19/07/23

Giacomo Ceruti, Il ritratto del mondo


Il quadro si intitola Scuola di cucito e rappresenta un gruppo di ragazze e donne di differenti età riunito in una stanza priva di arredamento, quasi uno spazio vuoto, a eseguire vari lavori, soprattutto di cucito, in un contesto di calma e decoro. Le persone raffigurate, vestite in modo modesto ma curato, hanno ciascuna dei lineamenti ben individuati, i gesti sono precisi, di chi sa quello che fa e attende a farlo bene, come un dovere pacificamente accettato, lontano da qualsiasi costrizione apparente come pure da quella concentrazione assoluta che si trova in altre scene di cucito specie olandesi, e soprattutto nella sublime Merlettaia di Vermeer.

L’autore, Giacomo Ceruti, le ha disposte in modo apparentemente disordinato, come può accadere in una stanza in cui ciascuno si riserva lo spazio e la fonte di luce più adatta alla sua attività, ma se si guarda con attenzione un ordine (e forse più di uno) è presente, calcolato con precisione. Il gruppo delle donne forma come un triangolo rovesciato, che si apre dal basso verso l’alto, dall’orlo grigio del grembiule della donna in primo piano sulla sinistra da cui partono i due cateti, come ribassato è il punto di vista della composizione che assecondava la posizione originaria del quadro appeso sulla parete sopra una porta o una finestra. Partendo dalla ragazza in centro rivolta verso l’esterno senza però guardare lo spettatore e come persa dietro un suo pensiero, e andando in senso antiorario, troviamo declinati al completo, ma in modo tutt’altro che schematico, e anzi molto fluido, quasi impercettibile, i diversi orientamenti delle posture di profilo e di tre quarti fino all’ultima ragazza a destra che dà le spalle a chi guarda e alle compagne, completando in simmetria opposta, negativa, lo sguardo della giovane al centro. In modo analogo, anche se non così rigoroso, sono rappresentate le differenti età, dalla bimba più piccola che, come la Maria Bambina di tante scene di “Educazione della Vergine” (per esempio quella di Georges de La Tour di cui ho scritto qui) sta imparando a leggere e che a me appare come il centro della composizione (ma per me dove c’è qualcuno che legge, lì è sempre il centro), alla donna matura che la sta guidando nell’apprendimento, passando per la bambina sulla sinistra, la ragazzina di spalle, la giovinetta dietro la bambina e la donna alla sua sinistra, con un grosso neo sulla fronte, che ritroveremo in altri quadri del pittore, che evidentemente avrà usato più volte lo stesso modello, reale o mentale.

A terra c’è un cesto di vimini con un panno e un bastoncino che potrebbe anche essere un fuso o uno strumento del lavoro di ricamo, e appena sotto, sul pavimento ben spazzato che dà un’idea sì di povertà ma pulita e diligente,

con un’invenzione che a me pare splendida, un batuffolo di stoffa o un foglio accartocciato, che alterando l’ordine senza distruggerlo, dà il tocco definitivo di realtà a una scena che appare già viva di per sé e non di genere, come pure è, invece, relativamente al soggetto.

L’insieme trasmette un’idea di “povertà buona”, non scandalosa né aggressiva, che va forse messa in relazione alla politica assistenziale che si andava affermando in quel periodo. L’idea che una vita quieta è possibile. L’opera, come le altre del Ceruti di soggetto popolare, anche quelle dove la miseria degli abiti e della condizione umana si manifesta in modo più crudo, non va letta infatti come un’opera di denuncia sociale (e nemmeno di accusa morale agli strati sociali più bassi, o addirittura di derisione, come spesso avveniva in passato) e nemmeno come un tentativo di ritrarre lo squallore che raramente viene mostrato in tutta la sua durezza, e certo mai con compiacimento o viceversa orrore, come in altre opere dove gli emarginati e i miserabili sono pure rappresentati senza nessuna idealizzazione come dei veri pitocchi (da qui il nome di Pitocchetto con cui Ceruti è stato identificato in passato, con un appellativo ormai caduto fortunatamente in disuso), visti sempre con occhio realistico, accurato, come da distante, eppure sempre umano e partecipe.

È lo stesso sguardo che il pittore rivolge anche ai personaggi che gli hanno commissionato un ritratto, a volte ironico, con qualche sfumatura forse di sarcasmo che probabilmente è più nel nostro, di sguardo, che nel suo, che si tratti di religiosi o di notabili di provincia o di personaggi più altolocati (e a volte altezzosi) come quelli che ritrarrà a Venezia successivamente e a Milano, dove tornerà negli ultimi anni. 


Scuola di cucito è una delle grandi tele che fanno parte del cosiddetto “ciclo di Padernello”, dal nome del castello dove sono state ritrovate nel 1931 da Giuseppe De Logu, riunito per la prima volta quasi al completo (14 su 16) nella bellissima mostra Miseria & nobiltà. Giacomo Ceruti nell’Europa del Settecento, allestita a Brescia, al Museo di Santa Giulia fino all’11 giugno per poi trasferirsi al Paul Getty Museum di Los Angeles. Una mostra che varrebbe la pena di visitare anche solo per questo straordinario insieme che “rappresenta con tutta probabilità l’episodio più alto e significativo all’interno del complessivo percorso della pittura pauperistica in Italia”, come ebbe modo di scrivere Francesco Frangi nel catalogo della mostra Da Caravaggio a Ceruti (Skira, 1998), che ha rappresentato l’ultima grande occasione di vedere un numeroso e significativo gruppo di opere del pittore milanese, nell’ultima tappa, prima di questa, della riscoperta e consacrazione del  grande artista iniziata un centinaio di anni fa grazie a Roberto Longhi, dopo l’oblio che lo aveva avvolto subito dopo la sua morte, avvenuta nel 1767, nonostante la notorietà e il successo goduto in vita.

La mostra, come l’ultima monografica del 1987, è dedicata a Ceruti dalla città di Brescia dove l’artista, nato a Milano nel 1698, si era trasferito con la famiglia da giovane e aveva iniziato la sua carriera e aveva vissuto, affermandosi già dai primi anni venti del Settecento, fino a metà degli anni trenta, quando in seguito a un azzardato investimento aveva dovuto fuggire prima nella bergamasca e poi a Venezia. In esposizione ci sono 60 sue opere messe in dialogo con una quarantina dei predecessori e dei contemporanei più significativi per comprendere l’origine e l’evoluzione della sua personalità artistica, con scoperte esposte qui per la prima volta come l’anonimo Popolani all’aperto, vertice assoluto della pittura pauperistica ‘precerutiana’, o i due sorprendenti quadri del misterioso Maestro della tela jeans, o quelli dei più famosi, magnifici, Ribera, Sweerts, Piazzetta, e i bellissimi ritratti di Moroni, Ceresa, Fra Galgario e Rigaud.


Per quanto già a Brescia fosse molto richiesto come ritrattista, con puntate non memorabili nei soggetti religiosi, le opere per cui anche oggi Ceruti è più noto sono quelle che rappresentano personaggi poveri e emarginati, mendicanti, bambini “portaroli”, cioè che portano merci in grandi ceste di vimini, pellegrini, uomini e donne che sbarcano il lunario con mestieri umili (calzolai, cuoche, la famosa, tristissima e rassegnata, Lavandaia che ha segnato grazie a Longhi l’inizio della riscoperta dell’autore, contadini, pastori, filatrici…), molto in voga a partire dal Seicento con i Bamboccianti e altri pittori di genere, da lui rielaborate in modo personalissimo.


Più che un distacco dalla tradizione il suo è infatti un rinnovamento dall’interno, che lascia cadere i risvolti moralistici, allegorici o maliziosi che erano impliciti nel registro comico prevalente nella produzione precedente e coeva, e spesso anzi ne sottendevano già l’ideazione, mentre in lui, se sono presenti (per esempio l’allegoria della vista e del tatto nel quadro da cui sono partito), hanno un carattere accessorio e derivato, che potrebbe cadere del tutto senza nessun riflesso sulla lettura e l’apprezzamento delle opere, che anzi ne sono alleggerite, lasciando un senso più puro e più forte di realtà e verità della scena e delle figure rappresentate.

Figure accostanti, mai minacciose o respingenti; a volte malinconiche ma mai disperate, o che comunque non ostentano la loro condizione e le loro menomazioni, e al massimo chiedono con molto pudore, senza patetismi, un po’ di comprensione o di compassione; le brutture fisiche e morali sono smorzate, non c’è dramma, non per nascondimento o idealizzazione, ma per la prevalenza di un atteggiamento rattenuto, composto, quasi stoico, senza per questo essere eroico. La loro presentazione a figura intera di grandezza naturale in spazi in genere spogli che amplificano il loro isolamento e convogliano lo sguardo solo sulle persone le rende in qualche modo monumentali, senza rimandare a qualcosa di superiore o di sublime pur nella disgrazia, ma unicamente al semplice essere della loro individualità compresa di sé e richiesta allo sguardo di chi osserva, e che era prima di tutto in quello del pittore che così li rappresentava perché così, senza pietismo o derisione, le vedeva.

 


In tutti, ciò che differenzia Ceruti (cito ancora Frangi) sta nello “straordinario livello di approfondimento naturalistico … che garantisce alle immagini … una presenza e un’immediatezza davvero irripetibili”, quella “ineludibile impronta di verità” di cui hanno parlato tutti i più importanti studiosi, da Longhi a Delogu, a Giovanni Testori (da cui è ripresa l’espressione del titolo di questo articolo, anche come piccolo omaggio per l’odierna ricorrenza del centenario della nascita), all’autrice della prima grande e a tutt’oggi ancora fondamentale monografia Mina Gregori (Giacomo Ceruti, Monumenta Bergomensia, 1982) fino ai migliori studiosi recenti, tutti presenti nel ricchissimo catalogo della mostra bresciana edito da Skira, come i curatori Roberta d’Adda, Francesco Frangi e Alessandro Morandotti, che offrono in saggi illuminanti gli strumenti per una comprensione a tutto tondo, biografica, storica, formale, sociologica e iconologica del percorso del pittore.

Basta, per rimarcare queste qualità, osservare il ciclo di Padernello, realizzato tra la metà degli anni venti e la metà dei trenta, che evidenzia come già poco più che ventenne Ceruti avesse conseguito un’abilità esecutiva e uno sguardo molto peculiare che, con affinamenti che dureranno tutta la vita in un continuo lavoro di aggiornamento e sperimentazione, ne faranno uno dei più grandi pittori del Settecento non solo italiano.


La Scuola di cucito, che ho preso come spunto di partenza per pura predilezione personale e non perché sia l’opera di livello più alto (il pendant con le Ragazze che lavorano al tombolo, o lo stupendo, inquietante Incontro nel bosco, sono più perfetti, tanto per citarne solo un paio), è anche un ottimo esempio del modo di procedere di Ceruti che riprende temi e singoli personaggi o dettagli di ambientazione dalla tradizione iconografica italiana e soprattutto lombarda e veneta (Monsù Bernardo, Cifrondi, Todeschini, Pietro Bellotti) così come dalle stampe, alle quali è dedicata la mostra Immaginario Ceruti. Le stampe nel laboratorio del pittore, in primo luogo quelle di Callot, che poi egli rielabora e ridispone in modo personale arricchendoli di molti elementi suoi e soprattutto imprimendo il marchio di uno stile estremamente accurato e ricco di inflessioni e sfumature anche quando il colore sembra povero e monocromo, e di una incomparabile capacità di penetrazione psicologica e di osservazione di tutti gli aspetti della realtà fin nei dettagli che caratterizzano la singolarità di ogni cosa, gesto o evento.


Caratteristiche che permarranno anche quando, in seguito al trasferimento a Venezia, venuto a contatto con le novità della pittura lagunare e di molti esempi internazionali conosciuti soprattutto nella ricchissima collezione del suo principale collezionista, il maresciallo Johann Matthias von der Schulenburg di cui si può vedere in mostra un sontuoso ritratto, e adattandosi alle esigenze di una diversa committenza, sarà indotto ad virare verso nuovi soggetti, caratterizzati da una disinvoltura più mondana e da una tavolozza molto più ricca e squillante di quella volutamente dimessa quanto ricca di sottilissime variazioni degli anni bresciani.

Singole o in gruppo, quelle rappresentate sono tutte figure dai tratti spiccatamente individuali, tanto da far pensare a ritratti anche nelle scene di genere che di solito negli altri autori invece erano stipate di (stereo)tipi; persino i dettagli degli abiti appaiono individualizzati, verosimili, e non solo accozzaglie convenzionali di cenci, condividendo in queste opere lo sguardo del grande ritrattista che Ceruti si è rivelato fin da subito, di cui in mostra si possono ammirare una serie impressionante di capolavori che coprono tutti i periodi della sua attività.


Nei ritratti prevale una posa rilassata, di grande naturalezza, specie in quelli della fase bresciana, di personaggi per nulla affettati, dipinti in modo molto accurato anche se con modi all’apparenza veloci e fluidi, visti da un occhio acuto, inesorabile nel cogliere i dettagli fisionomici ma mai maligno, empatico senza essere sentimentale, a volte ironico ma sempre con un’umanità spontanea, come nel bellissimo Ritratto di giovane amazzone (mentre nell’altro ritratto equestre, quello di Ritratto di Giulio Gregorio Orsini, un tocco di malizia l’artista non se lo è negato di sicuro) o nel Ritratto del marchese Carlo Cosimo Medici di Marignano (?) esposto a Brescia per la prima volta come opera del Ceruti, che è tra i miei preferiti. Qui la disinvoltura della posa è al limite della sprezzatura: l’uomo, rappresentato a figura intera a grandezza naturale, è appoggiato una fontana con il braccio sinistro visto in scorcio, con un elegante fazzoletto in mano. È in tenuta da caccia, non meno elegante per essere informale, con una leggera giacca blu dai polsini rossi ricamati aperta sopra una camicia slacciata sul petto come i viveur dei bei tempi andati, e i loro eredi odierni, che si rigonfia sopra la cintura che sorregge i morbidi pantaloni ocra scuro fino a nasconderla. Appoggiato al fianco c’è il lungo fucile, ai suoi piedi, a destra, il cane preferito che osserva la selvaggina gettata a terra quasi che ormai, cacciata, non abbia più valore, nonostante l’indice destro che la segnala ai distratti, mentre a sinistra in modo discreto si lascia intravedere una parte del riconoscibilissimo stemma di famiglia. Ha lo sguardo sornione, di uno che la sa lunga, soddisfatto di come è e della vita che fa, come suggerisce anche la pancetta di prammatica per l’uomo che sa godere della vita in tempi non afflitti dall’ossessione della linea (o è un po’ annebbiato, sicuro sì, ma poco sveglio? non so decidermi…) e se ne sta lì a guardare lo spettatore con nonchalance, quasi aspettandosi di essere ammirato. Ma anche no. Che gli importa in fondo? Una nonchalance simile a quella un po’ ottusa per eccesso di supponenza che avevo io all’ingresso della mostra, molto diversa da quella più aperta, luminosa, che mi sono ritrovato poi lasciandola.

 

Miseria & nobiltà. Giacomo Ceruti nell’Europa del Settecento, Brescia, Museo di Santa Giulia fino all’11 giugno, a cura di Roberta d’Adda, Francesco Frangi e Alessandro Morandotti.

Catalogo, Miseria & nobiltà. Giacomo Ceruti nell’Europa del Settecento, edizioni Skira

 


 

 

 

 

 

26/06/23

Due delinquentelli degli anni 50 (nella versione del mio informatore A.)


 

Il primo era noto a tutti come "Bègnom" (Beniamino), anche se non era il suo vero nome. Lo chiamavano così perché era l'ultimo di una numerosa prole; da qualcuno era detto anche "il flauto magico di San Vittore", in quanto gay ostentato, con una baldanza che ai tempi non era molto diffusa in provincia. Forse un modo di difendersi attaccando, una prevenzione del ridicolo assunto e amplificato, come richiesto dai pregiudizi dei tempi. Ad autodefinirsi tale era stato lui il primo, peraltro, vantandosi di questa abilità in cui, a suo dire, primeggiava, lui che in tutto il resto era di mezza tacca, in fondo sapendo di esserlo, soprattutto come ladro. Quello invece era il suo primato: la forma specifica che prendeva in lui la ricerca dell'eccellenza. L'impulso umanissimo a trascendersi. Eh...!

La sua specialità erano i furti nelle abitazioni, anche in pieno giorno, come a sfidare il mondo, o per dimostrare chissà che a se stesso, poi correva al bar e rovesciava la refurtiva sul bigliardo dicendo: "ardì ché, cusa ó truàt 'n dè ca la cà là!" (guardate cosa ho trovato in quella casa!). E magari la casa era di un parente o conoscente di uno dei frequentatori del bar, o di un conoscente di conoscenti, perché il suo raggio d'azione non era ampio. Fin dove poteva arrivare in bici, più o meno. In Lambretta, nei periodi fausti.

Amico di tutti, buontempone, si sentiva parte integrante della comunità in tutto e per tutto, senza riserve. Entrava e usciva di gattabuia, e tornava sempre in paese come reduce da una trasferta all'estero, da una tournée trionfale, e si precipitava subito al 'suo' bar, dove gli amici nel frattempo si diradavano, perché spostati altrove, oppure relegati in casa, da tristi padri di famiglia (come è il destino sempiterno dei padri di famiglia, secondo le sue parole). Mentre lui seguitava sulla sua strada, imperterrito, senza imparare mai niente. Forse non ne aveva bisogno. Forse gli piaceva così: un po' fuori, a svaligiare appartamenti e vantarsi al bar; un po' dentro, a suonare il piffero. Il padre faceva il ciclista in un cortile di T. Aveva un'ottima clientela e un lavoro che era cresciuto quando poi aveva allargato le riparazioni ai motorini. Si era persino preso un garzone, per un certo periodo, perché il figlio si era sempre rifiutato di dargli una mano. Era un lavoro sporco e disgustoso , e lui non voleva rovinarsi le dita. Le sue dita preziose: e rideva.

 

Un altro come lui, ma non del suo stesso giro, uno che se la tirava di più, almeno in apparenza, era Diego, figlio di un vecchietto sciancato che andava con il carrettino davanti alle scuole a vendere dolcetti e caramelle, amatissimo dai bambini e rispettato dai genitori. Un brav'uomo: povero e dignitoso, secondo prassi. Persino generoso, per quel che poteva. Anche il figlio era generoso, eccetto con i genitori, dai quali esigeva e basta, senza portare mai in casa neanche una lira. E guai a farglielo notare!, perché allora sfoderava il suo repertorio di contumelie, che rimbombavano nella cassa vuota del cortile, inseguite dalle repliche dei genitori, pure sostenute, ma molto più fievoli al confronto. Apprezzamenti e epiteti di gran tradizione, che ancora resistono alle mode. In pubblico invece era socievole e sbruffone, come certi personaggi della commedia all'italiana degli anni 50 e primi 60 che forse erano il suo modello, andava in giro tutto elegante, su macchinoni che cambiava spesso, e nessuno sapeva quello che faceva. Una volta ha salvato il mio amico A., allora adolescente, che era caduto col suo primo motorino in una scarpata e era rimasto con la gamba sinistra impigliata nella filo spinato alla sua base, con varie punte di ferro arrugginito conficcate a fondo nel polpaccio e nella coscia, incapace di fare il benché minimo movimento senza peggiorare la situazione. Non c'era nessuno nei paraggi: Diego lo aveva visto da lontano e, riconosciutolo come il bambino che per un po' aveva abitato nel suo cortile, era sceso, vestito da gagà com'era, in mezzo alla sterpaglia, gli aveva tolto delicatamente tutte le punte dalle ferite, lo aveva preso in braccio e portato al pronto soccorso, aspettando che fosse medicato, fatta l'antitetanica e cuciti i punti, per poi restituirlo ai genitori. Nell'attesa aveva pulito i sedili dal sangue che nonostante le precauzioni li aveva macchiati, usando la camicia, a sua volta in parte insanguinata oltre che sporca di erba e terra, e se n'era messa una pulita, che forse aveva in macchina di scorta. Dicono che tenesse nel bagagliaio una grossa valigia piena di abiti e oggetti personali, per ogni evenienza. Leggende. Poi, forse aiutato da qualcuno, era tornato a recuperare la moto e aveva riportato a casa di A. anche quella. Si vedeva ancora in giro fino a una ventina di anni fa. Pare che fosse andato a abitare in qualche paesino della zona. Sposato magari. Anche se non era il tipo. Aveva sempre quelle giacche eleganti, i capelli lucidi, tirati all'indietro, con qualche onda, quando tardava a passare dal barbiere. Chissà che fine ha fatto. Magari è morto e tutti pensano che era solo uno sbruffone disgraziato.



10/06/23

Acqua ferma (mentre scrivevo, lo tsunami: 11 marzo 2011, quindi)


Anche l'acqua ferma ha i suoi vantaggi. Quella del canale oggi, per esempio. Senza la distrazione della corrente con le sue increspature e i piccoli gorghi, senza l'incanto della luce che brilla e si muove, balzano all'occhio altre cose. Dall'incanto del movimento a quello dell'immobilità. Incanto o imbambolamento, dipende. Balza all'occhio, più ancora dei riflessi delle sponde capovolte che pure sono più netti e hanno i contorni disegnati con precisione, la superficie in quanto tale, come superficie specchiante e insieme piano di sostegno, spazio su cui si distribuisce e dà testimonianza tutto ciò che galleggia. Il pelo dell'acqua. La pelle. Se poi l'acqua non è troppo torbida, si scorge meglio anche il fondo, con la vita elementare che si radica e si agita da quelle parti misteriose. (Il fondo è misterioso per definizione. Anche se poi...) (Diversi sono gli abissi; ma pure loro, a starci per un po'...)

Oggi l'acqua del canale è abbastanza bassa da essere trasparente lungo la riva, mentre al centro, e da lontano, appare come una membrana verdenera, un po' opaca. Il cielo è coperto, la luce debole, uniforme. Sulla superficie stagnano foglie, rametti e tutto un brulicare di minuzie che la rendono qua e là come ruvida, mentre lungo i bordi, incagliati in piccole rientranze, tra i rami degli arbusti o gli steli di erbe alte, galleggiano corpi più voluminosi, bottiglie, assicelle, frammenti di sacchetti e lattine, portati dagli ultimi sussulti della corrente prima che si spegnesse, in una visuale sincronica, ora, ma con inscritte tracce temporali decifrabili anche senza eccessi di immaginazione.

Nei punti più bassi e ciottolosi, gli insetti depositano le loro larve e molti pesci le uova, al riparo dai predatori, che però la sanno lunga e una buona parte se la pappano lo stesso. Appena sopra la superficie, altri insetti e la mirabile congerie dell'invisibile che riesco solo a immaginare (ovviamente) danzano la loro vita fulminea e eterna. Esattamente come noi. Come me.

 

Mentre rileggevo queste banalità con il deplorevole proposito di continuare, ho saputo del terremoto in Giappone e ho visto i video dello tsunami e, più tardi, dell'esplosione della centrale nucleare.

 

Il giorno prima avevo preso un appunto dedicato allo sguardo perso. Diceva così:

"Viene il momento in cui, senza che te ne accorga, ti trovi stampato in faccia questo sguardo perso, che diventa il tuo sguardo definitivo, soggiacente a tutti gli altri che potrai avere, velato a volte, o ben nascosto, ma sempre presente, irredimibile.

(L'ho appena visto sul signor M., fermo davanti al cancello di casa sua, incurvato in avanti, la bocca appena aperta, che non guardava niente e forse vedeva tutto.)"

 

Guardando i video anche il mio è venuto a galla. Esploso insieme alla centrale.

 

(E da noi i delinquenti vogliono farne!)

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



02/06/23

26 novembre 2011, tra le 8,30 e le 10

 


Passeggiata lungo il fiume, tra le 8,30 e le 10, con la brina che poi si scioglie pian piano e la nebbia che muta colore e acquista profondità e lucentezza, rosa e d'oro, come la polvere di Giove nei quadri con Danae, più il sole si alza. Sopra gli alberi un azzurro purissimo. Sull'acqua vapori cangianti (non avrei mai creduto di usare questa parola: chiedo scusa a me stesso), poi una fascia compatta, sospesa, con le chiome degli alberi più alti che fanno capolino, sopra, in lontananza. Uccelli sui fili, una ciclista bionda che mi sorpassa e dopo cento metri frena, si guarda attorno (ma non me; o forse sì: mi sbircia come faccio io) e gira la bici, per affrontare di nuovo la salitella. Gli alberi. Ogni cosa separata. Distinta e insieme. La luce radente e poi soffusa. Il cielo. Quasi quasi mi dispiace crepare.

28/05/23

Arrivi e partenze

 


Mentre l’involucro esterno, dice con malcelato orgoglio mentre io lo guardo con malcelata ironia (o tenerezza, ancora non so distinguere), sembra trascurato tanto da non tradire gli anni, se non per minimi dettagli rintracciabili unicamente dai pochissimi che hanno la pazienza, o il malanimo, di scrutarmi a fondo, gli apparati interni, tutti, dal primo all’ultimo, dal più nascosto invisibile bastardo ai capibanda più chiassosi e arroganti, sono impegnatissimi a tracciare strategie imbastendo alleanze provvisorie per saggiare metodi e obiettivi e cospirando per sferrare attacchi che finora si sono limitati a punzecchiare con piccoli fastidi trascurabili, e raramente con effetti di qualche peso, ma passeggeri, quasi solo per segnalare la loro esistenza,  come allenamento  in vista degli assalti ben più maligni che non tarderanno ad assestarmi in massa quando meno me li aspetto, feroci, imparabili, irrimediabili e definitivi. Ma io non sono stupido, e li aspetto, pur sapendo che aspettarli non servirà a niente, perché saranno sempre e comunque una sorpresa.

È una sorpresa arrivare nel mondo, dice sorridendo, e una sorpresa lasciarlo. La stessa meraviglia. Uguale e diversa. Inutile e gloriosa. Fine a se stessa. Come l’arte. Che forse proprio lì ha origine. E sempre lì finisce.