26/11/23

Elio Grazioli, Album. L’arte contemporanea per sovrapposizioni

 


Elio è sempre stato bravo a disegnare. Quando facevo la prima media il prof di disegno ci aveva assegnato per le vacanze di Natale le stazioni della via crucis da disegnare a china, due per ogni foglio dell’album, se ricordo bene. Elio, che era in quarta elementare, mi ha aiutato eseguendone la metà. Io non ero male a disegnare, ma lui era già molto meglio, e se ho preso un buon voto il merito è stato tutto suo. Pensare che quello è stato l’apice della mia carriera di artista. Elio invece ha continuato, e da ragazzo si è messo a dipingere, e quando ha interrotto perché aveva intrapreso la carriera di critico, ha continuato a disegnare e a fare copie in acquarello in piccolo formato delle opere che amava. Poi non ne ho saputo più nulla, disegnare gli è rimasto come un’attività privata e segreta, anche come strumento di studio e di insegnamento certo, come modo di pensare, ma che teneva per sé. Ora questo fiume carsico è tornato alla luce in forma molto originale, e il risultato è un libro intitolato Album. L’arte contemporanea per sovrapposizioni edito da Johan&Levi, altrettanto originale, e profondo come le acque che l’hanno alimentato, personalissime. Tra tutti i libri di Elio non so se questo sia il più bello (non so giudicare: mi piacciono tutti), ma certo è quello più intimo, quello dove lo ritrovo meglio, e proprio per questo, secondo il mio gusto, il meglio scritto.

 

Libero da vincoli professionali e accademici, e allentando anche quelli autoimposti, in questo libro nato durante la reclusione del covid, Elio ha messo molto di sé, ma in modo che il lato soggettivo che ha lasciato emergere, più che espressione di scelte e gusti personali (anche: e il piacere di questo agire e pensare si vede e si trasmette al lettore), venga a configurarsi come un diverso modo di fare critica e teoria, scaturito proprio assecondando affinità, scelte, incontri casuali, predilezioni e consonanze e inclinazioni.

Si è venuto così a formare un peculiare metodo critico, non così arbitrario come potrebbe sembrare; ma se anche lo fosse non importa: dal momento che un metodo si misura dai suoi frutti, da quello che dà a vedere, dalle prospettive che inaugura per guardare alle cose più note, dai collegamenti che permette di instaurare, dalla telepatia che innesca facendo comunicare due, o tre, opere una accanto all’altra, o sopra, come qui. La sommessa proposta euristica che ne scaturisce però si dimostra efficace solo in quanto dà luogo a, o deriva da, un’opera a sé, quale Album indubbiamente è (pudica, mascherata, forse, ma presente: evidente per chi vuole osservare; e forte).

Diversamente “dalla citazione, dall’appropriazione, dalla decostruzione [e] dal pastiche”, frequentissimi nell’arte degli ultimi decenni, la procedura delle sovrapposizioni è stata poco usata: tra le scarse eccezioni ci sono Sigmar Polke, David Salle e, soprattutto, Francis Picabia, che torna spesso nelle pagine di questo libro (non a caso nel 2003 Elio ha curato anche il numero 22 di Riga a lui dedicato). Una riflessione su di essa aveva già dato luogo a un volume collettivo del 2016, curato con Riccardo Panattoni, intitolato Sovrapposizioni. Memoria, trasparenze accostamenti, dove Elio aveva tradotto per la prima volta in italiano le note di Marcel Duchamp dedicate all’inframince (infrasottile), concetto che poi ha ripreso in un importante libro omonimo Infrasottile. L’arte contemporanea ai limiti, e che in Album viene applicato e sviluppato in forma autonoma e, mi si passi il termine, creativa.

 


E infatti, se uno applica gli stessi strumenti usati da Elio o guarda e legge con attenzione le sue esemplificazioni, oltre che cose insospettate sulle opere disegnate, trova anche tutta una serie di indicazioni teoriche, un metodo critico che ciascuno potrebbe adottare, che tuttavia funziona solo se declinato in modo personale. Elio accenna queste suggestioni con prevedibile (per me) understatement, che però, come capita sempre a chi lo usa come abito consolidato e quasi involontario, più che a minimizzare nasconde un invito a massimizzare: a prendere sul serio e proseguire sulla stessa strada, a saggiare i percorsi della mappa stratificata che le sovrapposizioni e contaminazioni tracciano o suggeriscono.

E può capitare che, come “gli occhi dei volti di Klee sembrano leggere la scritta di Agnetti, e restano basiti” nel capitoletto dedicato ai due artisti, lo restiamo anche noi con loro.

Non si tratta proprio di una storia dell’arte moderna per contaminazioni, ma di un attraversamento personale che ne indica alcune delle stazioni e dei passaggi decisivi. (Ma anche delle idee e della vita del nostro tempo, della società e delle merci, delle tecnologie di produzione e di distribuzione…) Una teoria, che è sempre, come insito nella parola greca, anche un guardare; ma pure una “lunga fila di persone, animali o cose in movimento” (Treccani), e di opere, che vengono passate in rassegna.

 

Solo che in Album Elio non guarda dal di fuori, non passa in rassegna le opere scelte, ma vi entra dentro, le rifà e le riscrive: le comprende disegnandole e scopre qualcosa in più scrivendo dei disegni, istituendo parentele morganatiche, affinità per contrasto, illuminazioni dalla distanza, integrazioni per differenza, verifiche in differenti colture batteriche, fluide, in cui i termini vengono capovolti, dove i significati di uno diventano significanti dell’altro e viceversa, le forme contenuti, il “support surface”, lo sfondo primo piano, la superficie profondità, il conscio inconscio: inconscio di chi guarda (pittore e spettatore) e dell’opera.

Elio applica sempre uno sguardo e un approccio almeno doppio, non tanto perché due (e a volte tre) sono le opere sovrapposte e descritte, ma già perché doppia è ogni opera (specie moderna, ma non solo, sebbene quelle moderne più coscientemente, forse, e spesso persino programmaticamente), tanto che vien da pensare che in realtà si tratti di una serie di incroci e sovrapposizioni e contaminazioni almeno triplo, o anche di più. Come avviene per l’infrasottile, che è quello del fumo che sa del tabacco e insieme della bocca (e del sangue e dei polmoni) che l’ha espirato, e si pone quindi tra di loro, senza poter distinguere in esso l’uno dall’altra e anzi aggiungendovi se stesso come risultato che le unisce senza eliminare la loro separazione e differenza: “differenza quasi impercettibile che è la spia di una dimensione ulteriore che i nostri sensi non sono attrezzati a cogliere”.

 


In Album immagini e testo procedono in modo analogo a quello in cui la pittura pensa se stessa, non in ossequio alla pratica abusata dell’autorefenzialità, quanto nel senso del pensiero proprio alla sua specifica forma d’arte: cosa pensa un’immagine e come, e come dà a pensare, e come questo si riflette nella scrittura che ne parla ricevendone a sua volta occasioni di pensiero nuove.

A Elio interessa l’après-coup, “l’effetto della forma sull’idea e sul linguaggio”: “l’arte potrebbe ... essere originaria e preistorica in questo senso, nella scoperta retroattiva che il pensiero è nato da essa.” Elio usa i disegni in questo senso, per far nascere i pensieri. Ma insieme anche curarli, accarezzarli, avvertire l’emozione, o comunque altro lo si voglia chiamare, che li ha suscitati e che essi fanno scaturire.

 

Gli artisti messi in relazione come dicevo sono sempre due (o tre) con una sola eccezione, Marcel Duchamp, che però del principio del raddoppiamento è il massimo rappresentate e teorico: non solo in “Marcel Duchamp double” viene raddoppiato il suo readymade più famoso, l’orinatoio esposto col il nome Fountain nel 1917 firmato R. Mutt, e subito sparito, tanto che negli anni lo si è dovuto duplicare in più occasioni;  ma doppio è anche lo sguardo che implica l’infrasottile, che è appunto “un invito a guardare due volte, un invito che è di fatto quello dell’arte”.

Ma in Album c’è qualcosa di più: non solo il disegno dialoga con il testo, e quasi lo genera, ma i due disegni sovrapposti che lo compongono dialogano tra loro, evidenziando qualcosa dell’uno nell’altro e viceversa, e quella cosa ancora diversa che è il loro insieme sovrapposto, ma al contempo che, in questo dire moltiplicato, qualcosa nascondono anche, di sé e del loro partner. Va bene che il disegno è pieno di vuoti, lascia spazio al bianco, smaterializza e volatilizza il volume, specie se, come qui, non c’è ombra di chiaroscuro, ma è anche un insieme di tratti che nasconde qualcosa dell’altro: è, come disegno, il risultato di una serie di cose tralasciate, scientemente o meno; la scelta dei tratti (linee) significanti, la loro articolazione, e l’intervallo, la spaziatura dall’una all’altra, qualcosa di indecidibile, a pensarlo, qualcosa di invisibile, a guardarlo, una cancellazione non dichiarata, un vuoto, un mistero.

Si leggono gli accostamenti uno per uno, anche a caso, saltando qua e là, ma a uno sguardo d’insieme il libro appare come una specie di cartografia dell’arte del ‘900 per sondaggi rilevanti, per carotaggi mirati, specie delle avanguardie, perché l’arte del ‘900, e anche odierna, per Elio, sono le avanguardie, anche se poi spesso gli artisti più significativi sono, rispetto ai movimenti, marginali, extravaganti, irregolari: cioè unici, sempre sui generis, come gli artisti devono essere, e non “rappresentativi”. Se le opere che ha scelto appartengono prevalentemente a questo genere di artisti, è perché è questo che Elio pensa.

Si può anche vedere, in certi passaggi, penso per es. a “Salvador Dalì / Documents”, o a “Henri Matisse / scultura tibetana”, una specie di mimetismo, non della cosa, dell’immagine o dell’oggetto, ma della procedura: ovvero la trasformazione dell’oggetto in procedura, che produce ovviamente un altro oggetto, che è poi anche un’altra procedura. Come faccio anch’io qui, quasi un omaggio, con questa sovrapposizione, nella speranza che ne esca un abbozzo di ritratto (doppio). Sovrapposto a tutti i disegni, o, sotto, poco distinguibile ma presente, c’è, come in ogni opera d’arte, il ritratto dell’autore, anzi “un autoritratto doppio, dell’autore e del medium”, in Album a sua volta raddoppiato, a parole e nei tratti della matita. Nel bianco tra le lettere e le parole e in quello dentro e fuori i contorni e le forme.

20/11/23

Lorenzo Costa, La spedizione degli Argonauti


“Su tutti gli abissi del mare, soltanto una nave si vede”, così scrive Valerio Flacco descrivendo una delle profetiche sculture che decorano la porta del tempio di Febo nella Colchide, dove sono da poco approdati proprio con quella nave gli Argonauti, il fior fiore degli eroi della Grecia pre-iliadica guidati da Giasone, per sottrarre il prodigioso Vello d’oro al suo attuale possessore, il re Eeta, figlio del Sole, che secondo loro non avrebbe diritto di detenerlo.

La nave è Argo, la prima nave secondo certe versioni del mito, la migliore e più veloce secondo altre, ma pur sempre la prima ad avere un suo nome e a sfidare il mare aperto, rotte ignote. Nei tempi antichi le navi erano considerate esseri viventi, con gli occhi dipinti a prua per permettergli di orientarsi sul mare sconfinato. Alcuni dicono che Argo avesse invece una polena a forma di ariete, forse lo stesso del vello d’oro, anche se una cosa non escluse l’altra: nelle strategie apotropaiche abbondare non guasta. Infatti Poseidone, notoriamente possessivo e permaloso, considerava ogni navigazione come un’offesa personale: tanto più nei confronti di Argo che per prima aveva osato violare il suo regno. Per questo, per affrontare le sue tempestose vendette c’era bisogno della protezione di altri dei concorrenti, come si usava a quei tempi tra gli olimpici. Serviva quindi una nave divina, e Argo lo era, perché era stata sì costruita dall’eroe eponimo, Argo, ma sotto la guida di Atena, che l’aveva dotata anche di “un legno con voce umana” collocato “in mezzo alla carena”, secondo Apollonio Rodio, come a suggellarne lo statuto di un essere vivente vero e proprio, protagonista della spedizione al pari del suo equipaggio. Argo infatti partecipa direttamente all’azione non solo, per esempio, quando muore Tifi, il suo primo nocchiero, per designare personalmente il suo successore in Ergino; ma soprattutto perché è grazie a lei, e al favore divino che incarna, che in molte occasioni troverà la salvezza Giasone con i suoi compagni; e sarà sempre lei, alla fine, come giusto, la causa della morte dell’eroe, ucciso, come forma suprema di sarcasmo, da una sua trave in seguito alla maledizione scagliata contro di lui da Era per aver tradito la promessa di fedeltà fatta a Medea.

Attraversare il mare resta un pericolo ancora oggi, anche se non per tutti. Ma ancora c’è chi lo affronta alla ricerca del suo vello d’oro, o più modestamente dell’oro di una sopravvivenza dignitosa e pacifica. Ma coloro che il mare reclama a sé, con la connivenza degli uomini, oggi raramente hanno tumuli, sacrifici offerti agli dei, rituali che li accompagnino nell’Ade e ne conservino la memoria come per gli Argonauti morti durante il loro viaggio. Vanno a fondo, le ossa spolpate come già Fleba il fenicio 3000 anni prima, o galleggiano sul mare, portati a spalla dalle onde verso riva, come se solo così possano trovare un porto. Favore degli dei non ne hanno, nessuna Argo che li trasporta e protegge.

 

Argo è il soggetto principale, almeno dal punto di vista visivo che in un quadro è ciò che conta, di un’incantevole tavoletta che si può ammirare al museo di Padova, e che si trova riprodotta ormai pressoché ovunque si parli del viaggio degli Argonauti.

La tavoletta, di circa mezzo metro di lato (46x53), apparteneva al secondo di una coppia di cassoni nuziali realizzati attorno al 1485 per le nozze di un appartenente alla famiglia patrizia bolognese Guidotti, decorati da sei immagini che narravano la storia degli Argonauti ora disperse in vari musei (vedi la ricca scheda della tavola di Paola Tosetti Grandi nel catalogo della mostra Da Bellini a Tintoretto). Il soggetto era un tema ricorrente della decorazione di questi mobili nuziali, di cui restano vari esempi come quello di Jacopo del sellaio, del 1465, o quello attribuito a Biagio d’Antonio, entrambi al Metropolitan, o quello, coevo al nostro, che appartiene alla Serie di pannelli con storie degli Argonauti dipinti per il matrimonio di Lorenzo Tornabuoni con Giovanna di Maso degli Albizzi, riprodotti qui sotto

 


La ragione di questa predilezione sembrerebbe quella, alquanto curiosa secondo la nostra mentalità, che individuava in Medea un simbolo di fedeltà coniugale, pronta a tutto pur di difenderla; nonché, mi vien da aggiungere, un monito al marito perché osservi il patto coniugale, se si pensa a cosa Medea è stata capace di fare quando ha scoperto il tradimento di Giasone, con il tradizionale strascico grandguignolesco che miti e tragedie non si fanno scrupolo di raccontare in ogni dettaglio, nell’eterna vicenda che vede come prime vittime i figli, come dimostra la cronaca nera di tutti i tempi, con la differenza che le stragi, oggi, sembrano appannaggio quasi esclusivo dei padri, deboli e isterici quanto violenti.

L’attribuzione dell’opera è stata alquanto tribolata, ma negli ultimi decenni è prevalsa quella a Lorenzo Costa giovane (da ultimo da Alessandro Serrani ), quando era sotto l’influenza di Ercole de’ Roberti, se non sotto la sua personale direzione, negli anni in cui collaborava con lui a Bologna. La sua matrice è di sicuro ferrarese, ad ogni modo, come attestano l’Ercole estense a poppa e la forma di nave che riproduce con precisione quella di un’imbarcazione da trasporto di fattura ferrarese detta cocca o nave tonda, anche se ultimamente Valentina Balzarotti ha portato argomenti alla tesi della paternità di Bernardino Orsi da Collecchio, dando una convincente lettura dell’episodio che vi è rappresentato, pure oggetto di molte controversie.

Quella rappresentata nella tavola infatti è una scena che è quasi impossibile definire con esattezza nel complesso contesto del mito degli Argonauti e delle sue versioni letterarie più note, quelle citate di Apollonio Rodio e di Valerio Flacco, a meno di incongruenze che peraltro si presenterebbero, di volta in volta diverse, a ogni versione scelta; e altrettanto se si tiene conto della comprovata posizione della tavola come ultima della serie dei due cassoni. Tra i titoli proposti ricordo “La spedizione degli Argonauti”, “Fuga degli Argonauti dalla Colchide” o semplicemente “La nave Argo e il suo equipaggio”, per non parlare di chi vede nella scena il momento in cui Argo ha superato gli scogli mobili delle Simplegadi che da quel momento resteranno per sempre ancorate alla terraferma liberando così il passaggio per tutti i successivi naviganti. Si tratterebbe anche in questo caso di un momento decisivo: dopo di allora il mare sarà reso disponibile all’impresa, e poi a guerre e commerci; lo spazio lontano, selvaggio, inaccessibile, diventerà una possibile meta di incontri, guadagni e conquiste, sempre pericolose – sono barbari in fin dei conti – ma ricondotte nell’ambito delle finalità realizzabili.

Siccome non sono un filologo né un iconologo, non entrerò nella discussione e mi atterrò a ciò che vedo, adottando di volta in volta le ipotesi ad hoc che mi sembreranno più convincenti per la mia lettura. Qualcuna la si deve pur fare quando si usano parole per descrivere immagini, essendo la pura ekphrasys impossibile.

E ciò che si vede dipinto è una scena drammatica e insieme incantata. Una nave apparentemente grandissima, per quanto scarsamente popolata tenendo conto che gli Argonauti erano cinquanta, si sta allontanando da riva sospinta da venti favorevoli. Il mare è calmo, nessuna avvisaglia di pericolo o di tempesta, come nelle marine bibliche o olandesi sovraccariche di insegnamento religioso o allegorico, o in Turner, sovraccarico di nient’altro che non sia gloriosa pittura.

 


Sul ponte alcuni marinai o passeggeri stanno seduti a godersi la brezza marina senza fare nulla di particolarmente significativo, come una bella comitiva “in piccioletta barca”, mentre a prua un energumeno belluino brandisce una clava con fare minaccioso verso riva, con alle spalle un bel guerriero protetto da uno scudo che agita una spada nella stessa direzione, diversamente da un altro guerriero elegante e ben armato che se ne sta in piedi a poppa intento a nient’altro, sembrerebbe, che a incarnare una posa vezzosa.

Il primo è senz’altro Ercole, che non dovrebbe esserci in nessuna delle scene proposte, essendo già  stato abbandonato a terra quasi all’inizio dell’avventura alla ricerca del suo amato scudiero Ila, rapito da una ninfa lei pure invaghita di lui: un soggetto molto amato dai pittori, da Francesco Furini a John William Waterhouse; degli altri il secondo dovrebbe essere Giasone che, se corretta l’interpretazione del momento rappresentato come quello della fuga dalla Colchide dopo aver trafugato il vello d’oro, ha appena tagliato la gomena dell’ancoraggio per prendere il largo in fretta e furia. Dalla scena è inopinatamente assente Medea, che compare invece in un’altra tavoletta del cassone, forse il quinto della serie, ora al museo Thyssen-Bornemisza di Madrid

 


I fuggitivi, stando a questa interpretazione, sono inseguiti dal gruppo di cavalieri che si vedono sulla destra, minacciosi ma schiumanti di rabbia delusa per il ritardo, mentre accorrono su una specie di ponte ricavato dalla roccia. A loro si rivolge altrettanto minaccioso Ercole, che agita la clava e forse persino li deride, assecondato anche da Giasone, ora che la nave non è più a tiro. In fondo l’impresa che hanno appena portato a termine (ma resta sempre il ritorno, che come d’uso sarà perigliosissimo a sua volta) è piuttosto discutibile. Che diritto hanno Giasone e il suo re Pelia, che peraltro aveva usurpato il potere che spettava a Esone, padre dell’eroe, di rivendicare il possesso del vello d’oro, per quanto in origine appartenente a Frisso, un suo parente? Frisso aveva sposato una figlia di Eeta e in cambio gli aveva donato l’ariete miracoloso. Il suo recupero è un furto bell’e buono. Una razzia, di cui parte integrante è Medea, preda e protagonista a sua volta, oggetto di incantamento (da parte di Era e Atena via Afrodite) e maga incantatrice, sottomessa e fedelissima al futuro marito, ma spietata traditrice del padre e del fratello, tanto per cominciare. Di chi è il vello d’oro, allora? Di chi sono le opere che riempiono collezioni e musei di tutto il mondo provenienti da altre regioni e contesti, acquisite in modi non di rado illeciti? La restituzione è doverosa? Totale? Entro quali limiti? Il recupero va effettuato ad ogni costo? Dopo quanto le razzie passano in giudicato? E secondo le leggi di chi, tra i contendenti?

Fatto sta che gli eroi fuggono con la refurtiva sentendosi in diritto di detenerla e quindi di minacciare gli inseguitori nelle persone di Ercole e Giasone, mentre gli altri se ne stanno a oziare come se niente fosse, a parte il damerino in armi sospeso a una spanna dal suolo a prua, nello spazio incantato della nave, come del resto sembra librata Argo stessa. È bensì vero, infatti, che la spuma si increspa contro lo scafo, ma la nave per il resto sembra decollare dallo spazio immacolato del mare come se si apprestasse a veleggiare, volando, verso una sua celeste destinazione.

È proprio questo incanto che mi ha colto quando mi sono trovato davanti al quadro la prima volta che l’ho visto dal vero a Padova. A suscitarlo era stato, ed è, qualcosa nella costruzione dello spazio, nei candidi colori del mare e delle rocce, nella forma di quest’ultime e nel loro rapporto con il resto del paesaggio, ancor prima di riconoscere il suo soggetto. Qualcosa che ricorda lo spazio vago dei sogni costellato di dettagli vivissimi rappresentati con minuziosa precisione, accostati gli uni agli altri più che fusi in un’ambientazione spazialmente coerente e realistica.

Più che di un improbabile effetto ricercato dal pittore, si tratta di una conseguenza involontaria, almeno per come l’ho vissuta io, dei difetti nella costruzione dello spazio e di esecuzione delle figure in esso collocate, congiuntamente al rapporto tra la nave e il paesaggio e alla storia che sembra raccontare. Il difetto si ribalta allora in pregio; il non cercato in trovato. Messe tra parentesi le considerazioni di accuratezza nell’esecuzione prospettica che di solito declinano la scena in senso realistico, si spalanca un mondo immaginario in cui il mito si riallaccia ai racconti domestici di fantasia, alle fiabe da cui in origine forse nulla lo distingueva. Eroi con un solo sandalo o zoppi, prove da superare, aiuti magici o divini, mostri, avventure, errori, principesse sposate e in certi casi tradite, brillanti riuscite che talvolta si rivelano più nefaste dei peggiori fallimenti.

Gli eroi sulla tolda sono quasi tutti giganteschi in rapporto alla nave, non solo Ercole che ovviamente lo è più di tutti, mentre il gruppo degli inseguitori, che dovrebbe essere in primo piano, è invece proiettato in lontananza, come la costa con i suoi alberelli. In primo piano, enorme quasi a saturare tutto lo spazio, è la nave, almeno dal punto di vista visivo, dipinta senza tener conto della prospettiva, o con una prospettiva rovesciata sommaria, e di fatto misurata sull’importanza e la gerarchia che l’autore intendeva assegnare alle cose rappresentate, ingenua come quella di certi ex-voto, all’apparenza, ma di fattura nel complesso alquanto accurata.

Le rocce su cui stanno i cavalieri formano un ponte (a meno che non si tratti di un ponte vero, sotto cui scorre l’acqua di un fiume che dovrebbe sfociare nel mare anche se non si vede dove, limitandosi a formare una specie di pozza, stagno o palude alla base dell’immagine) non sembrano portare da nessuna parte e scendono a precipizio verso il mare o la costa; la città in lontananza, circondata da monti e rocce che la proteggono come nel palmo di una mano, quasi si confonde con il paesaggio, come un miraggio esotico; i cavalieri a loro volta sembrano figurine collocate tra la strada e le rocce più che poggiarvi saldamente, e ciononostante rendono bene la delusione, o forse la rabbia di essere giunti troppo tardi; il mare, incorniciato in basso e a destra dalla costa con spiagge, piccoli alberi e cespugli isolati o ammassati in macchie di vegetazione e di colore, più che dettate da qualche notazione naturalistica; una costa frastagliata, in parte di scogliera ma con spiagge e piane che scendono verso di esso in lontananza... tutto concorre al risalto della nave, a proiettarla in una dimensione che condivide con essa, ma non la racchiude. Su tutto, Argo si staglia maestosa, eroica, salpata non verso il mare aperto ma verso l’aria, il cielo, dove peraltro è destinata fin dalla sua origine dal catasterismo di prammatica nel mito antico, non solo greco, come illustrano Giorgio de Santillana e Hertha von Dechend nel loro meraviglioso Il mulino di Amleto. Argo infatti, come alcuni dei suoi passeggeri, i gemelli Castore e Polluce per esempio, alla fine della sua parabola assurgerà al cielo, dove formerà la costellazione australe omonima, o della Nave, che sorge all’orizzonte il 14 marzo e tramonta il 22 settembre, tracciando la sua rotta negli infiniti mondi e mandando segnali e vaticini a chi li cerca e li sa leggere. Guardando la tavoletta, anche lo spettatore è preso, come da un’agitazione ignota, dal desiderio di imbarcarsi per questo viaggio celeste e salire verso il firmamento alla ricerca della sua stella fissa, della costellazione a cui forse appartiene lui pure da sempre, dove trovare finalmente un approdo, una dimora. Una casa lontanissima da casa; una casa che non è una casa; che è chissà cosa.


 

 

19/11/23

Dovrei signorilmente disinteressarmi di me stesso



- Dovrei signorilmente disinteressarmi di me stesso, dice. Di ciò che ho faccio o ho fatto, delle tracce che mi sono lasciato alle spalle e di quelle che immagino mi lascerò. Ma non ci riesco. Non le dimentico. Le ripercorro, ogni tanto, in ogni direzione. Non appartengo a nessuna aristocrazia, nemmeno a quella, oggi decaduta come quella propriamente detta, dello spirito. Mi porto addosso le mie origini modeste (ma decorose, mi verrebbe da aggiungere cinicamente), e le ancor più modeste qualità. Un fare rozzo, una parlata approssimativa, un vivere indefinito, sfumato. Come ormai sfumate sono le mie possibilità di migliorare e di elevarmi, da qualche parte, non importa come e dove. Persino su un patibolo.
- Quanto a quello, gli dico io, abbi fede, ne stanno innalzando parecchi. Magari ne salta fuori uno anche per te.
 
Illustrazione: Lorenzo Lotto, Ritratto di giovane aristocratico.

09/11/23

Sorpreso (appunti per niente 41)

 


A volte, quando per qualche ragione rileggo cose una cosa scritta anche non molto tempo prima, incontro alcuni passaggi che mi fanno pensare: "possibile che sapessi questa cosa?". Eppure so si averla saputa, se no non l'avrei scritta, non sarei riuscito a scriverla. Ma com'è che non ricordo nulla, anche se proprio quella è una delle cose più significative di quel particolare scritto?
Va' che è strano. Sì, lo so: si chiama rimozione, o semplicemnte tempo che passa. O qualche altra etichetta patologica.
Eppure io la sento quasi sempre come una benedizione. Come il dono di una scoperta, la possibilità di essere sorpreso.

30/10/23

Blanchot l’oscuro

Ha tanti modi di essere, la letteratura, e uno di questi, per me uno dei più forti e significativi, non importa quanto difficile, arduo da seguire e da reggerne il livello, è quello di Maurice Blanchot. Perché a volte è una cosa che fa un po’ paura, la letteratura come la intende Blanchot, che disorienta, che chiede molto, e quindi uno ha la tentazione di negarsi, ma poi è così contento di esser da quelle parti, che infine, sia quel che sia, ci entra e non vuol più stare in nessun’altra.

Si entra in essa come il protagonista di Thomas l’oscuro, il suo primo romanzo ora tradotto per la prima volta per il Saggiatore da Francesco Fogliotti, entra nel mare: l’acqua è calma, lui è un buon nuotatore, abituato a spingersi al largo, conosce il mare, se una cosa del genere è possibile: conoscere il mare, e chi mai?, e va avanti di buona lena, ma poi all’improvviso si alza una bruma scura, non si vede più niente, si perde l’orientamento ma si continua lo stesso, non resta che continuare, e sperare di approdare da qualche parte, non si sa dove, perché da qualche parte, se non si annega, si approderà. Tanto più che ogni tanto la bruma si apre e lascia intravedere una riva, a indicare un possibile approdo. Chissà dove sarà. Come sarà. Come vi si arriverà.

E come a Thomas e al lettore, così accade anche allo scrittore, tanto che vien da pensare che ciascuno dei tre sia un’immagine possibile dell’altro, qualcosa di più di una sua sfaccettatura, e che poi, anche quando avverranno anche altre cose nel libro, e arriveranno altri personaggi e si seguiranno altri pensieri, che ruoteranno attorno ad altri temi, come l’amore la morte la notte la luce e la loro compenetrazione in una profonda e veritiera identità pur nel suo apparente paradosso, sia sempre anche di loro che si tratta, quindi anche di me, che leggendo scrivo e scopro quello che sto leggendo, mentre chi scrive legge e scopre ciò che sta scrivendo.

È difficile raccontare di cosa parla questo strano e misterioso romanzo, che molti reputano il capolavoro di Blanchot, che in Italia è conosciuto soprattutto per la sua importantissima opera saggistica, mentre la narrativa, pur avendo conosciuto varie traduzioni, è dispersa in tante edizioni validissime ma talvolta di diffusione minore. Scritto negli anni ’30, il romanzo fu pubblicato nel 1941 grazie a Jean Paulhan in una prima versione che fu poi ripudiata, nel 1950, in favore di una seconda ridotta a meno della metà, quella ora tradotta, considerata definitiva dall’autore che ha sempre rifiutato la ristampa della prima, poi ovviamente effettuata dopo la sua morte. Gli editori, i filologi, i cultori, i professori, gli eredi... Uno può dire quello che vuole ma quando una cosa c’è, resta lì a disposizione di tutti, prima o poi. Noi non ce ne occuperemo. Come non ci occuperemo delle altre opere di quel periodo fecondissimo a cavallo tra gli anni ‘40 e ’50 di testi sia narrativi (Aminadab, La follia del giorno, La sentenza di morte, L’altissimo), che critici, molti dei quali raccolti in Passi Falsi e Lo spazio letterario, che pure con questo libro condividono molti aspetti della scrittura e alcuni temi fondamentali che poi prenderanno altri nomi (la notte, la morte, il neutro…) senza uscire dai confini qui tracciati, sia pure in modo oscuro.



E proprio l’oscurità, già dal titolo chiarissimo di questo primo romanzo, è messa da Blanchot sulla soglia della sua opera a inaugurarla e ad avvolgerla, e a indicarne uno dei nuclei. È quella del linguaggio in cui si confonde in continuazione ogni cosa che viene detta, anche quando l’espressione appare cristallina. È il fondo di ogni cosa detta, il buio al centro del giorno più abbagliante, la morte che sta all’inizio e accompagna (intride, costituisce nel loro intimo essenziale) i personaggi e il lettore fino alla fine, che non finisce mai.

La vicenda, se tale può essere definita, è ambientata in una stazione balneare, tra spiagge, boschi, bagni in mare e stanze di un albergo i cui ospiti sembrano, e forse sono, in buona parte affetti da qualche malattia, più suggerita che nominata o descritta, prossimi a una morte che tutti li minaccia e alcuni li raggiunge.

Un uomo solitario, Thomas, ha una strana storia d’amore con una donna di nome Anne, che poi gli rivela, con la sua morte, molte cose che lui stesso ignorava del loro rapporto e su di sé.

La morte, il morire, la sua impossibilità, e insieme “ogni istante della mia vita come istante in cui stavo per abbandonare la vita” percorre tutta la narrazione, tra momenti realistici, altri riflessivi, sogni e divagazioni, in un contesto che sarebbe tentati di definire fantastico se lo smantellamento e la dissoluzione dei confini di tutti questi generi discorsivi non fossero la procedura costante di tutto il libro. “Tutto il mio essere parve confondersi con la morte”, dice Thomas, “non avevo che la morte come indice antropometrico. È anche ciò che ha reso il mio destino inesplicabile”.

Questa prossimità sempre imminente della morte di derivazione esistenzialista, heideggeriana ma con inflessioni religiose e vicine al romanticismo tedesco, che caratterizza in modo esplicito non solo Thomas l’oscuro, ma tutta la prima produzione narrativa;  la sua presenza costante nella vita , che rende morti in vita, ma proprio per questo veramente vivi, vivi nella morte, è la stessa che Blanchot pone alla base della scrittura, di ogni scrittura propriamente detta per lui, e certamente della sua. Si veda in merito il grande saggio “La letteratura e il diritto alla morte”, in La follia del giorno, con  due saggi di J. Derrida e E. Levinas, tradotto per Elitropia nel 1982 da F. Facchini e G. Marcon, scritto negli stessi anni della riedizione di Thomas l’obscur di cui condivide alcuni dei temi più significativi.

A raccontare, se di un raccontare si tratta, è una voce narrante indefinita e sfuggente, che parla di un personaggio altrettanto sfuggente di cui niente si sa e poco si viene a sapere durante la narrazione (oscuro, appunto) se non attraverso reazioni altrui. La sua dimensione è quella della solitudine, dell’incapacità, o meglio dell’impossibilita di relazioni in cui si ritrova anche quando una sembra instaurarsi con Anne, per la quale però egli risulta inafferrabile nella sua prossimità come lo è per il lettore (e per la voce narrante, che lo scopre e lo insegue in continuazione senza riuscire mai ad afferrarlo), salvo poi ritrovarsi in una desolazione senza remissione quando la perde.

“Thomas non è nulla al di fuori dell’atto letterario che lo pone”, come ebbe a scrivere Starobinski (“Thomas l’obscur, capitolo primo”, in Riga 37, Maurice Blanchot, a c. di Giuseppe Zuccarino). “Se vi è qui una mancanza, in rapporto all’intelligibilità abituale dei racconti, è per farci sperimentare meglio il valore assoluto dei termini che ci vengono proposti” lungo tutta la narrazione.

All’inizio Thomas guarda il mare dalla riva nella tipica posizione teoretica, di chi osserva da fuori gli eventi, come nel topos lucreziano del naufragio con spettatore studiato da Blumenberg, poi vi entra. È abituato a nuotare al largo ma stavolta sceglie “un itinerario nuovo”. Avvolto da una bruma improvvisa, non vede più nulla e si perde. Decide di continuare a nuotare senza sapere se approderà da qualche parte né tanto meno dove. Potrebbe essere benissimo un’immagine della scrittura, e in particolare della scrittura del libro che qui sta iniziando. Lo stesso accade al lettore. Che non solo fatica a immaginare cosa potrà accadere, ma nemmeno l’orizzonte di cosa potrà dire la frase successiva, e talvolta non riuscendo addirittura a immaginare il nesso, o i nessi, con quella precedente, che spetterà a lui costruire, se proprio lo vorrà. E lo stesso pensa che capiti anche a chi scrive. Cosa farà? Approfondirà quanto appena detto in modo enigmatico? Lo chiarirà? Si dirigerà altrove? O sorprenderà proseguendo in linea retta? Perché anche questo può accadere. E allora il prevedibile diventerà a sua volta enigmatico. Ma anche così, questo produrrà al contempo per chi legge una specie di sollievo, una pausa; tuttavia sempre con l’aspettativa (con l’ansia: con il fiato sospeso, con la sospensione del fiato mentre ancora lo si sta tirando), ma anche con il desiderio, di essere di nuovo deluso, spiazzato, costretto a cambiare posizione, a scoprire se, e in che modo, ne sarà capace. Scrivendo il libro che sta leggendo in un modo non dissimile da chi lo leggeva mentre lo stava scrivendo.

È esattamente questa alternanza, fatta di sospensione e scoperta, di frustrazione e desiderio continuamente rilanciato, che si esperimenta leggendo i testi narrativi di Blanchot, già a partire da questo suo primo romanzo. Si è all’oscuro, come il protagonista eponimo, e ci si inoltra nel buio. E il buio è l’occasione per vedere, anziché esserne l’impedimento. A meno che, spaventati, non vi si getti uno sguardo per subito distogliersi e chiudersi la porta alle spalle verso la luce, il giorno (con la sua follia, come titola il bellissimo racconto citato). Se non che il giorno, allora, abbaglia, sia pure per un attimo, che mostra come la cecità sia al centro della luce, che è a sua volta buio, come in quello del buio soggiorna la luce. È un istante decisivo, un istante in cui appare la morte al centro della vita rivelando la propria essenzialità costitutiva, che consegna ogni individuo alla solitudine, da cui nessun possibile legame, come quello di Thomas con Anne, lo potrà liberare, e come avranno entrambi modo di verificare, vivendo la morte l’una, e morendo la vita, l’altro. (Le pagine dedicate alla malattia e all’agonia di Anne, a questo proposito, sono tra le più alte del libro. 96-7 e poi fino a 102)


Narra qualcosa, la storia di un uomo solo, che ha una relazione e poi torna a essere solo, ma soprattutto insegue, e cerca di dire, il venire alla luce delle parole che subito sprofondano nel buio a causa della loro necessità di dire e nominare perché nel farlo si condannano a morte a causa della loro essenziale parzialità, dell’isolamento e dell’interruzione che istituiscono estraendoli dalla totalità e dalla continuità che sole potrebbero dare un senso di verità alle cose e al pensiero da cui erano state messe in movimento e portate ad essere. Insegue cioè il processo di creazione, l’atto di nascita e le condizioni, dell’opera letteraria a cui le parole danno luogo (spazio) e che esse stesse sono. (Li indagano come nei testi critici, che a loro volta assumono a volte un’andatura di finzione, narrativa, per non condannarsi ai termini astratti che porterebbero a termine la loro stessa condanna a morte).

Le parole che servirebbero a dire esplicitamente una cosa, a specificare un’azione importante o addirittura decisiva, a illustrare una situazione o un evento, vengono sistematicamente omesse: al loro posto è tutto un fiorire di immagini, di figure (soprattutto retoriche) e di gesti e sensazioni e emozioni si direbbe senza referente, che acquisiscono un carattere astratto anche quando sembrano denotare qualcosa, e comunque indiretto: non potendo stare in se stesse, perché prive di consistenza, o meglio vuote, proliferano in ogni altra direzione che da esse si allontana solo per ricondurvisi dopo un largo giro, ma ritrovandola non più la stessa, mutata, o piuttosto negata. Nel frattempo il filo si tende e attorciglia, o si spezza, compie un salto, cambia percorso, e il lettore si smarrisce, abbagliato da illuminazioni e da ampie zone buie, che si scambieranno i ruoli e di segno o di posizione gerarchica, a una seconda e ad ancora successive letture. C’è di che restare incantati, ma anche molto irritati. La delusione non si tollera troppo a lungo. La frustrazione fa anche bene, ma deve trovare uno sbocco, un appiglio. Che però Blanchot si ingegna sistematicamente a negare. Per poi rilanciare il discorso oltre, aldilà, senza alcuna contraddizione.

Tutto ciò comporta la necessità di una lettura lenta, e non di rado di una rilettura che richiede una partecipazione attiva al lettore, e amplifica il suo statuto di co-autore del testo che già qualsiasi lettura in vario grado implica. Il lettore scopre sì leggendo, ma non lungo un percorso tracciato, bensì per via di connessioni e stratificazioni e diramazioni che gli viene richiesto implicitamente di istituire, che si ritrova lui stesso a istituire se, e finché, decide di restare nello spazio del libro: uno spazio a venire (per alludere a uno dei più noti libri di Blanchot), ma anche in divenire costante, che si riavvolge su se stesso e torna modificato dalle differenti azioni del lettore, come delle differenti parole della voce narrante.

Niente viene detto delle cause, delle motivazioni o delle fonti o di quanto succede ai personaggi o viene riferito come da essi pensato o immaginato, neppure quando, magari poco dopo, viene affermato l’opposto o qualcosa di logicamente estraneo o incompatibile. Quanto appena detto, o scoperto, o visto o constatato, viene subito rilanciato in un’altra direzione, oltre, con un passo al di là, che, giusta l’ambiguità dell’espressione francese usata per un importante libro di saggistica, dell’aldilà è anche una negazione (Le pas au-delà, Gallimard, 1973; trad. it., Il passo al di là, Marietti, 2000)

Cose che si possono dire solo lì, così, sul filo tra il dire eccessivo e il non dire niente, continuando comunque a parlare. Come se ogni volta, per citare un suo titolo dedicato a Celan, si fosse l’ultimo a parlare. Ogni volta ciascuno, e ogni libro, l’ultimo. Ma decisivo. Imprescindibile, come un’origine cancellata da cui ripartire.

Proprio oggi che la letteratura e la critica hanno perso gran parte del loro fascino e della loro importanza e autorevolezza e sono spesso ridotte a un chiacchiericcio sentimentale o al massimo umorale, è il momento di insistere su di esse, sul loro valore e sulla loro specificità, in qualsiasi forma si presentino, sulle domande che solo esse sono in grado di porre, e tanto più su quelle insensate, apparentemente, o senza risposta. Quelle che solo esse sono in grado di tenere vive, quando tutto spinge verso ciò a cui si può e deve trovare risposte, per tradurle poi in concreto, in fatti e in cose: già morte ancor prima di aver trovato una qualche realizzazione.

È nel momento in cui essa cessa di avere importanza, in cui quello che al massimo le si chiede è di intrattenere, di entrare nella macchina produttiva e produrre svago (necessario) e distrazione (imprescindibile), e quindi nel momento in cui non ha più niente da dire a nessuno, che la letteratura può liberamente parlare, dire ogni singola parola e parlare di ogni cosa e insomma di tutto, senza dover dire (il) tutto. È nel momento della sua massima inutilità che si palesa la sua necessità.

Non si tratta di una scaramuccia di retroguardia, nata dalla sconfitta e dalla nostalgia di pochi, ma di un’azione d’avanguardia, di una pacifica guerriglia asimmetrica, se si vuole, per il futuro di molti.

Non viene raccontato quasi nulla, e allora solo cose insignificanti che però acquistano, chissà perché, aloni giganteschi, mitici e producono echi interiori smisurati. Al loro posto riflessioni e analisi che hanno pochissimo di psicologico per quanto sembrino affondare nelle fibre più profonde dei personaggi, spesso da loro stessi ignorate. Chi le fa? Chi parla? Non si sa: a volte sembra il protagonista, Thomas, ma più spesso una voce anonima, neutra, che mostra di capire, o quanto meno di voler sviscerare, anche l’incomprensibile, e anzi soprattutto quello. I riferimenti concreti che ciascuna di queste (queste cosa? riflessioni? speculazioni?) che ciascuna di queste frasi, poiché tali in fin dei conti si riducono ad essere (tali in fin dei conti sono) dice, le rare volte che sono accennati, o descritti, sembrano perdere corpo e concretezza, diventare anch’essi astratti, sono occasioni, o elementi (meglio) delle frasi che di fatto le originerebbero. Si fluttua in esse, si nuota nella loro tempesta, come Thomas all’inizio del libro quando si addentra nel mare che sembra calmo e poi viene coperto da una foschia che tutto confonde mentre le acque si agitano all’improvviso e rischiano di travolgerlo.

Sono solo parole messe in fila che poi ruotano su se stesse, e si alzano e creano onde e gorghi che trascinano il lettore a fondo e poi lo riportano a galla, dove può per un momento lasciarsi andare, riposare sulla liscia superficie, per essere presto di nuovo inghiottito e sballottato. È letteratura. Solo letteratura. Letteratura e basta. E questo è tutto. E questa letteratura, per Blanchot, e per il lettore, è tutto. Deve essere tutto. O altrimenti non è niente. Anche questo è possibile. Molti ci vivono bene. Qualcuno no. Io, per esempio, sì. E sono certo di non essere il solo. Ho le prove.