe un lungo discorso, ma con essa io a grandi linee intendo un poeta capace di coinvolgere i sentimenti di altre persone e soprattutto di liberarsi dal proprio io personale, facendo veramente in modo che, come dice Rimbaud, io sia un altro e non sempre io.

 

Può specificare il senso di questa formula che ormai tutti usano ma poi ciascuno intende a modo suo? Crede che l’io della poesia sia fittizio?

L’io di ogni poesia non è fittizio; quando scrivi è vero, anche se, nel momento in cui la poesia si configura e si pone come poesia, non è più un io privato, non è più legato all’identità dell’autore e può essere l’io di qualunque persona legga la poesia e ne partecipi il senso, si senta coinvolta e dica (per semplificare): succede proprio così anche a me.

 

Vorrebbe ritornare sul poeta romantico, che mi ha incuriosito?

In questo senso molto importante per me è stata la traduzione di Puskin, che ho appena rifatto quasi completamente e che ora uscirà come opera mia: l’Onegin di Puskin, in versi italiani di G. Giudici. L’ho fatto per cercare di recuperare qualcosa che nella nostra tradizione è mancato. Non abbiamo infatti una grande poesia romantica: l’unico grande poeta romantico da noi è stato il Manzoni, che peraltro molti disprezzano come poeta (io invece darei tutti i miei libri per aver scritto Gli inni sacri e i cori dell’Adelchi).

Mancando la poesia romantica ci sono mancate anche determinate esperienze stilistiche, per esempio il verso giambico, un verso che sia armonioso, cantato, popolare e naturale soprattutto, e che non sia una cantilena.

 

Per finire potrebbe dire qualcosa a proposito della recente polemica, che lei ha contribuito ad innescare, sull’uso troppo rigido ed esclusivo di metodologie formali e strutturali?

Anche tralasciando i loro aspetti sociologici e pratici, io non condivido queste metodologie “scientifiche”, che sono troppo limitative e dimenticano inoltre il giudizio del valore. La poesia poi, finché potrà sopravvivere, deve avere e ha dei fini che trascendono la sfera puramente letteraria e poetica. Recentemente sono stato colpito leggendo ciò che diceva H. Sienkiewicz, l’autore di Quo vadis?: scrivo per confortare (nel senso sostanziale della parola) i cuori dei miei compatrioti. Ora io non so se scrivo per confortare, o per fortificare, i cuori, ma sono convinto che se la letteratura viene meno ai suoi effetti extra-testuali si può anche chiudere bottega: va bene solo per i seminari universitari.

 

20/04/21

Intervista a Angelo Maugeri (agosto 1981)



La fase folcloristica della “rinascita” della letteratura della poesia, pur giustificata dalla lunga quarantena semi-ufficiale precedente e non priva di qualche merito se ha potuto allarmarne il pubblico, è fortunatamente passata, ma la produzione della poesia altrettanto fortunatamente continua ad arricchirsi.

Finito il momento delle assunzioni di massa e dei pronunciamenti generali e astratti, è giunto forse quello di cominciare a operare delle distinzioni, andando a vedere una per una le varie personalità e tendenze e lasciando a ciascuna una parola che sia, se possibile, la sua.

Senza pretendere all’esaustività né a classificazioni di tipo sportivo, abbiamo allora pensato di condurre una piccola inchiesta intervistando alcuni dei poeti che hanno maggiormente segnato questa rinascita.

 

Tra di essi Angelo Maugeri, classe 1942, non è forse il più giovane ma appunto per questo, risalendo più indietro i suoi esordi e tenendo conto della forte originalità che caratterizzava i suoi ultimi lavori, I sensi meravigliosi (in Quaderni della Fenice, n. 43, Guanda, 1979) e I fiumi i falchi la distanza il vento (in Almanacco dello specchio, n.8, Mondadori, 1980), può risultare inutile come inizio, seguire il suo percorso.

Tanto più che la sua poesia non ha mai voluto segnalarsi per trovate pirotecniche o per la ricerca di novità immediatamente evidenti e provocatorie, ma si è basata fin dai primi tentativi sulla ricerca di uno spessore e di una individualità di tono attraverso il costante confronto culturale.

Non è una poesia di difficile comprensione nemmeno a lettura immediata, ma non per questo è meno arduo e complesso approfondirne le stratificazioni, dato che è frutto di una forte tensione meditativa e insieme di un pudore che non prevarica nell’ostentazione sentimentale o esistenziale: indica, suggerisce, evoca mediante un lessico e una sintassi “puri” ed essenziali.

 

Quali siano state le tappe che lo hanno portato a questi risultati, è stata la prima domanda.

C’è chi ipotizza che in fondo è lo stesso libro che ciascuno legge o scrive, e anch’io, come tutti, da quando scrivo inseguo sempre lo stesso libro, così che ogni nuovo verso, se da un lato è un altro verso strappato alla morte, o aggiunto alla vita, dall’altro è un accostamento a questo libro, che sia “mio” e non, alla Mallarmé, quello che racchiude tutti i libri possibili. Mi è sempre interessata la parola aurorale, quella che sorge come dal nulla e inaugura prospettive inedite, ma dato che so che una poesia non sorge dal nulla, ho cercato, iniziando a scrivere, di trovare la mia confrontandomi con quella che nello stesso solco la precedeva, senza dimenticare però le esperienze contemporanee.

E’ naturale dunque che abbia avuto molta importanza per me la rivisitazione dell’ermetismo, di ciò che in esso era stato dimenticato e travisato, e la sua reinvenzione, alla luce però delle acquisizioni della neoavanguardia degli anni ’60 e dello strutturalismo, come risulta dal mio primo libro Mappa migratoria (Geiger, 1974).

 

Mi pare tuttavia che il tuo linguaggio, sebbene essenziale, non sia di tipo aureo e elevato.

Questo accade perché, quando scrivo, mi pongo nell’assoluta dimenticanza  della mia cultura, e spesso capita addirittura che io parta da versi letteralmente sognati (come i titoli messi tra parentesi di certe poesie di I sensi meravigliosi) o suggeriti da stati onirici durante la veglia, anche se è soltanto nella rielaborazione successiva, nel momento in cui ti provi con la poesia, in questa specie di lotta con l’angelo, che le parole si caricano di quell’ambiguità di cui tu stesso non conosci né l’orizzonte né la direzione.

Ciò non toglie che io abbia sentito che era per l’impegno sulla parola tipico dell’ermetismo che si doveva passare. Ma questo lavoro sul linguaggio ho sempre voluto dissimularlo, per far risaltare invece le immagini, sia quelle più ossessive che mi perseguitavano che quelle entro cui cercavo di spiegare una certa emozione, un certo flusso, di paura o felicità (la morte, il respiro, l’amore, il corpo, la metamorfosi, il “sistema / dei minimi dialoghi…”).

 

Sono temi che tornano anche nei libri successivi.

Sì, anche se il mio secondo libro, Verbale di s/comparsa (Geiger, 1976), trova la sua occasione più immediata nelle discussioni che si facevano allora sulla possibilità di una rifondazione della poesia, dopo che l’analisi linguistica su cui si era retta la neoavanguardia aveva toccato il fondo riducendosi più che altro alla ricerca di giochetti di facile effetto. Su queste discussioni si erano poi innestate rabbie e disillusioni di varia natura che in quegli anni avevo subito, o vissuto.

Attraverso una forte tensione cercavo allora un’espressione molto concentrata, tagliente, che mi permettesse il recupero di immagini della quotidianità che venivano a cozzare tra di loro producendo nuovi significati. Alla fine però mi sembrava di essere come una freccia ferma il cui bersaglio si allontanasse sempre di più. E’ per questo che nei testi successivi ho sentito il bisogno di allentare un po’ la corda linguistica, di ripiegarmi in me stesso, diventare più tenero e dolce, e nel contempo di trovare una voce più distesa, più capace di costruire un periodo, un discorso, anche una narrazione, qualcosa che desse un’unitarietà alla frammentazione delle poesie.

 

Oltre che perfettamente aderenti al discorso contenuto, trovo che i titoli dei tuoi libri siano molto belli. Vuoi commentarli?

Verbale di s/comparsa vuole mantenere già nel titolo l’ambiguità costitutiva del linguaggio poetico. Ciò che compare e insieme scompare, segnalato dalla barra, è l’io, portatore, soggetto del linguaggio. Come è noto tutta la poesia moderna si struttura, schematicamente parlando, attorno ad un io che non è l’autore ma la protezione di una miriade di fantasmi. Di questo io sono state date molte interpretazioni: negli anni ’60 si parlò (Giuliani) di un io ridotto; ma poi si sentì l’esigenza di ulteriormente eliminare la sua presenza e così lo troviamo ora disperso (Cucchi), disseminato (De Angelis), utilizzato in senso antropologico (Conte). Per parte mia invece mi attengo a una concezione che ne metta in risalto la fuga, la fuga del senso dal senso.

Dove con senso – ed eccoci ricollegati a I sensi meravigliosi – si intende tanto il senso semiotico, del discorso, quanto i cinque sensi, ovvero sei, se vi si aggiunge quello della poesia. L’io cioè si perde, perde senso per riacquistarne sempre un altro, per ritrovarsi sempre mutato in altro, come avviene nella metamorfosi, che non a caso è uno dei miei temi ricorrenti.

 

Potresti specificare il legame tra senso corporeo e poesia?

La poesia è il linguaggio più elevato del corpo, corrisponde al segno come eccedenza linguistica. Non di un corpo centrale, robusto, ma di un corpo giocato sul suo margine, sul suo profilo, nei sensi che fuoriescono dalla superficie, come ciò che essa affiora o viene secreto (i peli, la saliva, le lacrime ecc.), la parte più salvabile del corpo, la più noncurante, ma che, appunto come la poesia, ne traduce la più radicale interiorità. Come i sensi inoltre, anche la poesia è un prolungamento del corpo che si proietta verso l’esterno per produrre significati.

 

Pensi che questi significati siano comunicabili?

Forse non si tratta di produrre una comunicazione, dato che la poesia (almeno la mia, come io la intendo) non tende ad affermare verità o ad afferrare qualcosa che sia come un centro della realtà: solo vi si accosta, gli gira attorno, ne descrive i bordi nella loro mutevolezza e cerca di instaurare una comunione di queste esperienze, diciamo con cointeressenza. C’è poco da fare: si scrive per durare, per potenziare la vita e raggirare la morte, ma anche per trasmettere. Se fossi solo al mondo non credo che scriverei: sono illusioni che lascio ad altri, queste. Si scrive per entrare in contatto con l’altro, non per autoconsolarci, ma per con-solarci reciprocamente, per dire: senti, è possibile salvarci, per ritrovare i punti della nostra bellezza attraverso le angosce e le paure.

 





10/04/21

Intervista a Giovanni Raboni (1983)



Ho commesso l’errore di andare a intervistare Giovanni Raboni nella sede della casa editrice da lui diretta. Così, nonostante la sua grande affabilità e intelligenza, ne sono uscito con un po’ di amaro in bocca. Perché non mi è stato possibile indurlo a lasciarsi andare e a dire cose che non scriverebbe mai pronunciandosi sulla sua poesia in particolare o su problemi più generali. E la colpa non è della naturale pacatezza e riflessività di Raboni, ma di un maledetto telefono che continuava a squillare. Lui rispondeva pregando per lo più di richiamare e subito ritornava a me, ma ogni volta, per riprendere il filo del discorso, doveva compiere uno sforzo di concentrazione, che poco spazio finiva col lasciare agli abbandoni e alle vie traverse che io invece prediligo in questi colloqui. E’ servita a poco anche la mia arma segreta, la più disarmante in genere, e cioè la moltiplicazione delle domande cretine, che nessuno, non fosse altro per cortesia, ha mai il coraggio di rinfacciarmi, almeno apertamente.

Raboni infatti, esercitato a un costante autocontrollo per la sua attività editoriale e di critico (vedi per esempio Poesia degli anni Sessanta Editori Riuniti, Roma, 1976), trovava sempre il modo di farle sembrare quasi intelligenti, ciò che, in fin dei conti, tornava a maggior lusinga sua più mia, e senza benefici di ritorno. Ahimè doppiamente gabbato così: sconfitto da un telefono e ferito nel narcisismo. Meglio rimuovere allora, e trascrivere l’intervista.

 

La tua generazione è quella dell’avanguardia, eppure nella tua poesia non c’è traccia di violenza linguistica. Come mai?

Io assumo la lingua in blocco, come un dato, senza per questo mimare il linguaggio quotidiano, perché credo che la lingua sia un meccanismo troppo delicato perché possa permettermi di scherzarci. Ho l’impressione cioè che la poesia sia un modo non di violentare il linguaggio e di montarlo pezzo per pezzo, ma di usarlo rispettandone le strutture, in un’altra direzione. Si tratta però di un atteggiamento personale che non pretendo valga per tutti; e infatti ci sono alcuni poeti che lavorano sulla lingua che io amo molto.

 

Mi sembra che, specialmente nei primi due libri (Le case della Vetra e Cadenza d’inganno, Mondadori, Milano, 1966 e 1975), ci fosse invece una grande attenzione per gli oggetti.

Partire dall’oggetto, ma sempre in qualche modo spiazzandolo, è una mia tecnica ricorrente. Allora ero molto attento a certi paradigmi culturali e a una certa idea, o mito, dell’oggettività, così che a volte mi nascondevo dietro una serie di parametri, di oggetti-maschera, di “correlativi oggettivi”, mentre in seguito c’è stato un progressivo smascheramento.

 

C’era anche una forte presenza del sociale, specie in Cadenze d’inganno, e dell’ambiente, soprattutto cittadino.

L’attenzione all’ambiente e al sociale si radicava in una certa idea della città come corpo, che spesso corrispondeva all’uso di un linguaggio comune e basso, e della vita urbana, che si basava su motivazioni di natura più poetica che ideologica: per esempio in Baudelaire [che Raboni ha tradotto infatti].

 

Cosa ti sembra sia cambiato in maggior misura in Nel grave sogno (Mondadori, Milano, 1982)?

C’è da una parte un tono più febbrile una maggior rilevanza dell’elemento onirico e dall’altra una maggior frontalità, una prospettiva più assiale, una minor tendenza a estromettere dalla poesia il suo oggetto e a farne un antefatto. Si ha forse l’impressione di una maggior presenza della realtà, ma si tratta soprattutto di una diversa tecnica prospettica.

 

Prima hai accennato a un progressivo smascheramento. Come si è manifestato in pratica?

Attraverso una più forte compromissione della persona. Prima cioè il discorso era prevalentemente calato o nascosto negli oggetti, poi, a poco a poco, è diventato il discorso di una prima persona che finge di essere una terza persona, che non si confonde con l’autore quindi, fino giungere alla quasi coincidenza attuale, diffratta attraverso la finta semplicità del linguaggio e la logica asimmetrica del sogno.

 

Questo percorso asintotico di avvicinamento all’impossibile coincidenza, che modificazioni ha introdotto nel tuo linguaggio?

Mi ha indotto a cercare, dal punto di vista strutturale e lessicale, una maggior trasparenza; ciò che non impedisce tuttavia al discorso di essere più sostanzialmente oscuro. Il linguaggio più puro e cristallino l’ho perseguito probabilmente proprio per permettere di vedere l’oscuro. E’ sempre un offrire uno sguardo su di un buio. Ci sono sempre oggetti ecc., ma come sintomo di qualcosa d’altro, non più nella loro materialità.

 

E quali sono i problemi sorti dall’uso della prima persona che naturalmente la compromissione maggiore ha comportato?

L’io poetico mi ha creato soprattutto problemi di registrazione dei toni. Prima mi veniva più spontaneo pensare che intervenendo altre voci, il tono potesse essere o quasi materico o ironico o comunque distaccato. Quando senti invece che l’intervallo tende a restringersi e ad annullarsi quasi, quando la voce recitante, il soggetto, è in prima persona, allora è chiaro che il distacco non funziona più o devi recuperarlo in un altro modo, perché d’altra parte c’è sempre il desiderio di evitare un certo tipo di liricità o di enfasi. Non mi sento di alzare troppo il tono come per esempio tentano di fare alcuni nuovi poeti, né di rinunciare alla linearità e all’effusione. Ho cercato allora di ottenere effetti di velatura, in termini di sonorità. Il problema resta di mantenere nel proprio registro vocale la manifestazione “diretta” di quanto uno ha da dire.

 

Anche rispetto a questo qualcosa si sono verificati degli spostamenti. Per esempio per quanto concerne la morte.

C’è meno in senso letterale, forse perché c’è una maggior vicinanza reale. Nei libri precedenti c’era spesso una poesia contro la morte, che era soprattutto però la morte degli altri; ora invece è come uno sfondo costante. In Nel grave sogno è più presente l’amore, la tenerezza. Ho avuto l’impressione che fosse una svolta necessaria, il modo per ricominciare.

 

E’ tutto dettato da una specie di urgenza vitale allora?

Si parla sempre da una qualche mancanza, o vuoto, che si è venuto a creare… la scrittura nasce sempre da un vuoto: non nell’infelicità né nella mancanza di vita o di desiderio; anzi al contrario. La scrittura non è un surrogato della vita, anzi la vita diventa più vita nella scrittura, così come la scrittura diventa più vera in ragione della quantità di vita che ci metti.

E’ più un vuoto di attenzione, di concentrazione, momenti come di cedimento nei quali la necessità di caricarsi, di fare esperienze, subisce come un piccolo arresto, aprendo in tal modo lo spazio alla nuova concentrazione che ti serve per cominciare.

30/03/21

Marco Belpoliti, Pianura

Quando scrive, Marco Belpoliti, rispetto a ciò di cui parla, – anche se in ogni cosa è sempre dentro, perché non parla mai, neppure se richiesto, di qualcosa che non ama o non lo interessa, che è poi la stessa cosa, almeno per lui – di solito  fa un passo in fuori, per vedere meglio le connessioni, le differenze, le sfumature, i rimandi, le implicazioni, come un geografo, o come uno studioso-camminatore che si ferma a guardare da una terrazza o da una gobba della campagna, o al massimo da una collinetta; e allora in ogni cosa lui c’è, ma è come se si sottraesse, come se non volesse che si noti nemmeno qualche lembo della sua ombra come ogni tanto i fotografi hanno il vezzo di lasciare intravedere nelle loro immagini, mentre invece, a ben guardare, a non lasciarsi trascinare dalle molte cose che ci racconta e descrive, da tutte quelle illuminazioni e curiosità che ci dona e ci fa scoprire, lui dentro c’è sempre tutto, corpo e ombra, perfettamente mimetizzato, come una farfalla o uno di quegli insetti la cui storia ci racconta in tanti suoi articoli e libri. Nel suo ultimo, bellissimo libro invece, Pianura, appena uscito da Einaudi, a me sembra che Marco il passo lo ha fatto in avanti, dentro la materia e la scrittura, in primo luogo per l’inconsueta scelta, per lui, della narrazione come  carattere primario, perché raccontare racconta sempre anche negli articoli e nei saggi, e della prima persona come voce narrante, che si rivolge a un “tu” che prende la forma, come personaggio, di un amico di lunga data con cui il narratore ha condiviso, e condivide, molte esperienze, ricordi e interessi, oltre che un ampio epistolario di cui il libro finge di entrare a far parte, ma che potrebbe anche essere il lettore, soprattutto uno come me, che ne condivide la nascita e la vita in pianura, se non il luogo di origine preciso, che pure nell’economia del discorso, e della vita, e io lo so benissimo quanto a me, conta tantissimo; e poi perché il racconto parte dal vissuto e dalla memoria, pur senza farne il proprio oggetto principale – perché quello è sempre fuori, ma un fuori visto da dentro; anzi, con dentro il proprio dentro, sparpagliato sulla superficie della pianura e che in essa si riflette... –, forse anche a causa degli anni che passano, che magari non pesano, ma ci sono, e ogni tanto fanno sentire la propria voce, e allora, invece di difendersene e respingerla come sempre, fosse solo per pudore, la si sta ad ascoltare, lasciandosene trascinare (incantare), senza vergognarsi della sua dolcezza. Della sua tenerezza, che secondo me di Pianura è il tono dominante. Assieme all’affabilità e alla confidenza che rivolgersi a un amico consentono e che Marco in questo libro orchestra magistralmente, senza smancerie e viceversa senza le forzature che in questi registri sono sempre dietro l’angolo, traditore.

E questa voce parla di ricordi, e di progetti, di viaggi, incontri, figure famigliari, tanti amici, e tanti maestri, assiduamente frequentati o incontrati poche volte in carne e ossa o mai, ma che hanno lasciato il segno, che vanno a disporsi come nei riquadri della centuriazione romana che scandisce la piana almeno fino al Po, e in certi casi oltre, a disegnarne il paesaggio anche quando non sono più percepibili.

E allo stesso modo, quasi senza darlo a vedere, anche da questo libro viene fuori una vita, la trama larga e forte di una vita che non è solo di chi scrive, ma anche la nostra, di molti se non proprio di tutti, di una generazione nata negli anni ’50 e nella pianura e lungo i suoi fiumi, e un po’, ne sono certo, anche quella di molti altri. Figure memorabili, note e quasi sconosciute, raccontate in ritratti altrettanto memorabili, da Camporesi a Celati, da Berger a Scabia, da Marco Martinelli e Ermanna Montanari a Benemerita Annarella e Giovanni Lindo Ferretti, che vengono a compore, in filigrana, un’autobiografia intellettuale e sentimentale, un autoritratto per interposte persone, attraverso le predilezioni, le consonanze, le forme che la relazione affettiva assume, come un esoscheletro che nasconde e insieme rivela il corpo che vi è racchiuso, o come quei quadri di Arcimboldo che raffigurano persone o mestieri o stagioni attraverso gli oggetti della loro attività o le loro caratteristiche o i loro prodotti ma senza la loro speciosità, o la loro voglia di stupire, perché leggendo li si vede ad uno ad uno e solo alla fine si riesce a intuire, sottile, un tracciato coerente e unitario, appena accennato ma a quel punto evidente e indimenticabile. Se questa autobiografia è tutta “esterna”, con minime concessioni all’interiorità e al privato, è perché tutta esterna è la biografia, proiettata verso il fuori, gli altri, i reciproci rapporti, che poi vengono ripresi all’interno, sezionati e triturati e impastati nelle parole (per usare metafore relative al cibo, che è uno dei motivi ricorrenti del libro), perché è l’interno, sono gli affetti, il legante che li fa essere e durare, per quanto dispersi siano nello spazio e nel tempo. L’andirivieni nella pianura infatti avviene nel tempo oltre che nello spazio, con soste nei luoghi segnati da frequentazioni, letture, immagini, viaggi, studi e memorie personali e famigliari, che il lettore può seguire anche attraverso una mappa disegnata da Belpoliti e riprodotta nei risguardi all’inizio e alla fine del volume, a segnalare che il percorso era già iniziato prima della prima parola e non è terminato dopo l’ultima, che non a caso, anch’essa scritta a mano, disegnata come i tanti disegni che lo costellano: abbozzi, promemoria, scarabocchi..., è “eccetera”.

 

Perché la pianura comincia che è già tempo, è già storia. Nella sua geografia, e non solo nella sua geologia, il passato è presente e visibile. Il libro lo dice espressamente fin dall’inizio, con un capitolo dedicato alla centuriazione ancora oggi riscontabile in larghi tratti soprattutto a sud del Po, e alla sua riscoperta da parte di uno dei personaggi marginali e improbabili che costellano la narrazione e contribuiscono al suo fascino: un soldato e console danese, in questo caso, che fa la sua scoperta in Tunisia e poi cerca e trova tracce e conferme nella nostra pianura. Si nasce in uno spazio già misurato, diviso, lavorato, che contiene nella sua superficie le stratificazioni che ne hanno determinato i lineamenti. L’unico spazio che non cambia è quello che cambia sempre, il cielo, con le sue luci che avvicinano o allontano le cose come lenti, anche se per rendersene conto è necessario un limite, come quello delle montagne che però non sempre sono visibili, perché spesso l’aria stagna, umida, quasi densa certi giorni, diafana, persino opaca anche in assenza di nebbia; il cielo a sua volta cartografato da Ghirri, autore della stupenda foto della sovracoperta, con le sue nubi e velature, ma senza indicazioni né altro indizio che non sia quello della cornice dell’immagine. Pianura è un libro di cartografi scritto da un cartografo. Cartografi di territori reali e immaginari, come il trecentesco monaco visionario Opicino, o di spazi che solo lo sguardo dettagliato di chi vive a contatto del terreno può avere.

 

Nella pianura lo sguardo dall’alto è impossibile, ci si eleva solo di poco, si è sempre raso terra, tra le cose, una di loro. Lo sguardo è sempre orizzontale, l’unica lontananza è l’orizzonte, se non ci sono case o alberi a impedirlo, ma mobile a seconda dell’aria, lontanissimo col sereno. E il cielo, che allora è facile popolare di fantasie. (Per questo è bello, ogni tanto, salire in montagna, o a Bergamo alta, per me, e da lì, se c’è vento a spazzare lo smog, vedere tutta la pianura, dall’alto, e se si è fortunati arrivare con lo sguardo fino all’altro confine, gli Appennini, azzurri. Ma di solito, ci sono i paesi nella caligine, i fumi colorati, qualche macchia di verde residuo, i margini slabbrati della campagna, della visione. Dall’alto, ma, ancora, non da troppo da troppo in alto.)

 

Ma facciamo un passo indietro, a imitazione di quello di Marco, perché anche a noi piace guardare come sono fatte le cose, come si articolano tra di loro e come funzionano: il suo è un farsi indietro abbastanza da poter guardare da fuori, ma non troppo, senza la pretesa di dominarle, a differenza delle presuntuose vedute aeree della scienza. No, Belpoliti di solito fa un passo indietro, o due o tre, quanto basta, per non perdere il contatto, come non lo perde mai dai libri delle sua biblioteca, anch’essa sparsa sul territorio, e dalla sua memoria di essi, le cui tessere sembra che vadano a comporsi da sole nei suoi saggi e articoli e libri, a formare però quello che non è un mosaico ma un affresco, perché le tessere lì dentro si scontornano e trapassano l’una nell’altra fino a fondersi senza soluzioni di continuità, non più singolari, ma insieme. Spiccano, ma come un insieme. Infatti, e questo a me piace molto, non cercano di colpire nella loro singolarità, non vanno a caccia della memorabilità e della citabilità anche quando potrebbero ambirvi. Sono disposte nel continuum della discorsività orizzontale, unite con saldature invisibili, incastrate alla perfezione come gli intarsi magistrali del duomo di Bergamo disegnati da Lorenzo Lotto. Entrano nella rete della mente del lettore senza voler colonizzarla, nemmeno con la malizia capziosa della seduzione, o illuminarla con un eccesso di watt, bensì come luce diffusa, morbida, che accende nuove diramazioni, che mostra o traccia nuovi percorsi, che poi, a posteriori, sembrano, e non erano, già lì, portate da un movimento che le avvolge e le ordina senza fatica, per quanto varia sia la loro natura e distante, per il senso comune, la loro provenienza. Per vedere come questo procedimento funziona, basta prestare attenzione al modo in cui sono costruiti i singoli capitoli, per esempio in “Pispiò” dove la forma, l’andatura e la tonalità del discorso mimano il parlato con le sue divagazioni e i suoi salti, e sono invece il risultato di un meccanismo perfettamente costruito, compatto e unitario proprio laddove si assume sembianze ramificate e dispersive.

 

Parlando di Ghirri, uno dei suoi punti di riferimento, Belpoliti scrive che il suo obiettivo non era di “denotare ancora una volta la trasparenza, ma piuttosto di togliere tutta la trasparenza che c’è tra noi e il mondo, e questo per tornare a vederlo. La nebbia assumerebbe questo compito di condurci alla visione del mondo così come ci appare.” Chi vive nella pianura padana questa esperienza l’ha fatta innumerevoli volte e anche se spesso non vi fa caso, ce l’ha dentro, e la riconosce subito, se solo qualcuno gliela fa notare. Una cosa difficilissima da realizzare in fotografia. Ora che tutti hanno uno smartphone, lo possono sperimentare: anche quando sembra fitta, la nebbia nell’immagine scompare, si sottrae alla vista quasi quanto sottrae alla vista il mondo. Personalmente ho sempre amato la nebbia proprio per questo: che ti accoglie e avvolge, ti nasconde e insieme ti espone all’ignoto, che è anche un pericolo e ti rivela a te stesso; che mentre acceca regala visioni: le cose escono dalla nebbia e ti vengono incontro nella loro singolarità e nella loro diversità, a seconda della sua densità e delle “condizioni di luce” sulla pianura, per citare un altro dei grandi amici e maestri di Marco, Gianni Celati, e a seconda dell’ora del giorno o della sera, del fatto di ricevere il lume naturale o quello artificiale del lampioni o dei fari di un’auto, come piaceva tanto a me, quando tornavo a casa che era già sera e la nebbia era fitta e io prendevo apposta una strada che attraversava la campagna buia, senza una casa e un lampione per chilometri e chilometri, tutta curve e piccoli avvallamenti, che si doveva percorrere lentamente, attento a non uscire di carreggiata e finire in un fosso o contro qualcuno cha sbucava all’improvviso a piedi o in bici, e gli alberi che la costeggiavano, in certi punti, uscivano pian piano, uno alla volta, nerissimi, spogli, meravigliosi, e a volte, quando la nebbia si alzava, era come infilarsi in un lunghissimo tunnel di buio sopra e attorno, e chiarissimo davanti, illuminato per qualche metro dai fari e con le robinie e i sambuchi che ti accoglievano a gruppi, come ad abbracciarti, e il mondo era vivo e ogni cosa sprigionava il suo incanto prima di sparire; o di giorno, quando le gocce acquistano coma una tonalità dorata, che diventa scintillio quando la strada porta verso la montagna e a un certo punto arrivi alla soglia in cui esci verso il fulgore del sereno ma per qualche attimo sei avvolto da una polvere luminosa, accecante come quando si sta per rivelare una divinità, e questa divinità è il mondo; oppure ancora, ed è quella che preferisco, quando si cammina di giorno e tutto è sempre e solo grigio, in sfumature che vanno dal ferrigno al cinereo, e si vede poco o niente eppure si va avanti, quieti e sicuri anche se ci si perde, perché anche se non lo si percepisce, si avverte l’eco del mondo e la sua forma e la sua consistenza e la sua consolazione, nel tempo sospeso, ininfluente, dimenticato. Sensazioni e esperienze che anche Belpoliti conosce e racconta nel suo libro. “Per questo la nebbia, scrive Belpoliti, è lo stato perfetto in cui vedere [lo] spazio [della Pianura]: l’aperto è incommensurabile e la nebbia non lo lascia guardare.” Il mondo non è in agguato, si è solo ritratto, lui pure, un passo indietro dall’evidenza. Dalla sua prepotenza, per delicatezza.

 

E anche per questo gli uomini della pianura hanno sempre un che di fantastico, e di strano, incline all’immaginazione e alla nostalgia, predisposti a quel particolare stato che viene chiamato “magone” (descritto in uno splendido capitolo), che persiste a dispetto di tutta la loro disposizione alla razionalità e alla pratica concretezza del vivere quotidiano, e a volte, a momenti o per lunghe stagioni, li inghiotte. La lunga schiera di scrittori emiliani che dal Boiardo arriva a Delfini e poi a Celati, e a Cavazzoni e Benati e molti altri, di cui Belpoliti parla in questo libro aggiungendosi alla schiera, è lì a dimostrarlo. E immaginazione è “tutto quello che racconto qui. Sono cose vissute, ma nella memoria, col tempo hanno preso una strana forma, come di sogno, a volte”.

 

Anche quando il discorso fila via, foealizzato sulle storie da narrare e le figura da ricordare, lo sguardo e la mente si muovono in continuazione e perlustrano i paraggi e le lontananze, e all’improvviso si insinuano un dettaglio, un’osservazione, una considerazione veloci, ma che lasciano il segno, accendono e velocemente spengono una lucina, perché la lettura ti trascina avanti, la cui traccia ti resta nell’occhio e nella testa ai margini del flusso, per cui spesso te ne accorgi soltanto dopo, quando sei già passato oltre, con un effetto ritardato, così che rallenti e torni indietro a rileggere, per poi riprendere con quell’immagine o la riflessione ben salde, ormai ineludibili, che si irraggiano anche sul seguito e lo illuminano di luce nuova, mostrando aspetti e sfumature che erano rimasti nell’ombra, o invisibili (come quella sulle scale a p. 252).

 

Così, di luogo in luogo, di figura in figura, Belpoliti, come dice lui stesso, chiama a raccolta il passato remoto e recente, gli amici lontani o scomparsi e riesce perfettamente in quello che, in una rara ammissione personale diretta (di solito  espone ciò che è più intimo parlando degli altri o con le loro parole), era l’obbiettivo che aveva in mente scrivendo questo che è il più bello dei suoi libri, “rimettere insieme i pezzi sparsi della [sua] vita”.

 

L’ultima scena è al cimitero dove sono sepolti i genitori. Pianura è un omaggio anche a loro, una memoria discreta e un congedo. Quello che prende forma e viene a consapevolezza quando il narratore si accorge di aver trascurato troppo a lungo e quindi lasciato seccare e isterilire la madre dell’aceto lasciatogli in consegna dal padre, che l’aveva invece curato per tutta la vita, nel bellissimo capitolo intitolato appunto “Aceto”, come vero e proprio taglio del cordone ombelicale, che però il racconto riannoda simbolicamente e appiana nella dolcezza della malinconia.

Le ultime parole del libro, prima dell’“eccetera”, sono “necessità” e “modestia”: un doppio sigillo.

 

 Questo articolo è uscito l'8 marzo 2012 su "Le parole e le cose", che ringrazio di averlo accolto, in particolare nella persona di Italo Testa.

 


 

29/03/21

Intervista a Milo De Angelis (1982)


Il rastrellamento della memoria, cioè La ricerca del verso giusto

 

Milo De Angelis è nato nel 1951 a Milano, dove vive e lavora come psicanalista. Ha pubblicato un libro di poesie, Somiglianze (Guanda 1976), un racconto, La corsa dei mantelli (id. 1979) e un testo teorico, Poesia e destino (Cappelli, 1982). Ha fondato e diretto la rivista Niebo e tradotto libri dal francese, dal latino e dal greco.

 

Di Milo De Angelis sapevo che, tra i poeti affermati dell’ultima generazione, era non solo il più giovane ma anche in assoluto tra i più dotati; che nonostante questo la sua figura e le sue posizioni teoriche e poetiche davano luogo a reazioni radicalmente contrastanti (rigetto o amore e niente tiepidezze); e che aveva sempre rifiutato le interviste, così come disdegnava la recensione e ogni intervento giornalistico, ritenendo il tutto “una semplice questione di sociologia letteraria che era ben lieto di lasciare ad altri”. Così quando ha risposto in modo affermativo alla mia richiesta, scarsamente convinta peraltro, sono rimasto insieme sorpreso e imbarazzato: prevedevo un atteggiamento poco conciliante, e a me non va di litigare.

Invece il nostro incontro è stato molto affabile oltre che interessante, tanto che si è protratto per tre ore, e dubito che potrò riferirlo anche soltanto nelle sue fasi salienti.

Molto affabile dicevo: lui che sviluppava un discorso ricco di immagini, accostamenti e spunti teorici, soppesando ogni parola, anche quelle più polemiche e inattese, e io che continuamente interferivo, equamente diviso tra Pavlov e la mimesi da un lato e le mie idee e curiosità dall’altro; lui che cercava di assecondare le mie iniziali richieste di completezza e sistematicità, e io che amnesico le sabotavo.

 

Che pensi di Somiglianze a sei anni dalla pubblicazione?

Somiglianze riguarda un certo esistenzialismo, non sartriano, ma impersonale e adolescenziale. Sentivo il problema della coscienza infelice come luogo abitabile e al tempo stesso il mio rubare in casa d’altri in nome dell’affitto che pagavo: da una parte c’era l’esigenza di giungere all’estremo limite, al secondo prima della morte: dall’altra c’era la possibilità di allargare indefinitamente questo secondo, di abitarlo.

 

Abitarlo come? Sperimentando che magari è gioioso, come suggerisce la frequenza di questo termine nel testo?

Non proprio. Abitarlo con la certezza di un abuso, fondando nella relazione con l’altrove la via del ritorno. La morte non era sentita in Somiglianze come imminente, ma come qualcosa che avverrà, non si sa quando; e questo non sempre ha dato pressione né a me né alle parole sulla morte. Somiglianze è un libro onesto, nel senso che effettivamente non sono andato oltre i miei limiti, non ho inventato. Ma è anche il rendersi conto della frattura tra essere e dire ragionando intorno a questa frattura, senza che un imperativo imponesse la loro coincidenza.

 

E’ nella direzione di questa coincidenza che è avvenuto il cambiamento?

Sì. Là c’era un’aspirazione mancata all’assolutezza che non coglieva la bellezza del finito; c’era una tensione verso il “fa’ ciò che accade” , il “fac quod accidit”, senza che ci fosse l’altro senso di questa espressione, cioè il “fa” perché accade/accadde. Adesso è diverso; adesso sento che una parola detta, anche se può farmi ignaro o timoroso di fronte ad essa, è detta con voce troppo forte perché possa ribellarmi. Con questo non intendo affermare che Somiglianze sia un libro interloquibile nel lamento, perché c’è un dolore animale allo stato puro, c’è un “io soffro” ma nessun “guaritemi”.

 

Vorresti specificare cosa intendi per “imperativo” e per “destino”?

Scrivendo le poesie di Millimetri (che usciranno tra poco), avvertivo come una dettatura. Il mio sforzo era quello di acuire l’udito per ascoltare quanto mi veniva dettato. Notti, diciamocelo pure, trascorse a cercare il verso, l’unico possibile; ma, una volta trovatolo, non c’era nessuna soddisfazione: quel verso doveva esserci; semmai ero io ad essere giunto in ritardo. Una dettatura senza dettatore, impersonale, che ti dice solo che sei obbligato a pronunciare la verità, al di là del principio di piacere.

 

Niente di più lontano dunque dalle poetiche così diffuse della finzione e della invenzione.

Sentivo, e sento tuttora sempre più lontana da me l’idea stessa di invenzione, tanto che difficilmente riesco a distinguere quella pacchiana di un Manganelli (o di qualunque altro salottiero) dall’invenzione più alta poniamo di un Ariosto. Voglio dire: se uno – negando il tragico – inventa una parola bella, e così via all’infinito; questo – in quanto cancellazione del dogma – mi sembra chiederci: “ciò che non porta con sé la sua fine ha il diritto di iniziare”? Quindi il tentativo è stato quello di rastrellare nella mia memoria un evento ineccepibilmente accaduto; scaturendo dalla cronaca non per mia scelta, l’evento doveva essere quello, non potevo abbellirlo. Millimetri è questa necessità di andare al di là della soddisfazione o della bravura; cioè la verità ti obbliga, “gli ordini non si discutono”. Ora è vero che non sempre afferravo ciò che scrivevo, però afferravo che la spinta a scriverlo era veritiera e che prima o poi qualcuno, io o altri, l’avrebbe capito.

 

L’ordine di scrivere è qualcosa che precede la scrittura o soltanto in essa avviene e si dà a riconoscere?

La dettatura da una parte imponeva che io fossi semplicemente un portavoce, ma dall’altra la dettatura era la poesia stessa; e quindi io in qualche modo la sua responsabilità sensoriale. Spero di non essere stato sordo… L’ordine sussisteva prima di me: trovavo un ordine, una costrizione a dire solo quella parola: non si trattava di trovare un ordine scrivendo, quanto di eseguire un ordine che già mi precedeva, anche se poi si riconosce solo scrivendo. Coesistono questa antecedenza e questa simultaneità.

 

Da queste promesse quale idea di bellezza risulta?

Sento profondamente una nozione di bellezza trascendentale, o forse sarebbe meglio dire oggettiva; su tale distinzione rimando a Poesia e destino.

 

Non c’è spazio per nessun relativismo dunque, né per l’errore?

E’ diverso. Non mi riguarda alcuna forma di relativismo, mentre l’errore ha una forza. (Preferisco gli errori di Keplero ai paradossi di Russel; preferisco – con Fortini – il cupo e potente accecamento di Lukács su Nietzsche alle piccole verità delle avanguardie). La forza dell’errore sta nel suo ripetersi, perché allora diventa destino. Ma se uno vuole correggere il proprio errore, ecco la condanna, la rinascita in senso induistico; perché dire: ho sbagliato, avrei voluto essere ciò che non sono stato, nascere diverso, è una riparazione che instaura un ciclo perpetuo dell’ignoranza della vita.

 

Mi sembra che da tutto il tuo discorso emerga un legame indissolubile tra poesia e etica.

Pensa a un uomo che si incammina verso una meta: qua e là vede distrattamente delle cose; ma le cose hanno visto lui, lo hanno scrutato a fondo. Al ritorno, l’uomo vede quelle cose per la prima volta. Allora l’uomo dice: scriverò soltanto ciò che mi ha già conosciuto. Obbedire a ciò che ti ha conosciuto è un aspetto delle poesie e insieme un atto etico. E’ quanto ho cercato in Millimetri.

 

 

 Pubblicato su Bergamo e Brescia oggi, autunno 1982