09/09/23

Appunti su Perec (2012)

 


Il 3 marzo è caduto il trentesimo anniversario della morte di Georges Perec e la ricorrenza è stata accompagnata da varie iniziative editoriali. Tra le ultime iniziative vanno segnalate la raccolta di interviste En dialogue avec l'époque, già edite, ma scelte in modo da seguire il percorso di riflessione e commento sulla propria opera e sui rapporti con la cultura del tempo da parte di Perec man mano che i suoi libri venivano pubblicati, rimasto per molto tempo piuttosto ai margini della cultura ufficiale nonostante il premio Renaudot ottenuto dal primo, Le cose (1965), e il numero doppio 993-994 di Europe, gennaio-febbraio 2012, che presenta numerosi testi che offrono un panorama sullo stato della lettura delle opere prese singolarmente e nel loro complesso, e sul loro dialogo con la cultura recente: la gran parte nuovi (tra gli altri, di M. Sheringham, C. Burgelin, P. Furlan, , M. Decout e M. Benabou), più alcuni già noti come l'importante saggio di Gabriel Josipovici su La vita istruzioni per l'uso e la postfazione di Celati alla recente ritraduzione italiana di Un uomo che dorme (Quodlibet, 2009).

 

Molti pensano che l'Oulipo e i giochi linguistici e altro abbiano distolto Perec dalla narrazione: di fatto sono stati per lui un modo di recuperarla, di narrare senza falsa spontaneità, con la delineazione di perimetri di regole personalmente scelte e assunte, che poi avrebbero segnato gli ostacoli da affrontare e oltre i quali lasciare che l'opera andasse: confini in apparenza rigidi e in realtà porosi, da attraversare verso altri territori ecc. Molti vi vedono un gioco in odio alla narrazione, un surrogato al poco o niente da dire, un eccesso di intellettualismo e una forma di aridità, l'ennesima picconata degli anni 60-70 alla distruzione del romanzo: io credo che non sia così, anche se il rischio c'è (e quando c'è è difficile evitare di caderci una volta o l'altra); è più probabile invece che non si debba cercare la chiave di un enigma, o (più modestamente) di un rebus, ma ciò che si apre davanti a noi una volta risolto il primo enigma o rebus, e che esso spesso serve solo a nascondere (come spesso è inapparente, a sua volta nascosto esso stesso), come un altro gioco. Giustamente Claude Burgelin (Europe, p. 21) accenna alla «economia molto specifica del "mostrare" e del "nascondere" che caratterizza tutta la sua [di P.] opera».

E' un gioco con la finzione e con il falso che percorre tutta la sua opera. E un falsario non a caso è il protagonista di Le condottière, che tra tutte le pubblicazioni recenti e senza dubbio la più interessante per il lettore che ama Perec oltre che per il critico che indaga le sorgenti della sua opera.

e poi Nota 16, p. 32 di Europe sul fatto che, come le parole crociate, il  trompe l'oeil ecc. resta enigmatico «fino a che non si è operato quel minuscolo slittamento di senso che lo risolve nella sua evidenza imparabile»

 

«Tutta la letteratura è, in un certo modo, come un romanzo poliziesco», scrive Perec, un gioco dove al piacere di nascondere e nascondersi si aggiunge quello di far trovare e di farsi scoprire.

 

L'attitudine sperimentale che caratterizza tutta l'opera di Perec è sempre all'insegna della massima leggibilità: il programma esplicito di non ripetersi mai non è un vezzo, e nemmeno (come alcuni hanno invece interpretato, seguendone poi questa o quella traccia) un modo di mostrare quasi didatticamente quanto e in quanti modi e forme si poteva scrivere senza cadere in qualche presunta naturalezza del narrare da una parte (come se il fatto che gli uomini hanno sempre raccontato bastasse a garantire la naturalezza dei modi di raccontare), mettendone anzi in evidenza i presupposti impliciti della tradizione (in particolare quella ottocentesca), cioè i vincoli che condizionano senza che se ne renda conto chi pensa di poter narrare come l'usignolo canta, l'ape fa il miele e l'asino raglia; e dall'altra rifiutando il silenzio della "fine del romanzo" o l'informe , l'illeggibile e le provocazioni dell'avanguardia (non si sentiva "a suo agio" con "Tel quel" o con "Change"); questo proprio quando, negli anni 60 e primi 70 queste sembravano le uniche due percorribili, o quantomeno percorse dalla maggior parte: i sentieri che si davano meglio a vedere e a pensare, perché poi in giro c'era già gente che camminava, e benissimo, per altre geografie e tracciava percorsi che sarebbero stati molto seguiti negli anni a venire (Bernhard, De Lillo, Pynchon, sudamericani, e anche vecchi come Gombrowicz...)

E tutto questo senza farne una questione di stile, o di marca personale, per darsi coerenza o riconoscibilità (o vendibilità: come un brand), ma usando ogni volta una forma e una scrittura diversa, sfruttandone ogni volta le specifiche risorse, anche se  spesso tendendo al grado zero di un tono neutro e apparentemente solo referenziale o enumeratorio, attento solo ai luoghi e alle cose (senza per forza fare del narratore un puro voyeur né sposare il nouveau roman), e in realtà brulicante di riferimenti, citazioni, invenzioni e memorie, anche dolorose.

Ha ribadito (perché sembra ce ne sia sempre bisogno) che non esiste scrittura spontanea, diretta e naturale,  adeguata alle cose semplicemente perché le cose ci sono; che, come diceva Queneau «siamo sempre sottoposti a qualche regola, solo che non la conosciamo», e allora, con l'Oulipo, tanto vale, a volte esplicitarla, moltiplicarla, fare regola del ricorso alle regole, darsi dei vincoli che non derivano più da generi e tradizione ma che non si vuole far credere che non esistano (anche se, dati per vincoli espliciti o consapevolmente celati dall'autore stesso, ne restano sempre altri di cui si resta inconsapevoli, e non tanto perché appartengono al nostro inconscio, quanto perché sono quelli della scrittura stessa, inclusa quella che si sta mettendo in atto, e inclusi quelli che l'uso consapevole dei vincoli messi in atto fa scaturire, e quelli della deriva immensa della tradizione, che certo non si limita alle regole o alle gabbie che autori e studiosi hanno ormai in gran parte messe a nudo, ma sempre in parte vi sfugge e quelle delle infinite singole attuazioni concrete del discorso scritto e orale e delle infinite potenzialità che sempre restano aperte e che anzi ogni nuova attuazione inaugura).

Checché ne dicano i fedeli del culto Georges Perec, i risultati qui valgono meno del gesto. La nominazione non è mai sufficiente: una volta nominate, le cose viste perdono valore in quanto cose e restano solo le parole; cioè quanto del loro senso le parole contengono e trasmettono a chi le riceve e assume. L'elenco non ha il senso dell'accumulo dell'esistente, delle cose che sono o sono state lì, ma quello delle parole che lo compongono nei loro differenti rapporti, a partire dalla loro successione temporale passando per quella fonica, ritmica, semantica, enciclopedica ecc. (Sì: dire ecc., quando serve, a dispetto del divieto perecchiano).

Né penso che abbiano senso principalmente come "effetto di reale": c'è anche il piacere della filastrocca, il nonsense nell'enumerazione caotica, dei cortocircuiti di senso e sonori...

 

Forse Perec sapeva che si scrive sempre e solo la stessa storia, e allora l'ha declinata e mascherata e diffranta e disseminata e occultata e variata e affrontata in mille luoghi e modi, forse per venirne a capo, sperando di trovare il modo definitivo e accorgendosi che non c'è, e che allora vanno esperiti tutti quelli possibili, traendo consolazione e gioia da essi.

 

Attenzione che va ben oltre la narrativa e anzi la comprende in qualcosa di più vasto che potrebbe essere individuato in una specifica, ma onnicomprensiva, forma dell'attenzione; o meglio: dell'attenzione come forma, che quindi travalica non solo i generi, ma anche i giudizi, e in primo luogo il pre-giudizio estetico, e si estende a tutto, sogno incluso, e che è insieme attenzione a colui che sta attento: autoriflessione inflessibile.


04/09/23

Diego, l’altro Giacometti

 


 Alberto e Diego Giacometti nascono a un anno di distanza – ottobre 1901 e novembre 1902 – in un paese dei Grigioni, Borgonovo di Stampa, nella famiglia di un pittore piuttosto noto, Giovanni, in una casa frequentata da artisti, tra i quali spicca Giovanni Segantini. I fratelli crescono insieme avendo libero accesso all’atelier del padre che li segue con amore e li ritrae spesso assieme agli altri due fratelli, Ottilia e Bruno. Entrambi naturalmente si provano a imitare il padre, ma mentre Alberto mostra presto spiccate doti creative, Diego non sembra averne e si dedica ad altri studi e attività, senza trovare una strada propria, pur avendo un carattere socievole, un bell’aspetto e doti di affabulatore che conserverà per tutta la vita. Finché Alberto, che negli anni ’20 si è trasferito a Parigi, non comincia ad avere un certo successo, che diventa grande nel ‘29, tanto da indurre a chiedere al fratello di raggiungerlo per aiutarlo ad affrontare l’enorme mole di lavoro che la nuova situazione comporta. Diego in un primo momento tentenna, poi lo raggiunge, iniziando così un rapporto affettivo e artistico che durerà tutta la vita, se si escludono gli anni della guerra. Il rapporto tra i due è saldissimo, senza infingimenti o frizioni, in una sorta di reciprocità e affetti esenti da scalfitture. Una specie di gemellarità, non sempre presente tra fratelli, specie se uno gode di una posizione socialmente superiore. Tra i due però non è così: Alberto da una parte è protettivo ma dall’altra mostra di aver bisogno di Diego, di essere come dimidiato senza di lui. E Diego si rende indispensabile, sempre di più. Come attestano tutte le testimonianze e i documenti che li riguardano, a partire dalla corrispondenza tra loro e con i famigliari, una bella scelta della quale viene presentata nel catalogo della mostra che si sta tenendo presso la Fondazione Luigi Rovati, a Milano, che non a caso si intitola Diego l’altro Giacometti, a cura di Casimiro Di Crescenzo, che cura anche la mostra. 


Alberto crea, preso nei suoi rovelli a caccia di una perfezione che sembra sfuggirgli sempre più crudelmente con l’ombra del fallimento che gli appare incombente nonostante i successi e l’ammirazione che gli viene tributata, e Diego gli fa da assistente, segue le fasi della lavorazione delle sue opere, tiene rapporti e fa ordine nelle attività, sbozza le sculture, le duplica in certi casi… E quando fa qualcosa di proprio si impegna in generi minori, secondo i criteri dell’epoca, dove però sembra accomodarsi con agio e soddisfazione, e produce oggetti di design, si direbbe oggi, e piccole sculture; e se si firma è solo Diego, non Diego Giacometti, o non si firma affatto. Solo in pochi sono a conoscenza di quello che fa; quasi solo amici, gente del giro, anche se poi questi amici e questa gente ne hanno altri, e le creazioni di Diego cominciano ad essere apprezzate e richieste. Ma lui insiste a non firmarsi, come se si volesse cancellare. Il fratello gli fa i complimenti per le piccole cose che realizza, ma chissà se non sono complimenti dettati solo dall’affetto e magari anche con un po’ di degnazione. Non dovrebbero, perché il fratello è noto per il suo rigore, per l’intransigenza delle scelte e per le pretese che impone non solo ai suoi modelli (come Diego, sempre lì a disposizione, pazientissimo, così presente nella mente di Alberto che questi lo raffigura senza accorgersene anche quando esegue ritratti di invenzione; o o come il filosofo giapponese Isaku Yanaihara che ha raccontato le estenuanti sedute di posa, e l’amicizia per l’artista, nel bellissimo I miei giorni con Giacometti, Giometti&Antonello, Macerata, 2021)) ma in primo luogo a se stesso.

Diego arriva alla sua opera con passi lenti, e in modo indiretto. Dopo i tentativi della giovinezza abbandona ogni pretesa artistica, ed è solo quando viene chiamato a Parigi da Alberto, vedendolo disegnare e scolpire e nella sua quotidiana pratica di assistente, che pian piano acquisisce sicurezza, affinando le capacità esecutive che scopre di avere, successivamente perfezionate anche con lo studio accademico, e arriva a creare piccoli oggetti e sculture personali. Intanto prepara i gessi e i materiali, ritocca gli abbozzi, realizza i calchi per le sculture, esegue le patinature con sempre maggiore maestria. 

 

 

Non è un semplice lavoro da subordinato riscattato dall’affetto, ma una vera collaborazione che Alberto è il primo a riconoscere; ma è anche, si può immaginare, un apprendistato, un processo di formazione e di conseguimento di un modo e di un mondo personale che probabilmente l’assenza di pressione individuale, di quei rovelli infiniti che opprimono il fratello, agevola e favorisce, portandolo ad formare, quasi senza accorgersi, un proprio spazio fantastico che attinge all’infanzia, ma si rifà a modelli antichi, egizi, greci e romani. E etruschi, in particolare: cosa che rende particolarmente affascinante l’esposizione delle sue opere all’interno della Fondazione Rovati con la sua magnifica collezione di opere etrusche, con le quali quelle di Diego si armonizzano con naturalezza, quasi fossero una loro reviviscenza, moderna sì, ma con un evidente patrimonio genetico comune, un’aura condivisa.

La mostra si apre la scultura di una testa di leone, la sua prima opera originale realizzata nel 1931, scolpita nel serpentino, una pietra tipica della val Bregaglia, come informa Di Crescenzo nel pregevole saggio del catalogo, che racconta tutta la storia di Diego, prima in relazione a Alberto e poi seguendo lo sviluppo della sua carriera e delle commesse sempre più importanti che riceve. Infatti ben presto l’abilità manuale di Diego viene notata da molti amici e collezionisti di Alberto, che cominciano a chiedergli aiuti per la realizzazione delle proprie opere, come Georges Braque, e oggetti di sua mano, tanto che prende un atelier tutto per sé di fronte a quello del fratello, così che la loro vicinanza venga conservata, se non addirittura rafforzata, dagli spazi autonomi dove ciascuno può dedicarsi al proprio lavoro, fermo restando che per lungo tempo quello principale di Diego sarà di supporto alle realizzazioni del fratello. Tra le quali, negli anni ’30, decisiva anche per il suo percorso è la collaborazione con l’architetto di interni parigino Jean-Michel Frank, che commissiona ai due fratelli numerose opere di arredamento (oggetti, lampadari, ecc.) che costituiranno successivamente l’attività principale di Diego, anche se per lungo tempo le opere verranno attribuite solo al fratello. Diego si cura della loro esecuzione materiale, a volte apportando qualche modifica e forse anche cominciando a creare qualcosa di suo, senza firmare nulla, come i due grandi lampadari per il salone della casa di moda Lucien Lelong, primo tra i molti committenti e estimatori di quel mondo e delle élite che lo frequentano, che saranno sempre tra più costanti appassionati dei lavori di Diego, anche dopo la scomparsa del fratello nei primi giorni del 1966: da Guerlain a Elsa Schiaparelli e alla viscontessa di Noailles, prima, alle grandi commesse per la fondazione Maeght di Saint-Paul-de-Vence e il Museo Picasso di Parigi poi.


Saranno dapprima elementi di mobili, basi e angoli per sedie, supporti del cristallo di tavoli, applique, angoliere, che non differiscono dalle sculture che realizza nel contempo, e sempre più con il passare degli anni. Le forme risentono naturalmente, all’inizio, del modo di lavorare e trattare la materia del fratello, ma presto acquisiscono caratteristiche spiccatamente personali, con richiami molto originali a modelli del remoto passato.

Queste opere gli attirano l’attenzione di galleristi, che lo inseriscono in prestigiose esposizioni e gli organizzano anche delle mostre personali, e collezionisti che richiedono le sue opere.


Sono animali rappresentati con grazie e naturalezza, motivi vegetali, ma anche oggetti strani, come delle mani reggitenda o gli straordinari, inquietanti, Oiseaux presenti in mostra, e poi sedie, i bellissimi tavolini, composizioni fantastiche come lo specchio in mostra, del 1942, che lo faranno apprezzare come uno dei maggiori designer del 900, con una fortuna tuttora crescente, tanto che le sue quotazioni alle aste hanno raggiunto valori dell’ordine di milioni di euro. Se Diego fosse a conoscenza di queste quotazioni, sarebbe il primo a stupirsi. Ma certo sarebbe anche, giustamente, orgoglioso. Non più solo, o soprattutto, l’amato fratello dell’immenso Alberto, ma Diego, grande artigiano e artista in proprio, con il suo mondo e il suo valore ormai da tutti riconosciuto e amato. Però forse lo stupore e il legittimo orgoglio non lo segnerebbero più di tanto. Perché come per il fratello, anche se in modo meno ossessivo, e come per tutti gli artisti, quello che contava era il suo lavoro, le cose che realizzava, il mondo sempre più vasto e personalissimo, favoloso e leggero, affettuoso, intimo ma con grandi slanci di fantasia, che andava creando e che abitava come il suo vero mondo, quello veramente e integralmente suo.

 

Una versione più breve di questo articolo è uscita su doppiozero in occasione della mostra di Diego Giacometti presso la Fondazione Rovati di Milano



 

13/08/23

Marcite e gru danzanti

 

A Magenta scende solo gente brutta. L'unico con un bel fisico, alto snello e forte, ha il viso devastato da ulcere e croste, dalla fronte al collo, evidentissime anche da lontano nonostante la pelle molto scura. Indiano, cingalese...

Quelli che sbucano dal sottopassaggio, come il vecchio seduto, o piuttosto accasciato, sulla panchina accanto alla sala del capostazione, hanno il corpo sfasciato, non meno dei loro volti e delle relative espressioni. Gli occhi del vecchio sono vuoti, ma non vacui: pieni di un terrore sordo, anzi; di un panico ignoto. Pieni di tutto ciò che li ha disertati e della sua stessa diserzione, di cui non è sopravvissuta neppure la memoria.

 

Appena lasciata la stazione, è uscito il sole e sono cominciate le marcite, verdissime.

In una saltella contento, con l'alterigia del signore e padrone per diritto divino, un airone bianco. Un ectoplasma di pura luce, in tutto quel verde. Poi ne vedrò altri, qua e là, ma sempre e solo uno per riquadro di marcita. Anche cinerini, o garzette.

A destra, oltre gli alberi e la velocità, non so se la sagoma sfumata del Rosa o nubi in dissolvimento, puri riflessi.


Una volta, proprio da queste parti, in un prato accanto all'autostrada, ho visto delle gru impegnate in strane movenze, a metà tra un balletto e gli spasmi da avvelenamento. Ho accostato e sono rimasto parecchi minuti a osservare quella loro danza goffa, asmatica, fatta di saltelli, interruzioni, riprese e esitazioni sincopate, senza costrutto, affannata anche quando, per pochi attimi, aprivano le ali in tutta la loro maestà e le sbattevano con energia senza peraltro levarsi da terra, emettendo versi strazianti, che però potevano essere anche di gioia, di seducente richiamo, come annunci di orgasmi strozzati, gutturali: eppure incantevole, ipnotica. Era la prima volta che le vedevo dal vivo, così vicine. Enormi, mi è sembrato. Più grandi di me. Ridicole e commoventi. Belle. Belle per il semplice fatto che c'erano. Che erano lì, erano loro e erano così.


08/08/23

Ercole de' Robertii. Adorazione dei pastori

 

Il quadretto,  alla National Gallery, è grande pù o meno come lo vedete a schermo: 17,8 x 13,5 cm. (fa parte di un dittico, ma qui non importa. Voglio solo mostrarlo senza ricamarci troppo sopra.).
Io lo trovo bellissimo. Tutto. L'architettura della capanna, sofisticatissima nella sua apparente povertà; il suolo e lo sfondo, dorato e polveroso insieme; la borraccia (credo) e il fardello appesi al piolo di legno; i poveri abiti dei pastori e la postura devota simile a quella di Maria che a sua volta indossa un abito che sembra della stessa stoffa dei loro, o quantomeno di un medesimo colore; il bambin Gesù sdraiato rigido, col pancino un po' gonfio, le gambe distese, allungato come un morto: anzi,non fosse il braccio sinistro piegato, rappresentato proprio come un morto, disteso su un panno che solo qualche arricciamento dei bordi, notato solo in un secondo tempo, distingua da una lastra funeraria, e infine il l'asino e il bue di spalle, quasi indifferente, chiuso nel suo placido mondo, che rendono gloria al Creatore e alla creazione senza far nulla, essendo solo così come sono.

07/08/23

Papere, cigni e altri volatili

 


1)

Dopo i fuochi di ieri sera (bellissimi!), c'è un silenzio sepolcrale sul fiume, stamattina. I cigni e la colonia delle papere sono spariti: speriamo che ritornino (come gli scoiattoli, che proprio ieri, dopo molti mesi, ho rivisto nella boscaglia in riva al canale, dove meno me l'aspettavo). Solo qualche uccelletto sventato abbozza un incipit, un ritornello, o azzarda un richiamo che resta senza risposta. Nessuno se ne dà per inteso: o sono tutti via, o se ne stanno al sicuro dei loro rifugi estemporanei. Meglio non rischiare!

Io sto all'erta invece: non metto gli auricolari e accompagno il silenzio esterno con quello della mia testa. Così una volta tanto non soffrirà di solitudine (quest'ultimo intendo). Cammino e vado fino al cespuglio di rose canine, dal quale manco da un mesetto, cioè da quando l'hanno ignominiosamente tagliato per facilitare il passaggio di camion e altra barbarie motorizzata per non so quali lavori a Vaprio (a volte certi avverbi infiniti rendono bene l'idea). Dopo la scoperta, ho sempre preso altre strade: non mi piace soffrire gratis. Tutta la vegetazione è ricoperta di polvere, la pioggerella di stanotte non l'ha manco sfiorata. La riva alla mia sinistra è un tripudio di verdi, quella alla destra tutta una variazione di grigi, con sfumature gialline a volte, quasi dorate con la luce radente, o verdi quando lo strato è sottile. Bello lo stesso, a modo suo. Il modo suo del bello. Bene. Tanto più che il cespuglio, contrariamente a quanto temevo quando l'ho visto così brutalizzato (scerpato, stavo per scrivere, più che tagliato; mi vengono queste parole, ma resisto, un po' come lui), sta ricrescendo a velocità sorprendente. E' un fenomeno! Lo adoro. Ma ci vorranno anni perché ritorni a com'era prima, con il suo bel fusto solido a reggere la chioma che si lancia in ogni direzione. Intanto cominciamo così. Pian piano, senza far rumore ma con forza.

(Chiudo la parentesi. Può darsi che non c'entri molto, ma mi piace così: come lo scarto che ho operato per andare dal cespuglio. Un po' di musica imprevista, allegro con poco brio.)

 

Al ritorno la storia non è cambiata, sempre silenzio, nessuno in giro. Faccio caso che è da parecchio che non vedo i gabbiani, né quei due o tre aironi e cormorani che bazzicavano il fiume fino a primavera. Chissà da quanto se ne sono andati, e io, preso da altre cose, con tutto che mi reputo uno che non nega attenzione a niente e a nessuno, non me ne ero accorto! Va be', me ne accorgo ora: ora che la loro assenza non è surrogata da altro, da altre passioni. Sia chiaro, a scanso di equivoci, che io preferisco le papere in ogni caso. I gabbiani non mi piacciono molto: non c'entrano, anche se, visto che ormai sono qui, sono i benvenuti. Ce li abbiamo portati noi, del resto. Cioè, le discariche dei paesi vicini, avidi e menefreghisti, non noi noi... Sempre noi, però, comunque.

Al ritorno, dicevo, alle 9, con il sole già alto, due giovanotte avanguardiste si stavano avventurando con baldanza non so se vera o finta verso la passerella. Forse erano state inviate in perlustrazione dal paperume ancora sotto shock infrattato chissà dove, ma più probabilmente se ne venivano di propria iniziativa, con la curiosità e l'incoscienza della loro età (le verdi ali della giovinezza!), a giudicare dai bruschi richiami che a un certo punto si sono levati, forti e incazzatelli, da un'insenatura più a monte dove, tra il fitto della vegetazione sporgente sull'acqua, mi è parso di vedere il popolo anatresco al completo. Ma quelle hanno fatto le gnorri, e hanno proseguito senza titubanza, solo rallentando un po'. Va bene l'eroismo...

La caciara aviaria era ancora incerta se scatenarsi o restare prudentemente al coperto, ben mimetizzata, con il fiato sospeso, anche se qualche avvisaglia di cedimento già l'avvertivo. Una voce diversa che si aggiungeva ogni tanto... il coro che riempiva i polmoni e poi mandava rumorosamente giù la saliva per l'ennesima volta... ma faticava a trattenersi... non resisteva più, con l'ugola che già vibrava, la melodia che gli martellava il crapino... finché basta! Quando si deve cantare, si canta, cribbio!

Solo dei cigni proprio non c'era il minimo indizio. Ma quelli sono paurosi quanto sanno essere aggressivi all'occorrenza. Sembrano tanto cari e buoni, ma poi! I piccoli, prima di tutto, la famiglia! Non importa se sono ormai grandi quanto i genitori. Qui devono stare e qui stanno, che ci pensiamo noi. Saranno pure grandi e grossi, ma hanno ancora il piumaggio e il becco grigio! E con questo il discorso è chiuso.


2) (qualche giorno dopo)

Nell'acqua stagnante del canale, color caffè per i recenti temporali, le famigliole dei germani reali e delle anatre meno blasonate sono tutte in visita di cortesia, forse consigliate dalla corrente oggi più precipitosa del fiume. Mentre gli adulti scambiano i soliti convenevoli, i piccoli strepitano, immergono la testa nella fanghiglia roteando con il culetto all'insù o arrischiano le prime planate a pelo d'acqua. I genitori, pur non perdendoli di vista, fingono di ignorarli, ma è evidente che ne sono orgogliosi dalle fulminee occhiate che si lanciano in occasione di particolari prodezze, mentre improvvisi squarci di silenzio si spalancano, del tutto inopinati. Li lasciano fare, senza dire niente. Senza commenti né raccomandazioni. Come se non ci fossero. Non come la coppia di cigni che non molla un attimo la propria prole: la fa filare in linea retta, in mezzo a babbo e a mammà, come tetèschi di cérmania. Se potesse gli stenderebbe attorno un nastro di demarcazione, un filo con la scossa magari (a basso voltaggio, sia chiaro). E' vero che nelle prime settimane dopo la schiusa ha perso un paio di pargoli, tanto che ha dovuto emigrare dal grande stagno dell'ansa al fiume aperto, però...

E' evidente che i cigni sono per la famiglia nucleare: tutto per proteggere i piccoli e niente distrazioni, né a terra, dove i predatori non mancano, né in acqua, dove non mi sembra che ce ne siano, almeno dalle nostre parti. Le papere invece sono orientate verso la famiglia allargata, il clan: stanno in ordine sparso e amano le mescolanze; coltivano le relazioni sociali in tutte le forme, generi e sottogeneri, con i piccoli che giocano tutti assieme e poi sbagliano genitori quando questi se ne vanno, o si fermano a dormire dagli amici senza nemmeno avvisare. Che abbiano il permesso, è implicito: fa parte delle usanze. E poi non sembrano territoriali come i cigni, che li vedi sempre ai soliti posti, specie quando escono sulla riva, in angoli solo loro, lontani da tutto e da tutti. Certo, anche le papere hanno spiaggette erbose e argini che prediligono, ma da una parte stanno vicine anche a terra, a fare gruppo, e dall'altra svariano con maggiore disinvoltura, si dislocano per il piacere di farlo, e un giorno le vedi qua, un altro là e un altro ancora non ci sono più, come eclissate per sempre, salvo tornare alla base il giorno successivo o un altro ancora. Io immagino che sia perché usano di più le ali. Volano. Mi sono fatto quest'idea. Non hanno un gran bisogno del territorio, avendo l'aria.

 

(Ma poi, ma poi... Poi passano gli anni e io le vedo sempre qua, e sempre più numerose. Si capisce che la stanzialità gli giova. Che il luogo è abbastanza ricco e comodo e gli piace. Non fanno più nemmeno finta di migrare. Le ali le usano solo per increspare l'acqua, per fare dei giri nei paraggi, per riparare la testa all'occorrenza...

Proprio come... come...

Come chi?

Non ricordo.)

 

3)

Se fossi un vero amante, saprei distinguerle l'una dall'altra, e a ciascuna darei un nome, con il quale la chiamerei e la evocherei nella mia mente (gli innamorati lo fanno). Invece le vedo solo come gruppo, o divise in sottoinsiemi variabili, dai quali un singolo emerge per un attimo solo per qualcosa che sta facendo, per poi cancellarsi di nuovo in quanto tale.

Stamattina, recuperando con imperdonabile ritardo una coazione ancestrale, come a esprimere in questo modo il mio affetto le ho contate: sono quaranta, i cinque cigni esclusi. Cifre tonde, intrise di significati di ogni genere, e quindi di nessuno. Quaranta come le carte e cinque come le dita che le tengono. Per esempio.

Numeri!

(Sono un dilettante!)