29/04/25

HOUELLEBECQ E LOVECRAFT


 

 

Sembra paradossale immaginare un Houellebecq ingenuo, come lui vorrebbe farci credere nel suo ultimo libretto (Qualche mese della mia vita, trad. di Milena Zemira Ciccimarra, La nave di Teseo, 2023) dove racconta di come sarebbe stato raggirato nella realizzazione di alcuni filmati porno. Già dal primo romanzo la sua prosa è quella di uno scrittore disincantato, che nelle cose vede solo il peggio, o quantomeno la loro deriva entropica. Nato disilluso, si direbbe.

Eppure leggendo le sue prime poesie, in cui enumera considerazioni apodittiche sulla vita e su come affrontarla per sopravvivere, uno si chiede come è possibile scrivere certe cose con quel tono perentorio, enunciando senza tentennamenti “verità” e regole di condotta che il normale adulto di fine XX secolo avrebbe qualche imbarazzo solo a pensare. Ma non dirà sul serio?, vien da chiedersi al lettore, forse anche condizionato dalla lettura delle opere successive. In ogni caso restano un indicatore di una personalità che, individuato un suo tono e delle certezze, segue imperterrita la strada scelta.

Un dubbio del genere non può sorgere leggendo H.P. Lovecraft. Contro il mondo, contro la vita, il primo libro scritto da un Houellebecq poco più che trentenne (è nato nel 1956) e pubblicato nel 1991, tradotto da Sergio Claudio Perroni per Bompiani nel 2001 (ora ripreso in ebook presso La nave di Teseo, 2024) e da poco riproposto da Wudz con una prefazione di Stephen King in nuova traduzione di Damiano Scaramella, che si districa bene nell’arduo compito di distinguere la propria dalla precedente, di un libro dalla scrittura limpida, sintatticamente piana e priva di ambiguità e ricercatezze stilistiche, così che spesso è impossibile tradurre in modo diverso senza distorcere e indebolire l’originale. Pertanto citerò da entrambi in modo indifferente.

Non ci sono dubbi sull’intonazione del libro e sulle prese di posizione che vi compaiono. Il rifiuto del mondo e della vita indicato dal sottotitolo è totale. Houellebecq lo riferisce a Lovecraft, ma vale anche per lui. Sembra infatti che l’adesione alle idee sull’esistenza e sull’universo dello scrittore di Providence sia completa (a parte le posizioni politiche e il razzismo, peraltro sminuite da Houellebecq non quanto alla loro gravità, ma relativamente all’impatto sull’invenzione fantastica) e che siano riportate solo le sue teorie e opinioni, con pochissime intercapedini in cui si possa insinuare un distacco critico, uno spazio per respirare. Ma non è questo che importa: importa che mentre le espone, senza accorgersene (senza accorgersene?) Houellebecq parla di sé, enuncia alcuni assiomi e convinzioni che saranno capitali nella sua opera a venire, almeno nelle prime, per quanto a questo punto (fine anni ’80-primissimi ’90) di scriverle forse ancora non immagina neppure. Al momento è solo un poeta. Per questo quanto dice è ingenuo, in un certo senso: non c’è ancora il sottofondo di un’opera che sarebbe da illustrare o difendere; quindi più diretto, più puro, meno mascherato o giocato sul filo che divide e unisce verità e finzione, è quello che Houellebecq scrive, e più rivelatore di alcuni assunti di base della sua personalità di scrittore che ha già operato scelte fondamentali.

Ma quando pubblica il libretto su Lovecraft, Houellebecq è solo un giovane autore di poesie perlopiù inedite e note solo ai pochi aspiranti poeti con cui si confrontava regolarmente in una biblioteca di quartiere, che sta per pubblicare la sua prima raccolta, una plaquette intitolata La porsuite du bonheur e i brevi testi tra il saggistico e il poetico di Rester vivant. méthode (entrambi presso La différence, 1991), confluiti in Italia nel primo volume di La vita è rara. Tutte le poesie, traduzione di Fabrizio Ascari, Alba Donati e Anna Maria Lorusso, Bompiani, 2016), che escono quasi in contemporanea con questo saggio sorprendente. Sorprendente sia per la scelta dell’argomento: uno scrittore giudicato, a quei tempi (e da molti anche oggi) di serie B, se non C; sia per la disinvolta, per non dire provocatoria, tonalità del discorso e la sicurezza espressiva e di giudizio che prefigurano quelle dei romanzi che lo renderanno universalmente noto, ammirato e denigrato in pari misura. Questo ci permette di leggerlo, oltre che per ciò che dice dello scrittore di Providence, anche come una specie di autoritratto indiretto, e nemmeno tanto criptato, nonché di precoce dichiarazione di poetica e di sintetica visione del mondo, che si può facilmente integrare con quanto dirà anni dopo nel libretto su Schopenhauer (In presenza di Schopenhauer, La nave di Teseo, 2017), la cui lettura decisiva, che gli ha aperto gli occhi e ha offerto basi teoriche a sensazioni e emozioni che fino a quel momento erano rimaste se non embrionali, inespresse o avvertite come informulabili, è però di quegli stessi anni formativi.

L’incipit è già puro Houellebecq: “La vita è dolorosa e deludente” e l’umanità ispira al massimo “una lieve curiosità” accompagnata da un “leggero senso di nausea”. Una buona ragione, tra l’altro, per non scrivere romanzi realistici. “L’età adulta è un inferno” e dati i valori su cui si fonda (“Principio di realtà, principio di piacere, competitività, sfida costante, sesso e investimenti di capitale…”: quelli del capitalismo in poche parole) c’è ben poco da divertirsi. Palliativi, tutt’al più, che spesso non fanno che peggiorare le cose e creare insoddisfazione, frustrazione e angoscia. “L’universo non è altro che una accidentale combinazione di particelle elementari (corsivo mio). Una figura di transizione verso il caos, che finirà per inghiottirlo. La razza umana scomparirà.” Chi parla? HPL o MH?

Sono questi i presupposti dell’attrazione che esercita HPL: il suo materialismo radicale, il rigetto della benché minima illusione e consolazione. Un pessimismo assoluto, certo, ma “tonificante”, giacché “la delusione non è una brutta cosa” sostiene Houellebecq in un’intervista, con la sua tipica procedura di prendere un dato o un’asserzione o un giudizio che paiono assodati, indiscutibili nella loro evidenza, e poi capovolgerli, in genere non in modo piatto o automatico, ma leggermente di lato, o di sbieco, o, come qui, attutito con una litote.

Queste certezze consentono a Lovecraft di vedere, e evocare, l’orrore “oggettivo” di questo mondo, e dei mondi che esso cela o che gli scorrono accanto pronti a irrompervi, come già è accaduto in epoche remote i cui residui sopravvivono ancora al di là di fragili soglie che lasciano trasparire segnali perturbanti e che basta poco a infrangere. Un “cosmo disperato [che] ci appartiene in tutti i sensi”, in cui dominano, per dirlo con parole di Schopenhauer, “oppressione, privazione, miseria e paura, grida e urla”. Un cosmo dove regnano divinità mostruose, figlie del caos e sue portatrici, che formano un pantheon rivelato da libri proibiti e introvabili, che con i loro miti hanno dato vita, secondo Houellebecq, a un vero e proprio epos, ampliato da imitatori e seguaci: “non è stato registrato nulla di simile dai tempi di Omero e delle chansons de geste medievali. Abbiamo a che fare, dobbiamo umilmente ammetterlo, con un cosiddetto “mito fondatore”.” “Probabilmente, aggiunge MH, una volta dissipate le nebbie morbose delle avanguardie molli, il XX secolo rimarrà l’epoca d’oro della letteratura epica e fantastica”, e il rifiorire odierno di opere letterarie, cinematografiche e televisive appartenenti generi che ormai si è convenuto adunare sotto l’insegna del weird starebbe a confermarlo.

Da un’opera all’altra si è venuto formando un universo di storie in espansione creato da una immaginazione si direbbe sconfinata, come lo sono l’orrore e la paura che gli soggiacciono. Persino quando Lovecraft è imperdonabile, per esempio con il suo razzismo, la sua fantasia si scatena e produce pagine memorabili. Perché, e qui è MH a parlare, se “il disprezzo non è un sentimento molto produttivo in letteratura”, l’odio e il rancore lo sono, invece; e così la cattiveria, la malignità, il cinismo: tutto ciò che deriva da uno sguardo negativo, non pacificato, che mette in discussione l’apparente naturalezza del mondo, lo rivolta e lo mette in moto. L’esasperazione dell'odio contro tutto ciò che appare meticciato e impuro si ribalta in fobia, provocando “quello stato di trance poetica in cui trascende se stesso nel ritmico e folle battere di frasi maledette … con un orrendo cataclismatico bagliore”. “La sua visione, alimentata dall’odio, assurge alla paranoia vera e propria, e ancora più in alto, fino a quel totale squilibrio dello sguardo” che sfocerà nei “deliri verbali dei “grandi testi”.” A coloro che sostengono che, al pari di questi deliri, anche lo stile è eccessivo, incontrollato e alquanto rivedibile, MH ribatte che “HPL non aderisce in alcun modo alla concezione elegante, sottile, minimalista e discreta che in genere scatena l’entusiasmo dei critici” e che se il suo stile “è pietoso, possiamo allegramente concludere che lo stile non ha, in letteratura, la minima importanza. E passare ad altro”. Sono accuse che molti critici avrebbero mosso più tardi anche allo stile di MH, che qui sembra presagirle e rispondervi in anticipo.

La vaghezza, non impressionista né psicologica, è voluta e positivamente esasperata nonostante, o proprio perché, ottenuta mediante l’uso di un lessico attinto dalle più disparate discipline scientifiche con rigore e precisione (“più gli avvenimenti e le entità descritte saranno mostruose e inconcepibili, più la descrizione dovrà essere precisa e clinica. Per scorticare l’innominabile occorre un bisturi”), perché, al di là di ciò che viene alluso, più che detto, o di descrizioni dettagliatissime ma che poi è praticamente impossibile visualizzare, quello che conta “è mettere il lettore in uno stato di fascinazione. Gli unici sentimenti umani di cui Lovecraft vuole sentir parlare sono la meraviglia e lo spavento, e infatti egli costruisce il proprio universo su di essi e solo su di essi. È chiaramente un limite, aggiunge MH, però consapevole e deliberato. E non esiste creazione autentica senza un minimo di accecamento volontario.”

“L’universo è una cosa francamente disgustosa” e l’unica reazione ragionevole nei suoi confronti è la paura. Ed è questo che provano e affrontano i protagonisti, “proiezioni dell’autore” e delle sue fobie, ma solo nel senso di un’“amplificazione”, che dichiara inutile “qualsiasi psicologia differenziata” e opta per una scelta di “deliberata piattezza” finalizzata a “trasformare le percezioni ordinarie della vita in una fonte illimitata di incubi”: che è poi “l’audace scommessa di tutti gli autori di narrativa fantastica”, che si tradurrà da parte di Houellebecq scrittore nell’adozione di uno sguardo diretto a individuare di ogni cosa il versante negativo, sconfortante, farsesco e repellente.

E a volte appariva tale, eccetto a chi lo conosceva che invece lo adorava, anche l’“atteggiamento allo stesso tempo altezzoso e masochista, ferocemente anti-commerciale” di HPL, che “faceva di tutto per risultare sgradito” senza fare nessuna concessione, tanto da giocare si direbbe volontariamente “contro se stesso”. Atteggiamento con molte affinità con quello che ha sempre caratterizzato anche la figura pubblica di MH, il quale tuttavia ha assimilato benissimo la strategia, adattandola alle nuove regole della società mediatica, e così trasformandola, da parte sua, in una carta a favore di se stesso, con il risultato di attrarre su di sé una fortissima attenzione che, stanti appunto i tempi mutati, ha diviso in sensi opposti le simpatie e il giudizio dei lettori, non sempre a vantaggio di un approccio spassionato alle sue opere, che invece, come quelle di HPL, lo meritano a prescindere. Se Lovecraft non ha stipulato nessun compromesso con la vita “ridotta al minimo, da cui ogni forza vitale è stata drenata verso la letteratura e il sogno. Una vita esemplare” per immergersi senza residui nel suo mondo immaginario, si può dubitare che lo scrittore francese abbia seguito questo modello, anche perché, se lo “sporco mestiere … del romanziere” lo porta a trattare “la vita in generale”, con essa egli “si ritrova necessariamente compromesso”. Bisogna capirlo. Non può essere davvero contro il mondo e contro la vita. E con questo il primo passo verso l’autoassoluzione è compiuto. 

 


 

 

 

 

09/03/25

David LaChapelle e Beat Streuli (Arles 1998)



Alla Chapelle du Méjan, personali di David LaChapelle e Beat Streuli. Grande contrasto, contrapposizione ma anche, in un certo modo, complementarità.

LaChapelle ha ritratto con programmatico irrealismo, ironia, senso del paradosso e indefessa ricerca di sorprendere e divertire (oltre che divertirsi), stucchevole alla lunga, solo “bella gente” (attrici, cantanti, artisti e paperoni vari), vestita e svestita benissimo, tra scenografie sempre molto elaborate e debordanti di oggetti sfiziosi e improbabili, ripresa da angolature barocche, da torcicollo, in spazi distorti e con colori innaturali, elettronici, squillanti, eccessivi, sempre molto, molto glamour, sempre perfettamente a puntino, senza perdere un colpo, attento prima di tutto a evitare di scivolare sotto le righe (oh, very nice!).

 


 

Streuli, invece, ha fotografato per le strade di Marsiglia praticamente tutti quelli che passavano, cioè solo gente comune (e chi altro vuoi che se ne vada in giro per le strade di Marsiglia?) e ne ha tratto diapositive che qui vengono proiettate su tre grandi schemi adiacenti, all’incirca di 4 metri di altezza per 6 ciascuno, illuminati in sequenze e con ritmi all’apparenza irregolari, così che le immagini possono essere una o due o tre contemporaneamente, spesso diverse, o uguali per i singoli soggetti o per i gruppi ritratti ma con piccole variazioni nelle posture o nell’inclinazione dei volti, raramente uguali in tutto e per tutto su tutti e tre gli schermi o sovrapposte sullo stesso schermo in dissolvenze che sembrano creare movimento o trasformare un volto nell’altro, sostituite con cadenze variabili ma sempre lasciando il tempo di guardare con sufficiente attenzione: gente comune, dicevo, comunemente vestita (con maglioncini, tute, giacche, cappottini, tailleurs, magliette e pantaloni di varia foggia per lo più da grandi magazzini o mercati rionali; con borse e borsoni, tracolle, zainetti, caschi, foulard, chador, berretti, cappelli sportivi con o senza visiera, portati dritti o di traverso o all’indietro; con o senza occhiali, anelli, trucco, tatuaggi e piercing vari; calzati di scarpe con tacchi alti e bassi di ogni formato, mocassini, polacchine, scarponcini, sneakers, sandali, stivaletti e stivali in similpelle o in tela, verniciati o grezzi, lisci o a lacci intrecciati, e una miriade di calzature di lontane origini sportive, di semplice tela, da basket o che sembrano piccole astronavi, con lucine nelle suole, oblò, ammortizzatori per il lancio e l’atterraggio...), ripresa ora a figura intera ora a mezzo busto, più spesso in primi e primissimi piani; sola, con amici, famigliari, colleghi, compagni e sodali, o semplicemente accomunata dallo spazio urbano, dall’istante; in compagnia dell’auto, della bici, della moto o del furgoncino; casalinghe, lavoratori, pensionati, studenti, turisti, sfaccendati: gente di ogni provenienza e condizione (bassa o medio-bassa perlopiù) e razza, ma senza che il tormentone multietnico sia cercato o avvertito; con espressioni, posture, smorfie (poche e solo accennate), sguardi e gesti mai vistosi, “naturali”, di chi si sta facendo i fatti suoi, o sta lavorando, facendo la spesa o cercando qualcosa, o anche niente, eppure sempre intensi, individuati, a ciascuno il suo e solo il suo, e tutta, sempre, gente bella, proprio per questo.

Streuli, invece, ha fotografato per le strade di Marsiglia praticamente tutti quelli che passavano, cioè solo gente comune (e chi altro vuoi che se ne vada in giro per le strade di Marsiglia?) e ne ha tratto diapositive che qui vengono proiettate su tre grandi schemi adiacenti, all’incirca di 4 metri di altezza per 6 ciascuno, illuminati in sequenze e con ritmi all’apparenza irregolari, così che le immagini possono essere una o due o tre contemporaneamente, spesso diverse, o uguali per i singoli soggetti o per i gruppi ritratti ma con piccole variazioni nelle posture o nell’inclinazione dei volti, raramente uguali in tutto e per tutto su tutti e tre gli schermi o sovrapposte sullo stesso schermo in dissolvenze che sembrano creare movimento o trasformare un volto nell’altro, sostituite con cadenze variabili ma sempre lasciando il tempo di guardare con sufficiente attenzione: gente comune, dicevo, comunemente vestita (con maglioncini, tute, giacche, cappottini, tailleurs, magliette e pantaloni di varia foggia per lo più da grandi magazzini o mercati rionali; con borse e borsoni, tracolle, zainetti, caschi, foulard, chador, berretti, cappelli sportivi con o senza visiera, portati dritti o di traverso o all’indietro; con o senza occhiali, anelli, trucco, tatuaggi e piercing vari; calzati di scarpe con tacchi alti e bassi di ogni formato, mocassini, polacchine, scarponcini, sneakers, sandali, stivaletti e stivali in similpelle o in tela, verniciati o grezzi, lisci o a lacci intrecciati, e una miriade di calzature di lontane origini sportive, di semplice tela, da basket o che sembrano piccole astronavi, con lucine nelle suole, oblò, ammortizzatori per il lancio e l’atterraggio...), ripresa ora a figura intera ora a mezzo busto, più spesso in primi e primissimi piani; sola, con amici, famigliari, colleghi, compagni e sodali, o semplicemente accomunata dallo spazio urbano, dall’istante; in compagnia dell’auto, della bici, della moto o del furgoncino; casalinghe, lavoratori, pensionati, studenti, turisti, sfaccendati: gente di ogni provenienza e condizione (bassa o medio-bassa perlopiù) e razza, ma senza che il tormentone multietnico sia cercato o avvertito; con espressioni, posture, smorfie (poche e solo accennate), sguardi e gesti mai vistosi, “naturali”, di chi si sta facendo i fatti suoi, o sta lavorando, facendo la spesa o cercando qualcosa, o anche niente, eppure sempre intensi, individuati, a ciascuno il suo e solo il suo, e tutta, sempre, gente bella, proprio per questo.

Ero solo nella sala, seduto su una sedia di plastica dietro i proiettori. Me ne sono rimasto lì una mezz’oretta a guardare e basta, pacifico, finché mi è venuto l’impulso di alzarmi e di mettermi a camminare in mezzo ai fasci di luce emanati dai proiettori, così, senza scopo, come se sperassi, però, di scoprire anche la mia immagine prendere forma sugli schermi come una di quelle che vedevo, di vedere la mia faccia confondersi con esse o per verificare anch’io com’ero in quel momento, tra tanta grazia, forse con addosso un po’ di grazia anch’io, diretta o riflessa poco importa; ma naturalmente sugli schermi, c’era solo la mia ombra, anche se talvolta duplice o triplice.

 

 

23/02/25

Abbandonarsi (abbozzo 11-6-24)



(Premessa: era stanco e teso ecc., lo è sempre più spesso, e allora gli è presa una voglia irresistibile di lasciar perdere, di rinunciare – a cosa poi? – e lasciarsi andare, abbandonarsi. Poi ha pensato:  )

 

Abbandonarsi non è poi così difficile. È come arrendersi: una tentazione sempre a portata di mano. Anche solo pensarci, a volte. È un piccolo sollievo. Una soddisfazione. Placida, molle, in genere, solo a volte drammatica, quasi mai davvero disperata. Sentirsi sicuro, compreso a priori, non giudicato, accolto senza dover fare niente per meritarlo. Poggiare la testa su una spalla, nel grembo materno. In un grembo qualunque. E stare lì per tutto il tempo che si vuole, senza dover chiedere né ringraziare. Senza pretendere, conquistare, combattere. Solo perché così è naturale, spontaneo, e cioè, almeno in questo caso, buono e giusto.
Lo chiamano così, ma, per quando gradevole, necessario a volte, non è un vero abbandono. Il vero abbandono è invece quello che sopraggiunge dopo avere opposto ogni possibile resistenza, come se ad attenderci, raggiunto, ci fosse una tortura. È quando si capiscono tutta la falsità (e la facilità: è lo stesso) che si incarna in ogni cosa o atto a cui si decide di resistere, e che la resistenza stessa rivela e denuncia come inammissibile. Quando finalmente si rinuncia a se stessi, e quindi a ogni compiaciuta, in fondo miserabile, soddisfazione. (Non fossimo uomini.  Miserabili, appunto).
È quello che capiscono i condannati e da ultimo lo stesso ufficiale addetto alla macchina in “Nella colonia penale”, man mano che l’esecuzione procede, che non a caso consiste nella scrittura. Sul suo processo. Che rivela mentre uccide. Che sevizia, dilania e dà pace. Che fa affiorare il ricordo anche di qualcosa che nemmeno si sa di aver commesso, o solo fatto (è lo stesso), e dimenticato, e dona la sua cancellazione, l’oblio.

Quando non è più espressione, volontà di dire e fare qualcosa. Quando non sei tu a volere, ma ti annulli, scompari, in ciò che è detto e fatto.

 

Sembra qualcosa di eroico: una lotta, una serie di dolorose vittorie verso la pace finale, l’apoteosi. Un risultato che probabilmente nemmeno si saprà di aver raggiunto. Una coppa da cui si berrà.
Ma che senso ha questa negazione? Questo oltrepassamento forse senza fine? Perché ricercarlo, quando tutto congiura, e alletta, affinché ce ne si distolga (lo si abbandoni)? Cosa si cerca? Cosa si spera di ottenere? Ma ricercare, e cercare di ottenere, non è già precludersi di raggiungere? Non è già interrompere il processo, affannarsi per vincerlo e di fatto soccombervi? Negarlo e abbandonarlo senza abbandono?
Se poi uno non ha nessuna fede in qualcosa di superiore, fosse solo (solo!) la verità, che senso ha? È forse l’ultima possibilità per chi non ha appunto nessuna fede? Per chi sa che c’è “infinita speranza, solo non per noi”?
È una forma di suicidio in vita? Un’esperienza della morte per chi non solo non rinuncia a vivere ma pensa (finge di credere) che essa in questo modo raggiunga il colmo? Che solo attraverso la sua negazione trovi la propria completezza (il proprio compimento)? Che solo lasciandosi alle spalle (e con quanta fatica!) ogni volontà e ricerca di senso, che è sempre e comunque parziale perché è nella parzialità e differenza che il senso si dà, si possa attingere un qualsiasi senso totale e definitivo?
Una specie di trascendenza immanente? Di immortalità al centro, al colmo, della mortalità?
Tutte cose che fanno paura. Tanto più che si sospetta sempre (si sa), che sono solo parole, pie illusioni. E quindi un’altra resistenza da opporre, un altro abbandono a cui non inchinarsi, un’altra scusa per distogliersi, per rinunciare e accontentarsi dei piccoli piaceri, e anche dei mediocri godimenti, della soddisfazione del dolce abbandono.
Ma non è cercare la grande soddisfazione, il grande abbandono, il miraggio del grande senso a muoverci, a indurre a non cedere, a far sentire ogni rallentamento e deviazione come la massima debolezza, una colpa, il peggior tradimento (verso chi?): è che non se ne può fare a meno. Che c’è una specie di dovere, di obbligo (verso chi? verso se stessi? il vero sé?, ma per favore!), una forza irresistibile che non sopraggiunge su (in) chi la prova, non lo investe da sopra, e nemmeno da dentro, ma è chi la prova; che ad essa, allora, non può sottrarsi, a meno di morire. Di essere davvero morto.

[…]


Sei bellissimo



Sono uscito dalla scuola per fumare. Seduto sulla panchina di fronte all’ingresso, al fresco sotto il vecchio ippocastano, mi metto a leggere. Dalla porta esce, senza che io me ne accorga, una (anziana) collega che, quando è ormai quasi fuori dal mio campo visivo, vicino al cancello, si ferma e mi dice: “Vorrei farti una foto”.

“Perché?”, chiedo.

“Sei bellissimo”, mi risponde.

“Capita, quando non si fa niente per esserlo”, replico, una volta tanto non per fare una battuta, ma come forma di pudore.

“Quando uno lo è dentro, o è felice di ciò che sta facendo, non si può fare a meno di notarlo. Sei proprio bellissimo”, conclude lei. E se ne va, con la sua faccia scavata, tutta tirata, ma buona.

Spengo la sigaretta, alzo gli occhi verso la chioma dell’ippocastano, che l’anno scorso a giugno era già tutta leopardata, bruciata da una malattia che ora sembra superata, tiro un lungo respiro e prendo la biro dal taschino. Mentre scrivo mi viene in mente che suo marito sta lottando da mesi contro un tumore e che mio suocero, a cui voglio bene, ne è stato colpito un mese fa, o poco più, e un altro mese gli resta, o anche meno. Il tenue compiacimento di cui avevo beneficiato, innocente perché non richiesto, bello perché gratuito, se ne è così andato. Resta un’altrettanto tenue tristezza, che, invece di trasformarsi in angoscia, si scioglie pian piano, restando come un retrogusto in ciò che riprendo a fare. Così sia.

 


17/02/25

Fuori tempo massimo


E’ fatto male e non gli sta bene, dice.
Forse non è colpa sua, ma certo non lo è nemmeno degli altri. E infatti lui non li incolpa. Non si accetta, tutto qui.
E perché mai dovrebbe farlo? Forse che accettandosi sarebbe fatto meglio? No, darebbe solo il suo assenso a qualcosa che è fatto male, e questo sarebbe un male ulteriore.
Forse che gli altri sono fatti meglio, gli chiedo?
E’ poco probabile, risponde, e comunque non sono fatti suoi e non cambia la sua situazione.
Solo gli stupidi se la prendono con gli altri, e lui non lo è fino a questo punto. Se lo fosse, forse le cose non si dice che andrebbero meglio, ma certo lui si accorgerebbe di meno che vanno male. E invece no, non ha nemmeno questa magra consolazione. Un vero peccato.
Ragion per cui non gli resta che prendersela solo con se stesso. Cosa che però contribuisce a renderlo ancora peggiore di quanto già non sia.
Che fare dunque? In apparenza ha due possibilità: o negare del tutto se stesso, decisione di cui è incapace per una debolezza che è parte del suo essere fatto male; o negare gli altri, azione ben più fattibile, la cui stessa facilità non è però che l’altra faccia dell’incapacità precedente, quindi l’ennesima conferma del suo essere fatto male.
Per negare gli altri basta poco: sapere che sono fatti male anche loro è più che sufficiente. Verificare che lo sono è ancora più facile: nessuna evidenza supera quella della loro imbecillità. Anche senza scomodare le loro presunte idee o il complesso delle loro azioni, una parola orecchiata, un semplice gesto, l’espressione che assumono quando credono che nessuno li noti, il poco che vogliono e il meno che li colma bastano e avanzano. L’idiozia ingravida l’aria più di qualsiasi batterio; non appena una bocca si socchiude, a cavallo del più flebile respiro ne fuoriesce una ventata capace di saturare gli spazi interstellari. Ammesso che già non lo siano.
Se fosse fatto meglio, questo dovrebbe indurlo al sorriso, come sto facendo io, dice fissandomi negli occhi, o lasciarlo indifferente (meglio): invece è fatto talmente male che prova insieme pena e insofferenza, entrambe in misura limitata però.
Non è possibile, si dice allora: alla lunga anche il troppo poco finisce per diventare troppo, e quando è troppo è troppo. Finalmente si incazza. (Passa subito, comunque.)
Davanti a me c’è solo la merdosa morte, conclude fuori tempo massimo.