13/08/23

Marcite e gru danzanti

 

A Magenta scende solo gente brutta. L'unico con un bel fisico, alto snello e forte, ha il viso devastato da ulcere e croste, dalla fronte al collo, evidentissime anche da lontano nonostante la pelle molto scura. Indiano, cingalese...

Quelli che sbucano dal sottopassaggio, come il vecchio seduto, o piuttosto accasciato, sulla panchina accanto alla sala del capostazione, hanno il corpo sfasciato, non meno dei loro volti e delle relative espressioni. Gli occhi del vecchio sono vuoti, ma non vacui: pieni di un terrore sordo, anzi; di un panico ignoto. Pieni di tutto ciò che li ha disertati e della sua stessa diserzione, di cui non è sopravvissuta neppure la memoria.

 

Appena lasciata la stazione, è uscito il sole e sono cominciate le marcite, verdissime.

In una saltella contento, con l'alterigia del signore e padrone per diritto divino, un airone bianco. Un ectoplasma di pura luce, in tutto quel verde. Poi ne vedrò altri, qua e là, ma sempre e solo uno per riquadro di marcita. Anche cinerini, o garzette.

A destra, oltre gli alberi e la velocità, non so se la sagoma sfumata del Rosa o nubi in dissolvimento, puri riflessi.


Una volta, proprio da queste parti, in un prato accanto all'autostrada, ho visto delle gru impegnate in strane movenze, a metà tra un balletto e gli spasmi da avvelenamento. Ho accostato e sono rimasto parecchi minuti a osservare quella loro danza goffa, asmatica, fatta di saltelli, interruzioni, riprese e esitazioni sincopate, senza costrutto, affannata anche quando, per pochi attimi, aprivano le ali in tutta la loro maestà e le sbattevano con energia senza peraltro levarsi da terra, emettendo versi strazianti, che però potevano essere anche di gioia, di seducente richiamo, come annunci di orgasmi strozzati, gutturali: eppure incantevole, ipnotica. Era la prima volta che le vedevo dal vivo, così vicine. Enormi, mi è sembrato. Più grandi di me. Ridicole e commoventi. Belle. Belle per il semplice fatto che c'erano. Che erano lì, erano loro e erano così.


08/08/23

Ercole de' Robertii. Adorazione dei pastori

 

Il quadretto,  alla National Gallery, è grande pù o meno come lo vedete a schermo: 17,8 x 13,5 cm. (fa parte di un dittico, ma qui non importa. Voglio solo mostrarlo senza ricamarci troppo sopra.).
Io lo trovo bellissimo. Tutto. L'architettura della capanna, sofisticatissima nella sua apparente povertà; il suolo e lo sfondo, dorato e polveroso insieme; la borraccia (credo) e il fardello appesi al piolo di legno; i poveri abiti dei pastori e la postura devota simile a quella di Maria che a sua volta indossa un abito che sembra della stessa stoffa dei loro, o quantomeno di un medesimo colore; il bambin Gesù sdraiato rigido, col pancino un po' gonfio, le gambe distese, allungato come un morto: anzi,non fosse il braccio sinistro piegato, rappresentato proprio come un morto, disteso su un panno che solo qualche arricciamento dei bordi, notato solo in un secondo tempo, distingua da una lastra funeraria, e infine il l'asino e il bue di spalle, quasi indifferente, chiuso nel suo placido mondo, che rendono gloria al Creatore e alla creazione senza far nulla, essendo solo così come sono.

07/08/23

Papere, cigni e altri volatili

 


1)

Dopo i fuochi di ieri sera (bellissimi!), c'è un silenzio sepolcrale sul fiume, stamattina. I cigni e la colonia delle papere sono spariti: speriamo che ritornino (come gli scoiattoli, che proprio ieri, dopo molti mesi, ho rivisto nella boscaglia in riva al canale, dove meno me l'aspettavo). Solo qualche uccelletto sventato abbozza un incipit, un ritornello, o azzarda un richiamo che resta senza risposta. Nessuno se ne dà per inteso: o sono tutti via, o se ne stanno al sicuro dei loro rifugi estemporanei. Meglio non rischiare!

Io sto all'erta invece: non metto gli auricolari e accompagno il silenzio esterno con quello della mia testa. Così una volta tanto non soffrirà di solitudine (quest'ultimo intendo). Cammino e vado fino al cespuglio di rose canine, dal quale manco da un mesetto, cioè da quando l'hanno ignominiosamente tagliato per facilitare il passaggio di camion e altra barbarie motorizzata per non so quali lavori a Vaprio (a volte certi avverbi infiniti rendono bene l'idea). Dopo la scoperta, ho sempre preso altre strade: non mi piace soffrire gratis. Tutta la vegetazione è ricoperta di polvere, la pioggerella di stanotte non l'ha manco sfiorata. La riva alla mia sinistra è un tripudio di verdi, quella alla destra tutta una variazione di grigi, con sfumature gialline a volte, quasi dorate con la luce radente, o verdi quando lo strato è sottile. Bello lo stesso, a modo suo. Il modo suo del bello. Bene. Tanto più che il cespuglio, contrariamente a quanto temevo quando l'ho visto così brutalizzato (scerpato, stavo per scrivere, più che tagliato; mi vengono queste parole, ma resisto, un po' come lui), sta ricrescendo a velocità sorprendente. E' un fenomeno! Lo adoro. Ma ci vorranno anni perché ritorni a com'era prima, con il suo bel fusto solido a reggere la chioma che si lancia in ogni direzione. Intanto cominciamo così. Pian piano, senza far rumore ma con forza.

(Chiudo la parentesi. Può darsi che non c'entri molto, ma mi piace così: come lo scarto che ho operato per andare dal cespuglio. Un po' di musica imprevista, allegro con poco brio.)

 

Al ritorno la storia non è cambiata, sempre silenzio, nessuno in giro. Faccio caso che è da parecchio che non vedo i gabbiani, né quei due o tre aironi e cormorani che bazzicavano il fiume fino a primavera. Chissà da quanto se ne sono andati, e io, preso da altre cose, con tutto che mi reputo uno che non nega attenzione a niente e a nessuno, non me ne ero accorto! Va be', me ne accorgo ora: ora che la loro assenza non è surrogata da altro, da altre passioni. Sia chiaro, a scanso di equivoci, che io preferisco le papere in ogni caso. I gabbiani non mi piacciono molto: non c'entrano, anche se, visto che ormai sono qui, sono i benvenuti. Ce li abbiamo portati noi, del resto. Cioè, le discariche dei paesi vicini, avidi e menefreghisti, non noi noi... Sempre noi, però, comunque.

Al ritorno, dicevo, alle 9, con il sole già alto, due giovanotte avanguardiste si stavano avventurando con baldanza non so se vera o finta verso la passerella. Forse erano state inviate in perlustrazione dal paperume ancora sotto shock infrattato chissà dove, ma più probabilmente se ne venivano di propria iniziativa, con la curiosità e l'incoscienza della loro età (le verdi ali della giovinezza!), a giudicare dai bruschi richiami che a un certo punto si sono levati, forti e incazzatelli, da un'insenatura più a monte dove, tra il fitto della vegetazione sporgente sull'acqua, mi è parso di vedere il popolo anatresco al completo. Ma quelle hanno fatto le gnorri, e hanno proseguito senza titubanza, solo rallentando un po'. Va bene l'eroismo...

La caciara aviaria era ancora incerta se scatenarsi o restare prudentemente al coperto, ben mimetizzata, con il fiato sospeso, anche se qualche avvisaglia di cedimento già l'avvertivo. Una voce diversa che si aggiungeva ogni tanto... il coro che riempiva i polmoni e poi mandava rumorosamente giù la saliva per l'ennesima volta... ma faticava a trattenersi... non resisteva più, con l'ugola che già vibrava, la melodia che gli martellava il crapino... finché basta! Quando si deve cantare, si canta, cribbio!

Solo dei cigni proprio non c'era il minimo indizio. Ma quelli sono paurosi quanto sanno essere aggressivi all'occorrenza. Sembrano tanto cari e buoni, ma poi! I piccoli, prima di tutto, la famiglia! Non importa se sono ormai grandi quanto i genitori. Qui devono stare e qui stanno, che ci pensiamo noi. Saranno pure grandi e grossi, ma hanno ancora il piumaggio e il becco grigio! E con questo il discorso è chiuso.


2) (qualche giorno dopo)

Nell'acqua stagnante del canale, color caffè per i recenti temporali, le famigliole dei germani reali e delle anatre meno blasonate sono tutte in visita di cortesia, forse consigliate dalla corrente oggi più precipitosa del fiume. Mentre gli adulti scambiano i soliti convenevoli, i piccoli strepitano, immergono la testa nella fanghiglia roteando con il culetto all'insù o arrischiano le prime planate a pelo d'acqua. I genitori, pur non perdendoli di vista, fingono di ignorarli, ma è evidente che ne sono orgogliosi dalle fulminee occhiate che si lanciano in occasione di particolari prodezze, mentre improvvisi squarci di silenzio si spalancano, del tutto inopinati. Li lasciano fare, senza dire niente. Senza commenti né raccomandazioni. Come se non ci fossero. Non come la coppia di cigni che non molla un attimo la propria prole: la fa filare in linea retta, in mezzo a babbo e a mammà, come tetèschi di cérmania. Se potesse gli stenderebbe attorno un nastro di demarcazione, un filo con la scossa magari (a basso voltaggio, sia chiaro). E' vero che nelle prime settimane dopo la schiusa ha perso un paio di pargoli, tanto che ha dovuto emigrare dal grande stagno dell'ansa al fiume aperto, però...

E' evidente che i cigni sono per la famiglia nucleare: tutto per proteggere i piccoli e niente distrazioni, né a terra, dove i predatori non mancano, né in acqua, dove non mi sembra che ce ne siano, almeno dalle nostre parti. Le papere invece sono orientate verso la famiglia allargata, il clan: stanno in ordine sparso e amano le mescolanze; coltivano le relazioni sociali in tutte le forme, generi e sottogeneri, con i piccoli che giocano tutti assieme e poi sbagliano genitori quando questi se ne vanno, o si fermano a dormire dagli amici senza nemmeno avvisare. Che abbiano il permesso, è implicito: fa parte delle usanze. E poi non sembrano territoriali come i cigni, che li vedi sempre ai soliti posti, specie quando escono sulla riva, in angoli solo loro, lontani da tutto e da tutti. Certo, anche le papere hanno spiaggette erbose e argini che prediligono, ma da una parte stanno vicine anche a terra, a fare gruppo, e dall'altra svariano con maggiore disinvoltura, si dislocano per il piacere di farlo, e un giorno le vedi qua, un altro là e un altro ancora non ci sono più, come eclissate per sempre, salvo tornare alla base il giorno successivo o un altro ancora. Io immagino che sia perché usano di più le ali. Volano. Mi sono fatto quest'idea. Non hanno un gran bisogno del territorio, avendo l'aria.

 

(Ma poi, ma poi... Poi passano gli anni e io le vedo sempre qua, e sempre più numerose. Si capisce che la stanzialità gli giova. Che il luogo è abbastanza ricco e comodo e gli piace. Non fanno più nemmeno finta di migrare. Le ali le usano solo per increspare l'acqua, per fare dei giri nei paraggi, per riparare la testa all'occorrenza...

Proprio come... come...

Come chi?

Non ricordo.)

 

3)

Se fossi un vero amante, saprei distinguerle l'una dall'altra, e a ciascuna darei un nome, con il quale la chiamerei e la evocherei nella mia mente (gli innamorati lo fanno). Invece le vedo solo come gruppo, o divise in sottoinsiemi variabili, dai quali un singolo emerge per un attimo solo per qualcosa che sta facendo, per poi cancellarsi di nuovo in quanto tale.

Stamattina, recuperando con imperdonabile ritardo una coazione ancestrale, come a esprimere in questo modo il mio affetto le ho contate: sono quaranta, i cinque cigni esclusi. Cifre tonde, intrise di significati di ogni genere, e quindi di nessuno. Quaranta come le carte e cinque come le dita che le tengono. Per esempio.

Numeri!

(Sono un dilettante!)


 

 

 

 

 

 

04/08/23

Ennesimo appunto sull'effetto che fa leggere Kafka

 


In Kafka il narratore non dà nessuna spiegazione degli eventi insondabili (assurdi, misteriosi, o semplicemente imprevisti, strani) che narra, e quando lo fa o mette commenti e spiegazioni in bocca ai personaggi che per quanto improbabili o inverosimili li affermano con la massima naturalezza , le cose si complicano sempre di più, il mistero si infittisce, l’incomprensibilità di ciò che accade si estende al mondo intero, che sembra accoglierla come se si trattasse di qualcosa di scontato, e il lettore si scopre (tu ti scopri) perduto, allo stesso modo di chi li sta vivendo, o subendo. Perduto e appagato. Appagato ma perduto.

 

Immagine di Giuliano Guatta

19/07/23

Giacomo Ceruti, Il ritratto del mondo


Il quadro si intitola Scuola di cucito e rappresenta un gruppo di ragazze e donne di differenti età riunito in una stanza priva di arredamento, quasi uno spazio vuoto, a eseguire vari lavori, soprattutto di cucito, in un contesto di calma e decoro. Le persone raffigurate, vestite in modo modesto ma curato, hanno ciascuna dei lineamenti ben individuati, i gesti sono precisi, di chi sa quello che fa e attende a farlo bene, come un dovere pacificamente accettato, lontano da qualsiasi costrizione apparente come pure da quella concentrazione assoluta che si trova in altre scene di cucito specie olandesi, e soprattutto nella sublime Merlettaia di Vermeer.

L’autore, Giacomo Ceruti, le ha disposte in modo apparentemente disordinato, come può accadere in una stanza in cui ciascuno si riserva lo spazio e la fonte di luce più adatta alla sua attività, ma se si guarda con attenzione un ordine (e forse più di uno) è presente, calcolato con precisione. Il gruppo delle donne forma come un triangolo rovesciato, che si apre dal basso verso l’alto, dall’orlo grigio del grembiule della donna in primo piano sulla sinistra da cui partono i due cateti, come ribassato è il punto di vista della composizione che assecondava la posizione originaria del quadro appeso sulla parete sopra una porta o una finestra. Partendo dalla ragazza in centro rivolta verso l’esterno senza però guardare lo spettatore e come persa dietro un suo pensiero, e andando in senso antiorario, troviamo declinati al completo, ma in modo tutt’altro che schematico, e anzi molto fluido, quasi impercettibile, i diversi orientamenti delle posture di profilo e di tre quarti fino all’ultima ragazza a destra che dà le spalle a chi guarda e alle compagne, completando in simmetria opposta, negativa, lo sguardo della giovane al centro. In modo analogo, anche se non così rigoroso, sono rappresentate le differenti età, dalla bimba più piccola che, come la Maria Bambina di tante scene di “Educazione della Vergine” (per esempio quella di Georges de La Tour di cui ho scritto qui) sta imparando a leggere e che a me appare come il centro della composizione (ma per me dove c’è qualcuno che legge, lì è sempre il centro), alla donna matura che la sta guidando nell’apprendimento, passando per la bambina sulla sinistra, la ragazzina di spalle, la giovinetta dietro la bambina e la donna alla sua sinistra, con un grosso neo sulla fronte, che ritroveremo in altri quadri del pittore, che evidentemente avrà usato più volte lo stesso modello, reale o mentale.

A terra c’è un cesto di vimini con un panno e un bastoncino che potrebbe anche essere un fuso o uno strumento del lavoro di ricamo, e appena sotto, sul pavimento ben spazzato che dà un’idea sì di povertà ma pulita e diligente,

con un’invenzione che a me pare splendida, un batuffolo di stoffa o un foglio accartocciato, che alterando l’ordine senza distruggerlo, dà il tocco definitivo di realtà a una scena che appare già viva di per sé e non di genere, come pure è, invece, relativamente al soggetto.

L’insieme trasmette un’idea di “povertà buona”, non scandalosa né aggressiva, che va forse messa in relazione alla politica assistenziale che si andava affermando in quel periodo. L’idea che una vita quieta è possibile. L’opera, come le altre del Ceruti di soggetto popolare, anche quelle dove la miseria degli abiti e della condizione umana si manifesta in modo più crudo, non va letta infatti come un’opera di denuncia sociale (e nemmeno di accusa morale agli strati sociali più bassi, o addirittura di derisione, come spesso avveniva in passato) e nemmeno come un tentativo di ritrarre lo squallore che raramente viene mostrato in tutta la sua durezza, e certo mai con compiacimento o viceversa orrore, come in altre opere dove gli emarginati e i miserabili sono pure rappresentati senza nessuna idealizzazione come dei veri pitocchi (da qui il nome di Pitocchetto con cui Ceruti è stato identificato in passato, con un appellativo ormai caduto fortunatamente in disuso), visti sempre con occhio realistico, accurato, come da distante, eppure sempre umano e partecipe.

È lo stesso sguardo che il pittore rivolge anche ai personaggi che gli hanno commissionato un ritratto, a volte ironico, con qualche sfumatura forse di sarcasmo che probabilmente è più nel nostro, di sguardo, che nel suo, che si tratti di religiosi o di notabili di provincia o di personaggi più altolocati (e a volte altezzosi) come quelli che ritrarrà a Venezia successivamente e a Milano, dove tornerà negli ultimi anni. 


Scuola di cucito è una delle grandi tele che fanno parte del cosiddetto “ciclo di Padernello”, dal nome del castello dove sono state ritrovate nel 1931 da Giuseppe De Logu, riunito per la prima volta quasi al completo (14 su 16) nella bellissima mostra Miseria & nobiltà. Giacomo Ceruti nell’Europa del Settecento, allestita a Brescia, al Museo di Santa Giulia fino all’11 giugno per poi trasferirsi al Paul Getty Museum di Los Angeles. Una mostra che varrebbe la pena di visitare anche solo per questo straordinario insieme che “rappresenta con tutta probabilità l’episodio più alto e significativo all’interno del complessivo percorso della pittura pauperistica in Italia”, come ebbe modo di scrivere Francesco Frangi nel catalogo della mostra Da Caravaggio a Ceruti (Skira, 1998), che ha rappresentato l’ultima grande occasione di vedere un numeroso e significativo gruppo di opere del pittore milanese, nell’ultima tappa, prima di questa, della riscoperta e consacrazione del  grande artista iniziata un centinaio di anni fa grazie a Roberto Longhi, dopo l’oblio che lo aveva avvolto subito dopo la sua morte, avvenuta nel 1767, nonostante la notorietà e il successo goduto in vita.

La mostra, come l’ultima monografica del 1987, è dedicata a Ceruti dalla città di Brescia dove l’artista, nato a Milano nel 1698, si era trasferito con la famiglia da giovane e aveva iniziato la sua carriera e aveva vissuto, affermandosi già dai primi anni venti del Settecento, fino a metà degli anni trenta, quando in seguito a un azzardato investimento aveva dovuto fuggire prima nella bergamasca e poi a Venezia. In esposizione ci sono 60 sue opere messe in dialogo con una quarantina dei predecessori e dei contemporanei più significativi per comprendere l’origine e l’evoluzione della sua personalità artistica, con scoperte esposte qui per la prima volta come l’anonimo Popolani all’aperto, vertice assoluto della pittura pauperistica ‘precerutiana’, o i due sorprendenti quadri del misterioso Maestro della tela jeans, o quelli dei più famosi, magnifici, Ribera, Sweerts, Piazzetta, e i bellissimi ritratti di Moroni, Ceresa, Fra Galgario e Rigaud.


Per quanto già a Brescia fosse molto richiesto come ritrattista, con puntate non memorabili nei soggetti religiosi, le opere per cui anche oggi Ceruti è più noto sono quelle che rappresentano personaggi poveri e emarginati, mendicanti, bambini “portaroli”, cioè che portano merci in grandi ceste di vimini, pellegrini, uomini e donne che sbarcano il lunario con mestieri umili (calzolai, cuoche, la famosa, tristissima e rassegnata, Lavandaia che ha segnato grazie a Longhi l’inizio della riscoperta dell’autore, contadini, pastori, filatrici…), molto in voga a partire dal Seicento con i Bamboccianti e altri pittori di genere, da lui rielaborate in modo personalissimo.


Più che un distacco dalla tradizione il suo è infatti un rinnovamento dall’interno, che lascia cadere i risvolti moralistici, allegorici o maliziosi che erano impliciti nel registro comico prevalente nella produzione precedente e coeva, e spesso anzi ne sottendevano già l’ideazione, mentre in lui, se sono presenti (per esempio l’allegoria della vista e del tatto nel quadro da cui sono partito), hanno un carattere accessorio e derivato, che potrebbe cadere del tutto senza nessun riflesso sulla lettura e l’apprezzamento delle opere, che anzi ne sono alleggerite, lasciando un senso più puro e più forte di realtà e verità della scena e delle figure rappresentate.

Figure accostanti, mai minacciose o respingenti; a volte malinconiche ma mai disperate, o che comunque non ostentano la loro condizione e le loro menomazioni, e al massimo chiedono con molto pudore, senza patetismi, un po’ di comprensione o di compassione; le brutture fisiche e morali sono smorzate, non c’è dramma, non per nascondimento o idealizzazione, ma per la prevalenza di un atteggiamento rattenuto, composto, quasi stoico, senza per questo essere eroico. La loro presentazione a figura intera di grandezza naturale in spazi in genere spogli che amplificano il loro isolamento e convogliano lo sguardo solo sulle persone le rende in qualche modo monumentali, senza rimandare a qualcosa di superiore o di sublime pur nella disgrazia, ma unicamente al semplice essere della loro individualità compresa di sé e richiesta allo sguardo di chi osserva, e che era prima di tutto in quello del pittore che così li rappresentava perché così, senza pietismo o derisione, le vedeva.

 


In tutti, ciò che differenzia Ceruti (cito ancora Frangi) sta nello “straordinario livello di approfondimento naturalistico … che garantisce alle immagini … una presenza e un’immediatezza davvero irripetibili”, quella “ineludibile impronta di verità” di cui hanno parlato tutti i più importanti studiosi, da Longhi a Delogu, a Giovanni Testori (da cui è ripresa l’espressione del titolo di questo articolo, anche come piccolo omaggio per l’odierna ricorrenza del centenario della nascita), all’autrice della prima grande e a tutt’oggi ancora fondamentale monografia Mina Gregori (Giacomo Ceruti, Monumenta Bergomensia, 1982) fino ai migliori studiosi recenti, tutti presenti nel ricchissimo catalogo della mostra bresciana edito da Skira, come i curatori Roberta d’Adda, Francesco Frangi e Alessandro Morandotti, che offrono in saggi illuminanti gli strumenti per una comprensione a tutto tondo, biografica, storica, formale, sociologica e iconologica del percorso del pittore.

Basta, per rimarcare queste qualità, osservare il ciclo di Padernello, realizzato tra la metà degli anni venti e la metà dei trenta, che evidenzia come già poco più che ventenne Ceruti avesse conseguito un’abilità esecutiva e uno sguardo molto peculiare che, con affinamenti che dureranno tutta la vita in un continuo lavoro di aggiornamento e sperimentazione, ne faranno uno dei più grandi pittori del Settecento non solo italiano.


La Scuola di cucito, che ho preso come spunto di partenza per pura predilezione personale e non perché sia l’opera di livello più alto (il pendant con le Ragazze che lavorano al tombolo, o lo stupendo, inquietante Incontro nel bosco, sono più perfetti, tanto per citarne solo un paio), è anche un ottimo esempio del modo di procedere di Ceruti che riprende temi e singoli personaggi o dettagli di ambientazione dalla tradizione iconografica italiana e soprattutto lombarda e veneta (Monsù Bernardo, Cifrondi, Todeschini, Pietro Bellotti) così come dalle stampe, alle quali è dedicata la mostra Immaginario Ceruti. Le stampe nel laboratorio del pittore, in primo luogo quelle di Callot, che poi egli rielabora e ridispone in modo personale arricchendoli di molti elementi suoi e soprattutto imprimendo il marchio di uno stile estremamente accurato e ricco di inflessioni e sfumature anche quando il colore sembra povero e monocromo, e di una incomparabile capacità di penetrazione psicologica e di osservazione di tutti gli aspetti della realtà fin nei dettagli che caratterizzano la singolarità di ogni cosa, gesto o evento.


Caratteristiche che permarranno anche quando, in seguito al trasferimento a Venezia, venuto a contatto con le novità della pittura lagunare e di molti esempi internazionali conosciuti soprattutto nella ricchissima collezione del suo principale collezionista, il maresciallo Johann Matthias von der Schulenburg di cui si può vedere in mostra un sontuoso ritratto, e adattandosi alle esigenze di una diversa committenza, sarà indotto ad virare verso nuovi soggetti, caratterizzati da una disinvoltura più mondana e da una tavolozza molto più ricca e squillante di quella volutamente dimessa quanto ricca di sottilissime variazioni degli anni bresciani.

Singole o in gruppo, quelle rappresentate sono tutte figure dai tratti spiccatamente individuali, tanto da far pensare a ritratti anche nelle scene di genere che di solito negli altri autori invece erano stipate di (stereo)tipi; persino i dettagli degli abiti appaiono individualizzati, verosimili, e non solo accozzaglie convenzionali di cenci, condividendo in queste opere lo sguardo del grande ritrattista che Ceruti si è rivelato fin da subito, di cui in mostra si possono ammirare una serie impressionante di capolavori che coprono tutti i periodi della sua attività.


Nei ritratti prevale una posa rilassata, di grande naturalezza, specie in quelli della fase bresciana, di personaggi per nulla affettati, dipinti in modo molto accurato anche se con modi all’apparenza veloci e fluidi, visti da un occhio acuto, inesorabile nel cogliere i dettagli fisionomici ma mai maligno, empatico senza essere sentimentale, a volte ironico ma sempre con un’umanità spontanea, come nel bellissimo Ritratto di giovane amazzone (mentre nell’altro ritratto equestre, quello di Ritratto di Giulio Gregorio Orsini, un tocco di malizia l’artista non se lo è negato di sicuro) o nel Ritratto del marchese Carlo Cosimo Medici di Marignano (?) esposto a Brescia per la prima volta come opera del Ceruti, che è tra i miei preferiti. Qui la disinvoltura della posa è al limite della sprezzatura: l’uomo, rappresentato a figura intera a grandezza naturale, è appoggiato una fontana con il braccio sinistro visto in scorcio, con un elegante fazzoletto in mano. È in tenuta da caccia, non meno elegante per essere informale, con una leggera giacca blu dai polsini rossi ricamati aperta sopra una camicia slacciata sul petto come i viveur dei bei tempi andati, e i loro eredi odierni, che si rigonfia sopra la cintura che sorregge i morbidi pantaloni ocra scuro fino a nasconderla. Appoggiato al fianco c’è il lungo fucile, ai suoi piedi, a destra, il cane preferito che osserva la selvaggina gettata a terra quasi che ormai, cacciata, non abbia più valore, nonostante l’indice destro che la segnala ai distratti, mentre a sinistra in modo discreto si lascia intravedere una parte del riconoscibilissimo stemma di famiglia. Ha lo sguardo sornione, di uno che la sa lunga, soddisfatto di come è e della vita che fa, come suggerisce anche la pancetta di prammatica per l’uomo che sa godere della vita in tempi non afflitti dall’ossessione della linea (o è un po’ annebbiato, sicuro sì, ma poco sveglio? non so decidermi…) e se ne sta lì a guardare lo spettatore con nonchalance, quasi aspettandosi di essere ammirato. Ma anche no. Che gli importa in fondo? Una nonchalance simile a quella un po’ ottusa per eccesso di supponenza che avevo io all’ingresso della mostra, molto diversa da quella più aperta, luminosa, che mi sono ritrovato poi lasciandola.

 

Miseria & nobiltà. Giacomo Ceruti nell’Europa del Settecento, Brescia, Museo di Santa Giulia fino all’11 giugno, a cura di Roberta d’Adda, Francesco Frangi e Alessandro Morandotti.

Catalogo, Miseria & nobiltà. Giacomo Ceruti nell’Europa del Settecento, edizioni Skira