24/11/24

In galleria con Vincenzo Agnetti. Ricordi di copertura 31 (credo)

 


Che bello l'articolo di Elio sul libro postumo con gli scritti di Vincenzo Agnetti!

Mi sono anche un po’ commosso, alla fine.

Ricordo di aver portato un giorno una mia classe alla galleria Artra,in via Fiori Chiari. Era l'anno in cui sono entrato in ruolo (1978, avevo 27 anni), e per caso lui era presente e stava parlando con Marcella, la gallerista. I ragazzini (biennio Itis) erano sconcertati e pieni di domande e io ho detto: perché non le fate all’artista? E lui ha parlato con loro per non so quanto tempo e loro erano emozionati. Era la prima volta che entravano in una galleria e vedevano un artista in carne e ossa e addirittura potevano parlare con lui. E ero emozionato anch’io e credo anche lui, almeno un po'. E abbiamo poi preso il treno per tornare a Treviglio che ancora eravamo contenti.


 

 

22/11/24

Daniel Arasse, Il dettaglio



“Maledite i dettagli, la posterità li ignora tutti”, ha scritto Voltaire, che vedeva in essi qualcosa di superfluo e sviante rispetto alle cose essenziali, quelle che veramente contano. Eppure c’è gente, evidentemente di poco conto, che ne è attratta, a volte persino in modo morboso. O ridicolo, a seconda dei punti di vista. Prendiamo la pittura. Non è raro vedere alle mostre uno spettatore che si china verso un quadro facendo scattare l’allarme o la ferocia di un custode perché si è accostato troppo per vedere meglio questo o quel particolare o solo la traccia di una pennellata, un grumo o la trasparenza di un colore, spinto da un impulso che a volte nemmeno lui si sa spiegare. Vignette e immagini in merito si sprecano. Niente di più banale che farne la parodia, a rischio di tratteggiare senza saperlo anche la propria, con l’idea di essere molto più intelligente; ma vorrei sapere chi non lo ha mai fatto. Quale più quale meno, ogni opera chiama ad avvicinarsi, chiede di entrare in essa, non solo per vedere meglio cosa rappresenta ma anche per capire come funziona, secondo quali criteri è costruita, quali idee stanno alla sua base o in essa si nascondono, cosa dice col suo specifico essere che non può, e spesso non deve, essere detto altrimenti.

Abbiamo tutti questa inclinazione voyeuristica, questa pulsione settoria, la voglia di aprire il congegno, di metterci le mani, per vedere come è fatto o solo per toccare. Daniel Arasse, nel classico libro Il dettaglio, ora ristampato da il Saggiatore in una sontuosa edizione di grande formato con bellissime e accuratissime illustrazioni a colori, ha innalzato questa attrazione a procedimento di lettura e a strumento di interpretazione non solo dei meccanismi compositivi e formali delle singole opere, ma anche di aspetti e momenti decisivi della storia dell’arte, delle cornici teoriche e sociologiche che vi presiedono. E nel farlo ha messo in evidenza anche il ruolo di eccezione e contraddizione, o di paradosso e disarticolazione e negazione del senso che i dettagli incarnano all’interno delle opere e dei generi, delineando in tal modo una sua peculiare storia dell’arte, interiore e, direi, passionale.


Il dettaglio, che è la prima sistematizzazione di un percorso che è poi stato sviluppato in tutta la produzione dello studioso francese, è infatti prima di tutto un libro appassionato, un libro d’amore. Per la pittura, per il vedere e il guardare (e l’immaginare – soluzioni, strumenti, collegamenti ecc.) per arrivare a capire, anche, cosa accade nella mente e nel corpo di chi dipinge e di chi osserva.

Scopofilia vera e propria che trova nella visione ravvicinata, nell’approccio all’interiorità dell’opera, la procedura privilegiata di interpretazione e nel dettaglio il suo strumento più efficace e il luogo di affezione dove passa la sua intensità e si radica la sua soggettiva verità. L’amore indaga la superficie, la carezza, si avvicina e poi si allontana, non si sazia di nessuna vista generale, che pure è necessaria, e indugia su ogni piccolo particolare, lo ricerca, lo inventa operando inquadrature e tagli, da cui il termine ‘dettaglio’, appunto.

Arasse trasforma questa passione in metodo di cui affina potenzialità, limiti e modi di integrazione con la storia e lo studio dell’arte tradizionale secondo i criteri di quella che lui chiama iconografia analitica in opposizione all’iconologia classica, in quanto fa ricorso anche a discipline in questo ambito tradizionalmente poco canoniche, come la psicanalisi la semiotica e la filosofia, che possano risultare utili alla lettura e all’interpretazione delle opere non come supporti esplicativi esterni, ma nella loro interna e autonoma specificità. Per farlo, approfittando di una distinzione che è presente in italiano ma non in francese, in primo luogo procede a definire la differenza tra il dettaglio e il particolare: mentre questo è una parte di un oggetto in qualche modo circoscritto: una figura, un corpo, un paesaggio e in genere dell’insieme di una composizione (una testa, un piede, un ramo, una roccia, un ponte, ma anche una figurina minore ecc.), il dettaglio propriamente detto è un piccolo elemento ri-tagliato dall’insieme dell’opera dall’osservatore o immessovi dal pittore, spesso volontariamente, a volte meno, dallo statuto figurativo meno definito. E’ il frutto di un’azione, e a volte di un “programma d’azione” (Omar Calabrese) che dipende dal punto di vista del “dettagliante”, dal suo investimento personale, scatenato in genere dalla sorpresa o da un senso di stupore, che “per dirlo con l’eleganza di Roland Barthes, è “il timido inizio” del godimento”.

Del dettaglio, Arasse distingue poi due tipi fondamentali: il dettaglio iconico (“che fa immagine”), che riguarda qualcosa di riconoscibile e determinabile (una mosca, i quasi invisibili capelli che sfuggono al velo dell’Annunziata di Antonello, ecc…) e il dettaglio pittorico, che non rappresenta nulla, ma ha molto a che fare con il modo di dipingere (una macchia, delle pennellate, degli effetti di materia, grumi o velature, fino a certe ombre, alle forme che si intravvedono nei panneggi, come nella Serratura di Fragonard …) che proviene da o segnala qualcosa di indefinibile e di indicibile ma che caratterizza profondamente il quadro.


Delimitato il campo e i termini principali, attraverso una cospicua serie di esempi e di analisi che poi proseguiranno in tutto il volume (segnalo quelle, splendide, sulla Merlettaia di Vermeer; sulle varie forme e firme e immagini del pittore nel quadro; sui panneggi; sulle mosche e una lumaca…), di cui costituiscono le sezioni più illuminanti e godibili, come la sua scrittura del resto, Arasse passa a studiare e differenziare ulteriormente la tipologia dei dettagli e la loro funzione e incidenza nella effettiva emergenza nella storia della pittura a partire dal medioevo, evidenziando la diversa considerazione di cui hanno goduto (o sofferto) nel suo sviluppo e le varie funzioni che si sono trovati a svolgere in rapporto alle opere a cui appartengono e alle idee e forme che in esse si incarnano.

Il ruolo del dettaglio dipende infatti dall’opera e dalle idee che ad essa soggiacciono, dal pensiero che contiene e produce, anche se poi esso lo mette in crisi, lo fa vacillare o addirittura lo nega, presentandosi come espressione di un pensiero solo pittorico, perturbante e portatore di intensità anche emotiva: un discorso su ciò che la pittura indica e suggerisce senza dirlo, sull’indicibile in (della) pittura, come il Cane di Goya.


Perché si dia dettaglio occorre che ci sia opera. Il dettaglio da solo non fa opera, se nega o disturba ci devono essere un’affermazione e un ordine. Il dettaglio devia, scarta, e è a sua volta uno scarto, ma occorre che esista una norma, o che chi opera lo scarto ne abbia in mente una, più o meno definita.

In sé peraltro, a differenza del particolare che come dice il termine è una parte dell’opera facilmente riconoscibile da uno sguardo appena attento, il dettaglio non esiste, non è altro che ciò che risulta da un’operazione, duplice, del pittore e, più ancora, dell’osservatore: ma mentre per il pittore è più un’intenzione, la creazione di qualcosa che ha uno scopo, esplicito o criptato, o che viceversa, come un tic o un sintomo, gli è in qualche modo sfuggito (ma che poi ha lasciato: e allora…), per l’osservatore è invece un prelievo intenzionale, anche quando la sua attenzione è stata calamitata o provocata da qualcosa che il pittore ha messo apposta per chi fosse capace di vederla e intenderla (o ha nascosto pensando che non potesse essere notata, per quanto questa sia una pia illusione: prima o poi qualcuno vede: e molti vedono anche quello che non ti sei accorto di aver messo).

 

A seconda dei momenti storici e delle tendenze i dettagli assumono caratteristiche e scopi diversi. Per esempio nella tradizione religiosa esercitano una funzione di aiuto alla memoria, come nelle immagini degli strumenti della passione, ma “devono essere sorprendenti e inconsueti, perché lo scarto dall’abitudine permette di memorizzare più facilmente la nozione associata a questo o quel dettaglio”; e devono averne anche una emotiva, perché “costituiscono un punto di sostegno privilegiato per instaurare il patetico dell’immagine”, per esempio per “gustare la passione di Cristo”, come scrive Caterina da Siena.


Più avanti, nel ‘400, avranno al contempo il ruolo di “indicatore della scienza del pittore”, del suo “saper fare”, della sua capacità di riprodurre alla perfezione la realtà e insieme quello di un indizio che si tratta comunque di un artificio (la mosca a grandezza naturale sulla figura dipinta, per esempio, che nel momento in cui viene riconosciuta essa pure come supremo artificio mette in crisi lo statuto di mimesi del resto del quadro), ma anche del suo “saper giudicare” cosa è opportuno inserire nella composizione e cosa no, determinando in tal modo il peculiare statuto della “verità in pittura” nei differenti momenti della sua storia, che modello di rappresentazione del mondo in essa trova la sua emergenza.

Dentro ogni opera c’è la sua teoria, ed è questa che il dettaglio permette di riconoscere e aiuta a definire anche quando “scompagina il dispositivo spaziale codificato” e lo mette in discussione. L’opera è un sistema di rappresentazione che pensa autonomamente (è carico di un pensiero e di un sapere pregressi, impliciti nel fare, nell’immaginare e nel formare…) ed è lei stessa a dettare le regole della propria decifrazione.

Per questo occorrerà controllare l’occorrenza del dettaglio onde evitare che chi guarda, perdendosi in esso, si adagi nelle proprie fantasie e speculazioni perdendo di vista l’insieme, l’armonia della costruzione e la congruità di ogni particolare che in essa trova spazio e senso, che è quanto dovrebbe essere trasmesso all’osservatore ideale, dal suo bel punto di vista già predisposto a cui restare fedele, ricompensato con la bellezza e la conoscenza che il quadro dispiega al suo occhio, lì, in un certo senso, inchiodato, o medusato.

Attratto dal dettaglio, invece, l’osservatore reale si ribella alla dittatura di quello ideale, incorporeo e monoculare, presupposto dal punto di vista, per andare a vedere da vicino, con entrambi gli occhi, e anzi con tutto il corpo, mosso da un desiderio visivo e anche tattile, il corpo della pittura, a ispezionarlo, ritagliandolo e facendo proprio come il lanzichenecco che si narra sia stato tanto folgorato dal paesaggio delle Nozze Mistiche di Santa Caterina del Lotto ora in Carrara, da ritagliarlo e portarselo via con sé, come una specie di pin-up della pittura, incarnazione del suo desiderio erotico, desiderio che può essere anche mortale, come avviene per il Bergotte di Proust con “la piccola ala di muro giallo” della Veduta di Delft di Vermeer.


L’investimento dell’osservatore è simile, ma non uguale a quello del pittore, che inserisce dettagli a volte criptici, personalissimi e non destinati a nessuno spettatore, perché chi guarda ritaglia dove e come gli pare l’immagine o la superficie dipinta, anche in modo indipendente da ogni strategia messa in opera dal creatore. Il dettaglio nasce dal capriccio della ricezione, chi lo ritaglia è il suo creatore, anche se lo studioso non può evidentemente fermarsi all’attrazione soggettiva, ma cerca sempre poi, per noi che lo leggiamo di analizzarne ruolo e caratteri, per quanto sappia che al fondo di questa attrazione e della relativa analisi, resta, all’inizio come alla fine, un non-detto, e un indicibile.

Normale che esso si eserciti spesso quindi laddove l’indicibile si coniuga con il non voler o il non poter dire dell’artista, con il suo erotismo in rapporto alla figura rappresentata oltre che al gesto del rappresentare, come la macchia di Ingres sul meraviglioso abito di Madame Moitessier e i tanti nudi della storia della pittura, a partire da Marte e Venere di Botticelli Botticelli, Giorgione e Tiziano, soprattutto, per arrivare a quelli scandalosi di Courbet e Manet e oltre.



A proposito di Courbet, apro una parentesi su L’origine del mondo, che non è un dettaglio. La pulsione che agisce in essa non è quella del dettaglio, per quanto forte sia quella innescata dall’oggetto del quadro. Esso infatti non è un particolare, ma un’opera che rappresenta una parte del corpo: esattamente quella la parte di un corpo che costituisce il suo centro, la sua origine, il prototipo del desiderio, la sua incarnazione… tutto quello che si vorrà (le interpretazioni si sprecano, naturalmente: poche cose ne meritano altrettante), ma non è un dettaglio. Come opera è completa, anche se l’intenzione in certa misura paradossale e provocatoria di Courbet è stata quella di fare un’opera con una parte, una parte che contiene il tutto (come una sineddoche), o che ha in sé tutto.

A parte ogni altra considerazione, il quadro di Courbet è la rappresentazione della parte di un corpo elevata a opera. Completa. Totale. E’ il taglio, del corpo e nel corpo, del pittore, e quindi di tutto il sistema del dettaglio che invade l’opera, la sostituisce e la costituisce.

[qui c'era la riproduzione di L'origine du Monde, di Courbet, la cui vista disturbava le anime sensibili di tanti aficionados dei siti porno e di violenze efferate]

Il piacere di Arasse che individua e analizza i dettagli e quello dello spettatore che visita una mostra o un museo, sono anche quelli del lettore che scorre questo libro, con i suoi innovativi approfondimenti storici e teorici, e soprattutto con la bellissima serie di analisi di quadri singoli o raggruppati per tipologie o parentele.

La nostra sete di dettagli, trova di che dissetarsi, ma anche motivo di riflessione a proposito del loro odierno dilagare in ogni aspetto della comunicazione, che si nota banalmente anche solo scorrendo social e giornali, oltre che in molta produzione saggistica e narrativa. Siamo attenti ai dettagli perché abbiamo perso la visione d’insieme, o quantomeno l’illusione di averne una. Non restano che frammenti sparsi che si presentano come insiemi autonomi e unitari, che però fatichiamo, di nuovo, a vedere come tali, così che avviciniamo ancor di più l’occhio e ritagliamo altri frammenti che speriamo così di poter riconoscere e dominare; poi da lì cerchiamo nel nostro cestino dei rifiuti altri dettagli simili e proviamo a collegarli tra di loro sperando di riuscire a mettere insieme qualcosa di più ampio che abbia un senso, trascurando di fare questo con gli insiemi da cui abbiamo estratto i dettagli, perché troppo ampi, ingovernabili, e che quindi, invece di soddisfare in qualche modo il nostro bisogno di coerenza, ci mostrano un caos nel quale ci smarriamo, disperando di venirne a capo. Ma tutto ha un senso. Ogni frammento e ogni loro insieme e ogni insieme di insiemi. E noi siamo ciechi e sordi e muti, o balbuzienti, nello stesso momento in cui gli diamo la forma in cui siamo immersi senza saperla riconoscere. E così via. E così via…

Il libro di Arasse ha parecchio da dirci anche a questo proposito.



 

 

31/10/24

Uomo che cade


 

Non è raro vederlo cadere da sedie, ruzzolare da scale, inciampare nelle superfici più levigate, rovesciare bicchieri e rompere oggetti delicati in genere, picchiare testa gomiti e ginocchia contro qualsiasi cosa sporga o coinvolto in incidenti stradali di varia entità mentre segue traiettorie che solo a posteriori, e ad un esame molto accurato, rivelano una possibile razionalità tutta loro. Assume allora un’espressione più che di sgomento di meraviglia, e quasi di ebbrezza pur nel dolore che si affretta a manifestare con accenti di preferenza e di proposito grossolani, che è il suo modo di nascondersi, ovvero di sminuirsi, di deviare l’attenzione verso il marginale. Gli occhi, già di solito allegri, potenziano la loro luce e si dilatano in un’espressione gioiosa, per quanto affermare che solo allora si sente davvero felice sarebbe francamente eccessivo.


22/09/24

Il boia, il decollato e l'osservatore

 


Il boia, che di spalle e con il capo coperto nega il proprio volto allo sguardo agli astanti, nega lo sguardo anche alla vittima (nel Martirio di Cosma e Damiano, l'Angelico mette anche la benda agli occhi dei martiri, e non solo perché così si usava o per gesto di pietà o per evitare al boia, qui a capo scoperto, lo sguardo su di sé)) e segnala in tal modo allo spettatore che anche al suo sguardo, che sembra dominare l’insieme della scena che gli è rivolta, qualcosa viene negato: che c’è qualcosa che gli sfugge, che inficia il suo sguardo e la sua pretesa di dominio, che lì è il punto critico, la violenza che subisce, e che è necessaria, fondante forse, per quella che esercita.
 

Ma si potrebbe anche dire così: Il pittore, rappresentando di spalle e con il capo coperto il boia mentre, decapitando la vittima, assieme alla vita  le nega la (sua più intima) possibilità (che si riassume nello sguardo), sottrae anche il suo volto allo spettatore, il quale, proprio mentre crede di dominare l’insieme della scena, nell’azione rappresentata e nella relazione dei protagonisti tra di loro e con lo spazio, non si accorge di ciò che al suo sguardo manca pur avendola sotto gli occhi: la figura di schiena, e, con essa, la propria centrale cecità anche su se stesso.

 

Oppure ancora: Il boia decapita il condannato e, ovviamente, con la vita gli sottrae ciò che lo caratterizza come individuo, lo sguardo. Il pittore lo rappresenta di spalle, sottraendo alla vista anche il suo, di sguardo. Lo spettatore ecc.

Inoltre: l’opposto della figura di schiena è Medusa (cfr Vernant), che cattura lo sguardo e uccide, obbligando chi vuole “affrontarla” a darle la schiena e a guardarla di riflesso (e forse anche si sbieco?). Poi diventa lei la decapitata che non può vedere, anche se la sua testa e il suo sguardo di morta continuano ad atterrire (vedi l’uso sugli scudi: naturalmente Caravaggio).

 
In certe rappresentazioni però (specie nelle teste del Battista sul loro bel vassoio) la testa tagliata ha uno sguardo e, che sia rappresentato come sguardo cieco o che gli resti un barlume di vita, è comunque inquietante. Inquietante al quadrato, tanto da avere un che di ridicolo, è una lunetta del 1430 della cerchia di Michelino da Besozzo che ho visto di recente al Castello sforzesco, in cui il Battista, integro, presenta con sguardo mesto la propria testa tagliata, nei cui occhi socchiusi la mestizia sopravvive, alla Madonna che la guarda con sgomento, come ritraendosi impaurita e per proteggere dalla sua vista il bambino, che invece se ne sta beato con la manina in bocca, mentre un altro santo, Pietro da Verona, che esibisce il falcastro (roncone o mannaia) con la tradizionale lama che l’ha ferito a morte conficcata nel cranio, guarda la scena sereno e composto, quasi distaccato. Cosa è più inquietante? Il dialogo, e la stessa presenza, di questi 5 sguardi (incluso quello del bambino), meriterebbero un sesto sguardo, da parte mia, meno frettoloso di quanto ora posso dedicare. Per il momento basti questo, sorpreso come quello di Maria.
 

 

19/09/24

Francesco Permunian, Elogio dell’aberrazione

 Luca Del Baldo, Ritratto di Francesco Permunian
 

Il mondo di Francesco Permunian è un mondo di mostri. I suoi libri sono ambientati tutti nella provincia in cui è sempre vissuto, prima nel Polesine dove è nato pochi mesi prima della grande alluvione del novembre del 1951 che ha spopolato quella regione lasciando segni indelebili nella vita e nell’immaginario del territorio e dei suoi abitanti, e poi, dai trent’anni, sul lago di Garda, con un impiego da bibliotecario ora in pensione, conducendo una vita comune tra gente comune. Niente di speciale, tutto normale: solo che per lui la normalità è popolata di mostri. È essa stessa mostruosa. E lo è tanto più quanto più normale appare e vuole mostrarsi, imponendo le proprie regole, che sono poi quelle di consuetudini e tradizioni secolari e, nel caso della religione, millenarie, ora tutte in sfacelo sebbene sempre incombenti, tiranniche, anche se ormai quasi nessuno vi aderisce più veramente, o solo in modi ridicoli o rivoltanti. Tanto più mostruose quanto più affondano nel passato e pretendono di dettare la normalità. Perché normalità non esiste. È un puro involucro. Puro packaging, che però stringe e soffoca come una camicia di forza, da cui si cerca di evadere in tutti i modi pur restando aderenti a questo o quel suo simulacro. Aberrazioni di nessuna norma. Perché non essendoci più norma, non resta che l’aberrazione. E allora tanto vale farne un elogio, come titola il suo ultimo romanzo (Elogio dell’aberrazione, Ponte alle Grazie, 2022). Paradossale, grottesco, blasfemo, collerico, insano, per usare i termini che ricorrono nelle sue opere e spesso anche nei loro titoli, che però non derivano tanto da una volontà di scandalizzare o dal desiderio moralistico o sociologico di scoperchiare sepolcri e denunciare di ipocrisie e malcostumi (c’è anche questo, certo), quanto da un vortice di ossessioni e disagi e convulsioni personali e di esistenze che ne sono tutte travolte e annientate, furiosamente ma anche pietosamente, vivi, morti, fantasmi e larve, quasi tutti “esattamente a metà strada tra la nostalgia e lo sfacelo” (Camminando nell’aria della sera, Rizzoli, 2001, p. 220).


Elogio dell’aberrazione porta tutto questo all’esasperazione grottesca sotto il segno della scatologia e della merda. Della merda vera e propria in cui si rivoltolano materialmente nei loro giochi erotici il narratore, vicecapo cronaca di un giornale locale, e la giovane moglie che condivide e esaspera le sue predilezioni, e che poi lo lascerà per un gigante del settore, un imprenditore di una ditta di spurghi, che a sua volta la lascerà sempre nella stessa sostanza; in quella morale e esistenziale in cui si dibattono quasi tutti i personaggi indifferentemente dall’età e dalla condizione; e in quella simbolica, ma realissima, del girone che le è dedicato nel pasoliniano Salò o le 120 giornate di Sodoma, di cui un velleitario regista aspira a girare un sequel con il sostegno del direttore del giornale che ne fa il suo amante.

Più che un mondo, quello di Permunian dovremmo dire allora che è un im-mondo, dove ogni cosa e persona e relazione è per almeno un aspetto sporca e rivoltante: e allo stesso modo lo sono anche l’immaginario, le visioni, gli incubi che perseguitano il narratore di questo libro, come quelli di tutti i libri dello scrittore, e quindi, dovremmo desumere, anche lui in persona, dal momento che essi ne condividono numerosi elementi biografici, anche se poi vanno tutti a confluire in caratteri e figure perfettamente compiute dal punto di vista narrativo, e quindi autonome e giudicabili solo in quanto creature di finzione. Infestanti come i ricordi (che sono sempre ricordi di morte: polvere, come La polvere dell’infanzia del titolo di uno dei suoi libri più belli, del 2015, edito da Nutrimenti) che scaturiscono come spettri dal mundus, la fossa al centro della città che i romani aprivano una volta all’anno per consentire la fuoriuscita dei morti e così esorcizzare la loro costante minaccia favorendone la momentanea circolazione, mentre per il nostro scrittore essa è sempre spalancata, tutto circola sempre, e tutto infesta, infanga e sommerge, anche la tenerezza e la nostalgia che sembra accompagnare le cose e le persone amate, anche i buoni propositi, i propositi di bontà a cui comunque non intende rinunciare anche quando lo vorrebbe, nemmeno quando l’immondo spinge a fare di ogni erba un fascio e che tutto e tutti sprofondino nella cloaca da cui provengono e a cui sono destinati.

 

I narratori e protagonisti di Permunian parlano in modo disincantato, cinico e feroce (i suoi numi tutelari sono, prevedibilmente, Céline, Bernhard, Cioran, ma anche Quinzio, Manganelli, Landolfi, la linea veneta da Piovene a Comisso, Parise e Zanzotto…), e si pregiano di chiamare ogni cosa con il suo nome, e di scegliere, quando i nomi sono numerosi, il più basso e scurrile, direttamente, senza tanti giri; e se qualche volta indulgono a metafore, sono perlopiù avvilenti, scatologiche e blasfeme. Quasi sempre segnati da qualche bella tara anche loro, o più d’una, nel corpo o nell’animo, sono parzialissimi, imperfetti, fegatosi: come credere alle loro pretese di oggettività, di spassionato resoconto libero dai vincoli di pregiudizi e convenzioni? Trasudano bile; il rancore è il loro ossigeno; la malignità pettegola il loro cibo. La distorsione quindi (cioè l’aberrazione) non può che essere la regola. Il tono ambisce al resoconto, alla verità, ma l’eccesso di umore rende tutto inattendibile, conduce altrove, fa errare.

Tarati, sono circondati da una corte dei miracoli di storpi, vecchie e giovani ninfomani, depravati di vario grado, velleitari e falliti, specie quelli con ambizioni artistiche, dalle infanzie infelici, dalle vite luttuose, violenti e oggetti di violenza, ripudiati quasi tutti, in primo luogo da se stessi. E se anche ogni tanto da qualche crepa o spiraglio soffia uno spiffero elegiaco, un accenno di nostalgia e di tenerezza, resta solo come traccia fuggevole e va a depositarsi chissà dove, come un fondo di umana dolcezza che non viene negata nemmeno ai narratori più crudeli e distaccati.

 


Come a quello di Elogio dell’aberrazione, che, al pari di quasi tutti quelli dei libri di Permunian, racconta a partire da un osservatorio privilegiato, da insider, addentro a ciò che narra o nella condizione umana e professionale di accedere a notizie e informazioni personali e persino segrete, ma conservando una posizione di distanza perché non aderisce al mondo che pure osserva dall’interno: come il servo felice rispetto alla sua padrona del primo giustamente celebrato romanzo, o come il dottore che sta alla finestra da cui può osservare la piazza ma che conosce anche vita morte miracoli deficienze e vizi dei suoi pazienti e dei loro famigliari, che gli spiattellano le loro confidenze più segrete in Camminando nell’aria della sera, (Rizzoli 2001 e ora in Costellazioni del crepuscolo, il Saggiatore, 2017, assieme a Cronaca di un servo felice), o lo pseudo Permunian che bazzica la stazione ferroviaria e conosce tutta la fauna che vi passa o vive in Il gabinetto del dottor Kafka (Nutrimenti 2013)… In questo Elogio dell’aberrazione, è l’“autorevole vicecapo” della cronaca locale (vero e proprio ossimoro ironico), che riceve lettere e confidenze dei lettori che narrano le proprie magagne e perversioni, insoddisfazioni e voglie di rivalsa di uomini e donne che si sentono “umiliati e offesi”, come lo sono i genitori del narratore e tanti personaggi maggiori e minori, che non trovano altro modo per vendicare (o alleviare) le proprie offese che riversandole su altri, di condizione inferiore a quella già bassa che è la loro, o come il prete pedofilo a sua volta vittima da bambino di un altro prete pedofilo in una catena che sembra il legante, con altri orrori, di quella chiesa cattolica che il protagonista, come altri protagonisti permunianiani, odia più di ogni altra cosa, anche dell’odiatissima ghenga di miserrimi tacchini ripieni di boria e ambizioni, e di vuoto  e insulsaggine e servilismo, che costituiscono la società letteraria e il suo contorno culturale e mediatico, “piccolo clan intrinsecamente incestuoso e onanista” che nella sua rincorsa alla visibilità lascia ai margini derelitti che non sanno tenere il passo e finiscono a dormire in macchina e a fare discorsi alle cerimonie di consegna del “diploma di Benemerito della Rotaia” in qualche stazione grande o piccola.

La polemica contro il sottobosco (ma anche il bosco e i forestali) letterario e editoriale e intellettuale è un’altra delle costanti di Permunian. Non ce la fa a lasciarlo al suo liquame, a non farne oggetto del disprezzo più vario nei toni e nei modi, andando a scovarne le vergogne in ogni piega e sfumatura: è una ferita che non si rimargina, un rancore non tanto con le persone ma per ciò che diventa nelle loro mani la cosa che a lui preme di più, la letteratura, il segno dell’importanza decisiva che vi attribuisce e di una delusione che torna a tormentare ogni volta che si volge a guardare da quelle parti, dove non può evitare di volgersi perché lì è la sua vita, e che non vuole spegnersi e morire. Come un’offesa personale non lavabile, come una ferita che continua a suppurare, dolorosa e straziante: ed è per questo che a volte il discorso diventa anche sgradevole, perché di fronte a ciò che si ritiene vero, la vera gentilezza non sono il silenzio o l’eufemismo, ma dire senza reticenze come si pensa che le cose stanno.

 

Si discostano, tutti, da una norma che non c’è e vanno alla ricerca di qualcosa che ne faccia le veci, che la surroghi in quanto negata, magari da loro stessi nell’impossibilità di raggiungerla o perché gli è stata indicata nella sua idealità e poi sottratta, o perché hanno scoperto che è fasulla, malata, e cercano di adattarsi in questa erranza, di farla propria e, per quanto possibile, di goderne, sfoggiandola anche come un vanto o addirittura come lo stigma della propria identità, in assenza d’altro. Poi si accorgono che tutti sono “via”, tutti espulsi, tutti lontani, tutti mostri.

Allora diventano spietati, cioè troppo immersi nel loro errore, nel loro dolore, per avere pietà gli uni degli altri, che diventano solo occasioni e strumenti del loro bisogno di sollievo, fisico oltre che mentale (non a caso Permunian ha intitolato La casa del sollievo mentale, Nutrimenti, 2011, uno dei miei libri preferiti) e il narratore spesso non fa eccezione. È solo quando il dolore lo raggiunge e, anche se non concede tregua, viene accettato come memoria, come nostalgia che arriva a ondate lancinanti, che anche gli altri, e il mondo, diventano sostenibili, e persino apprezzabili. È il fondo di lirismo di Permunian, sempre pronto a spuntare e a diffondere il suo profumo nei momenti più inattesi. È il senso della perdita originaria, dell’abbandono delle origini a cui periodicamente narratore e personaggi, come memoria compulsiva o realmente, si trovano costretti a ritornare, a cercare di riattingerle, riuscendoci solo in parte, in modo magari profondo ma effimero. La terra natale sconvolta dall’alluvione; i compagni dell’infanzia, i difetti di costituzione per il piccolo e brutto narratore di Elogio, il manicomio, i resti nauseabondi e incancellabili della repubblica di Salò sulle sponde gardesane, le doti senza sbocco (il professore che lo vede come un futuro Calvino) o con fioriture momentanee che sono sempre foriere del peggio… L’ironia, la perfidia, la ferocia, il grottesco, ne sono la naturale conseguenza: non una scelta di maniera o l’effetto di una volontà provocatoria, ma la loro forma espressiva momentanea e insieme necessaria, l’emanazione (la suppurazione) spontanea; e con essi la loro compagna inseparabile, la malinconia, la tristezza che affiora invincibile, la sua eterna palude.

 



 

Appunti sparsi

 

Come il protagonista-narratore del suo romanzo d’esordio, che non dico essere il suo capolavoro per evitare il tic di una certa critica che in tal modo implicitamente riduce il valore della produzione successiva di tutti gli esordienti che hanno avuto il torto di partire con un libro perfetto o quasi, anche Permunian è un servo felice, ma della scrittura, per quando ossessiva, angosciosa e torturante possa essere: perché è solo per raggiungere la felicità, o quella specifica, inarrivabile felicità che si può trovare o perlomeno intravedere nell’opera, che si scrive, andando incontro, e anzi chiamando a sé demoni e ossessioni e rabbie e infelicità e delusioni e memorie nere e gli anni andati, e tutti i cari con loro, nella solitudine assoluta che il loro assembramento assicura, e protegge, e insieme nella sola consolante compagnia che essi, lacerando, garantiscono. Nessuno entrerebbe in questa foresta, se in mezzo non ci fosse l’albero da abbattere che promette di dissolvere i demoni, come Rinaldo il noce nella selva di Saron (Gerusalemme liberata, canto XVIII).

 

Non per sfuggire o esorcizzare, ma per corteggiare e sedurre i fantasmi nelle forme di corteggiamento che essi agognano, per convocarli, perché la loro presenza perseguita, avvelena e insieme esalta la vita e la addolcisce.


Ossessionati dal chiacchiericcio intellettuale e letterario, dai riti e dai maneggi e dalle miserie dell’industria culturale, dalla pochezza artistica della letteratura e umana dei letterati, ecc., ma perché se ne interessano, perché le seguono? Appurato che è come l’industria degli elettrodomestici o del turismo o degli insaccati, perché non riservargli la stessa indifferenza e occuparsi solo di ciò che vale? Solo che, nel maremagnum come fare a distinguere senza provare a informarsi? Ma se l’informazione è bacata e parte dello stesso meccanismo ecc. ci si ritrova nel circolo vizioso.

E comunque tutto schifo non fa, pare, se i nomi che vengono citati con amore o con onore sono poi così numerosi in tutti i libri, di ogni tipo (narratori, poeti, giornalisti, fotografi): ci sono abbastanza isole, nella merda, per abitarle ignorandola.