Il quadro si intitola Scuola di cucito e rappresenta un gruppo di
ragazze e donne di differenti età riunito in una stanza priva di arredamento,
quasi uno spazio vuoto, a eseguire vari lavori, soprattutto di cucito, in un
contesto di calma e decoro. Le persone raffigurate, vestite in modo modesto ma
curato, hanno ciascuna dei lineamenti ben individuati, i gesti sono precisi, di
chi sa quello che fa e attende a farlo bene, come un dovere pacificamente
accettato, lontano da qualsiasi costrizione apparente come pure da quella
concentrazione assoluta che si trova in altre scene di cucito specie olandesi,
e soprattutto nella sublime Merlettaia di Vermeer.
L’autore, Giacomo Ceruti, le ha disposte in modo apparentemente
disordinato, come può accadere in una stanza in cui ciascuno si riserva lo
spazio e la fonte di luce più adatta alla sua attività, ma se si guarda con
attenzione un ordine (e forse più di uno) è presente, calcolato con precisione.
Il gruppo delle donne forma come un triangolo rovesciato, che si apre dal basso
verso l’alto, dall’orlo grigio del grembiule della donna in primo piano sulla
sinistra da cui partono i due cateti, come ribassato è il punto di vista della
composizione che assecondava la posizione originaria del quadro appeso sulla
parete sopra una porta o una finestra. Partendo dalla ragazza in centro rivolta
verso l’esterno senza però guardare lo spettatore e come persa dietro un suo
pensiero, e andando in senso antiorario, troviamo declinati al completo, ma in
modo tutt’altro che schematico, e anzi molto fluido, quasi impercettibile, i
diversi orientamenti delle posture di profilo e di tre quarti fino all’ultima
ragazza a destra che dà le spalle a chi guarda e alle compagne, completando in
simmetria opposta, negativa, lo sguardo della giovane al centro. In modo
analogo, anche se non così rigoroso, sono rappresentate le differenti età,
dalla bimba più piccola che, come la Maria Bambina di tante scene di
“Educazione della Vergine” (per esempio quella di Georges de La Tour di cui ho scritto qui) sta imparando a leggere e che a me
appare come il centro della composizione (ma per me dove c’è qualcuno che
legge, lì è sempre il centro), alla donna matura che la sta guidando
nell’apprendimento, passando per la bambina sulla sinistra, la ragazzina di spalle,
la giovinetta dietro la bambina e la donna alla sua sinistra, con un grosso neo
sulla fronte, che ritroveremo in altri quadri del pittore, che evidentemente
avrà usato più volte lo stesso modello, reale o mentale.
A terra c’è un cesto di vimini con un panno e un bastoncino che potrebbe
anche essere un fuso o uno strumento del lavoro di ricamo, e appena sotto, sul
pavimento ben spazzato che dà un’idea sì di povertà ma pulita e diligente,
con un’invenzione che a me pare splendida, un batuffolo di stoffa o un
foglio accartocciato, che alterando l’ordine senza distruggerlo, dà il tocco
definitivo di realtà a una scena che appare già viva di per sé e non di genere,
come pure è, invece, relativamente al soggetto.
L’insieme trasmette un’idea di “povertà buona”, non scandalosa né
aggressiva, che va forse messa in relazione alla politica assistenziale che si
andava affermando in quel periodo. L’idea che una vita quieta è possibile. L’opera,
come le altre del Ceruti di soggetto popolare, anche quelle dove la miseria
degli abiti e della condizione umana si manifesta in modo più crudo, non va
letta infatti come un’opera di denuncia sociale (e nemmeno di accusa morale
agli strati sociali più bassi, o addirittura di derisione, come spesso avveniva
in passato) e nemmeno come un tentativo di ritrarre lo squallore che raramente viene
mostrato in tutta la sua durezza, e certo mai con compiacimento o viceversa
orrore, come in altre opere dove gli emarginati e i miserabili sono pure
rappresentati senza nessuna idealizzazione come dei veri pitocchi (da qui il nome
di Pitocchetto con cui Ceruti è stato identificato in passato, con un
appellativo ormai caduto fortunatamente in disuso), visti sempre con occhio
realistico, accurato, come da distante, eppure sempre umano e partecipe.

È lo stesso sguardo che il pittore
rivolge anche ai personaggi che gli hanno commissionato un ritratto, a volte
ironico, con qualche sfumatura forse di sarcasmo che probabilmente è più nel
nostro, di sguardo, che nel suo, che si tratti di religiosi o di notabili di
provincia o di personaggi più altolocati (e a volte altezzosi) come quelli che
ritrarrà a Venezia successivamente e a Milano, dove tornerà negli ultimi anni.

Scuola di cucito è una delle grandi tele che fanno
parte del cosiddetto “ciclo di Padernello”, dal nome del castello dove sono
state ritrovate nel 1931 da Giuseppe De Logu, riunito per la prima volta quasi
al completo (14 su 16) nella bellissima mostra Miseria & nobiltà. Giacomo Ceruti nell’Europa del Settecento, allestita a Brescia, al Museo di Santa Giulia fino all’11 giugno per poi
trasferirsi al Paul Getty Museum di Los Angeles. Una
mostra che varrebbe la pena di visitare anche solo per questo straordinario insieme
che “rappresenta con tutta probabilità l’episodio più alto e significativo
all’interno del complessivo percorso della pittura pauperistica in Italia”,
come ebbe modo di scrivere Francesco Frangi nel catalogo della mostra Da
Caravaggio a Ceruti (Skira, 1998), che ha rappresentato l’ultima grande
occasione di vedere un numeroso e significativo gruppo di opere del pittore
milanese, nell’ultima tappa, prima di questa, della riscoperta e consacrazione
del grande artista iniziata un centinaio
di anni fa grazie a Roberto Longhi, dopo l’oblio che lo aveva avvolto subito
dopo la sua morte, avvenuta nel 1767, nonostante la notorietà e il successo
goduto in vita.
La mostra, come l’ultima monografica del 1987, è dedicata a Ceruti dalla
città di Brescia dove l’artista, nato a Milano nel 1698, si era trasferito con
la famiglia da giovane e aveva iniziato la sua carriera e aveva vissuto, affermandosi
già dai primi anni venti del Settecento, fino a metà degli anni trenta, quando
in seguito a un azzardato investimento aveva dovuto fuggire prima nella
bergamasca e poi a Venezia. In esposizione ci sono 60 sue opere messe in
dialogo con una quarantina dei predecessori e dei contemporanei più
significativi per comprendere l’origine e l’evoluzione della sua personalità
artistica, con scoperte esposte qui per la prima volta come l’anonimo Popolani
all’aperto, vertice assoluto della pittura pauperistica ‘precerutiana’, o i
due sorprendenti quadri del misterioso Maestro della tela jeans, o quelli dei
più famosi, magnifici, Ribera, Sweerts, Piazzetta, e i bellissimi ritratti di
Moroni, Ceresa, Fra Galgario e Rigaud.

Per quanto già a Brescia fosse molto richiesto come ritrattista, con
puntate non memorabili nei soggetti religiosi, le opere per cui anche oggi
Ceruti è più noto sono quelle che rappresentano personaggi poveri e emarginati,
mendicanti, bambini “portaroli”, cioè che portano merci in grandi ceste di
vimini, pellegrini, uomini e donne che sbarcano il lunario con mestieri umili
(calzolai, cuoche, la famosa, tristissima e rassegnata, Lavandaia che ha
segnato grazie a Longhi l’inizio della riscoperta dell’autore, contadini,
pastori, filatrici…), molto in voga a partire dal Seicento con i Bamboccianti e
altri pittori di genere, da lui rielaborate in modo personalissimo.

Più che un distacco dalla tradizione il suo è infatti un rinnovamento
dall’interno, che lascia cadere i risvolti moralistici, allegorici o maliziosi
che erano impliciti nel registro comico prevalente nella produzione precedente
e coeva, e spesso anzi ne sottendevano già l’ideazione, mentre in lui, se sono
presenti (per esempio l’allegoria della vista e del tatto nel quadro da cui
sono partito), hanno un carattere accessorio e derivato, che potrebbe cadere
del tutto senza nessun riflesso sulla lettura e l’apprezzamento delle opere,
che anzi ne sono alleggerite, lasciando un senso più puro e più forte di realtà
e verità della scena e delle figure rappresentate.
Figure accostanti, mai minacciose o respingenti; a volte malinconiche ma
mai disperate, o che comunque non ostentano la loro condizione e le loro
menomazioni, e al massimo chiedono con molto pudore, senza patetismi, un po’ di
comprensione o di compassione; le brutture fisiche e morali sono smorzate, non
c’è dramma, non per nascondimento o idealizzazione, ma per la prevalenza di un
atteggiamento rattenuto, composto, quasi stoico, senza per questo essere
eroico. La loro presentazione a figura intera di grandezza naturale in spazi in
genere spogli che amplificano il loro isolamento e convogliano lo sguardo solo
sulle persone le rende in qualche modo monumentali, senza rimandare a qualcosa
di superiore o di sublime pur nella disgrazia, ma unicamente al semplice essere
della loro individualità compresa di sé e richiesta allo sguardo di chi
osserva, e che era prima di tutto in quello del pittore che così li
rappresentava perché così, senza pietismo o derisione, le vedeva.

In tutti, ciò che differenzia Ceruti (cito ancora Frangi) sta nello
“straordinario livello di approfondimento naturalistico … che garantisce alle
immagini … una presenza e un’immediatezza davvero irripetibili”, quella “ineludibile
impronta di verità” di cui hanno parlato tutti i più importanti studiosi, da
Longhi a Delogu, a Giovanni Testori (da cui è ripresa l’espressione del titolo
di questo articolo, anche come piccolo omaggio per l’odierna ricorrenza del
centenario della nascita), all’autrice della prima grande e a tutt’oggi ancora fondamentale
monografia Mina Gregori (Giacomo Ceruti, Monumenta Bergomensia, 1982)
fino ai migliori studiosi recenti, tutti presenti nel ricchissimo catalogo
della mostra bresciana edito da Skira, come i curatori Roberta d’Adda,
Francesco Frangi e Alessandro Morandotti, che offrono in saggi illuminanti gli
strumenti per una comprensione a tutto tondo, biografica, storica, formale,
sociologica e iconologica del percorso del pittore.
Basta, per rimarcare queste qualità, osservare il ciclo di Padernello,
realizzato tra la metà degli anni venti e la metà dei trenta, che evidenzia
come già poco più che ventenne Ceruti avesse conseguito un’abilità esecutiva e
uno sguardo molto peculiare che, con affinamenti che dureranno tutta la vita in
un continuo lavoro di aggiornamento e sperimentazione, ne faranno uno dei più
grandi pittori del Settecento non solo italiano.

La Scuola di cucito, che ho preso come spunto di partenza per pura
predilezione personale e non perché sia l’opera di livello più alto (il pendant
con le Ragazze che lavorano al tombolo, o lo stupendo, inquietante Incontro
nel bosco, sono più perfetti, tanto per citarne solo un paio), è anche un
ottimo esempio del modo di procedere di Ceruti che riprende temi e singoli
personaggi o dettagli di ambientazione dalla tradizione iconografica italiana e
soprattutto lombarda e veneta (Monsù Bernardo, Cifrondi, Todeschini, Pietro
Bellotti) così come dalle stampe, alle quali è dedicata la mostra Immaginario Ceruti. Le
stampe nel laboratorio del pittore, in primo luogo
quelle di Callot, che poi egli rielabora e ridispone in modo personale
arricchendoli di molti elementi suoi e soprattutto imprimendo il marchio di uno
stile estremamente accurato e ricco di inflessioni e sfumature anche quando il
colore sembra povero e monocromo, e di una incomparabile capacità di
penetrazione psicologica e di osservazione di tutti gli aspetti della realtà
fin nei dettagli che caratterizzano la singolarità di ogni cosa, gesto o evento.

Caratteristiche che permarranno anche quando, in seguito al trasferimento
a Venezia, venuto a contatto con le novità della pittura lagunare e di molti
esempi internazionali conosciuti soprattutto nella ricchissima collezione del
suo principale collezionista, il maresciallo Johann Matthias von der
Schulenburg di cui si può vedere in mostra un sontuoso ritratto, e adattandosi
alle esigenze di una diversa committenza, sarà indotto ad virare verso nuovi
soggetti, caratterizzati da una disinvoltura più mondana e da una tavolozza
molto più ricca e squillante di quella volutamente dimessa quanto ricca di
sottilissime variazioni degli anni bresciani.
Singole o in gruppo, quelle rappresentate sono tutte figure dai tratti
spiccatamente individuali, tanto da far pensare a ritratti anche nelle scene di
genere che di solito negli altri autori invece erano stipate di (stereo)tipi;
persino i dettagli degli abiti appaiono individualizzati, verosimili, e non
solo accozzaglie convenzionali di cenci, condividendo in queste opere lo
sguardo del grande ritrattista che Ceruti si è rivelato fin da subito, di cui
in mostra si possono ammirare una serie impressionante di capolavori che
coprono tutti i periodi della sua attività.

Nei ritratti prevale una posa rilassata, di grande naturalezza, specie in
quelli della fase bresciana, di personaggi per nulla affettati, dipinti in modo
molto accurato anche se con modi all’apparenza veloci e fluidi, visti da un
occhio acuto, inesorabile nel cogliere i dettagli fisionomici ma mai maligno,
empatico senza essere sentimentale, a volte ironico ma sempre con un’umanità spontanea,
come nel bellissimo Ritratto di giovane amazzone (mentre nell’altro ritratto
equestre, quello di Ritratto di Giulio Gregorio Orsini, un tocco di
malizia l’artista non se lo è negato di sicuro) o nel Ritratto del marchese
Carlo Cosimo Medici di Marignano (?) esposto a Brescia per la prima volta
come opera del Ceruti, che è tra i miei preferiti. Qui la disinvoltura della
posa è al limite della sprezzatura: l’uomo, rappresentato a figura intera a
grandezza naturale, è appoggiato una fontana con il braccio sinistro visto in
scorcio, con un elegante fazzoletto in mano. È in tenuta da caccia, non meno elegante per essere
informale, con una leggera giacca blu dai polsini rossi ricamati aperta sopra
una camicia slacciata sul petto come i viveur dei bei tempi andati, e i loro
eredi odierni, che si rigonfia sopra la cintura che sorregge i morbidi
pantaloni ocra scuro fino a nasconderla. Appoggiato al fianco c’è il lungo
fucile, ai suoi piedi, a destra, il cane preferito che osserva la selvaggina
gettata a terra quasi che ormai, cacciata, non abbia più valore, nonostante
l’indice destro che la segnala ai distratti, mentre a sinistra in modo discreto
si lascia intravedere una parte del riconoscibilissimo stemma di famiglia. Ha lo sguardo sornione, di uno che la sa lunga,
soddisfatto di come è e della vita che fa, come suggerisce anche la pancetta di
prammatica per l’uomo che sa godere della vita in tempi non afflitti
dall’ossessione della linea (o è un po’ annebbiato, sicuro sì, ma poco sveglio?
non so decidermi…) e se ne sta lì a guardare lo spettatore con nonchalance,
quasi aspettandosi di essere ammirato. Ma anche no. Che gli importa in fondo?
Una nonchalance simile a quella un po’ ottusa per eccesso di supponenza che
avevo io all’ingresso della mostra, molto diversa da quella più aperta,
luminosa, che mi sono ritrovato poi lasciandola.
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Miseria & nobiltà. Giacomo Ceruti nell’Europa del Settecento, Brescia, Museo di Santa Giulia fino all’11 giugno, a cura di Roberta
d’Adda, Francesco Frangi e Alessandro Morandotti.
Catalogo, Miseria & nobiltà. Giacomo Ceruti nell’Europa del
Settecento, edizioni Skira