20/05/25

I miei demoni oggi hanno deciso di non seguirmi

 


I miei demoni oggi hanno deciso di non seguirmi. Quando mi sono preparato per uscire mi hanno detto che preferivano restare a casa. Non ho insistito. E’ gente tranquilla ma ostinata. Facciano quel che gli pare, io esco. Più che cani infernali, sono animali da compagnia e non sempre apprezzano che io scelga di evitare i luoghi affollati e inoltrarmi lungo stradine e in boschi dove se si incontra qualcuno è come me, che finge di non vedermi e si volta dall’altra parte. A loro invece non dispiacerebbe, ogni tanto, fare conversazione con i loro simili, scambiarsi osservazioni e esperienze sui relativi padroni, chiamiamoli così, perché più che tenerli prigionieri e fargli fare quello che vogliono loro, spesso sono loro che li chiudono nelle loro segrete e li obbligano a giacere lì, in quelle celle buie e umide, loro abituati al fulgore rovente delle fiamme. Gli è stato assegnato un compito ingrato e se la devono cavare come possono, con gli scarsi strumenti a loro disposizione, sottoposti a una doppia tirannia, quella di chi li ha inviati lì, per una paga scarsa o nulla, e quella del corpo repellente e capriccioso a cui sono stati assegnati. Uno ha un bel dire che un corpo è una robetta fragile e malleabile, facile da influenzare. Bisogna stare attenti, dosare le misure, le spinte, i metodi di invasione, perché se no si creano resistenze, o, peggio, si finisce per essere sconfitti da un eccesso di vittorie. Se l’invasione infatti è totale, il soggetto perde quel minimo di controllo che garantisce la partecipazione volontaria indispensabile e il conseguente senso di colpa e i bellissimi rimorsi. Si abbandona al loro governo, che non è certo illuminato, e declina ogni responsabilità. Fate voi e non rompete il cazzo. Per lavorare bene, hanno bisogno della sua collaborazione. E’ paradossale, ma preferiscono un eccesso di resistenza a una vittoria in tutti i campi. Ogni volta che ne rompono una il lavoro prende un senso, ogni metro conquistato è una soddisfazione. Vedere come questo esserucolo lotta e poi cede, e una volta sconfitto, si dibatte tra lo zuccherino che gli è stato concesso e il veleno che lo accompagnava, è uno stimolo anche per loro. Quelli che si vantano di facili vittorie sono degli stupidi, avventizi alle prime armi. Se li stanno ad ascoltare è solo per compiaciuta compassione, o per scambiare due parole se è da tanto che sono ridotti alla mia silenziosa compagnia. Io di solito faccio finta di niente, infatti, manco li sto ad ascoltare, o altrimenti la metto sul ridere. Non c’è niente che li fa imbufalire di più. Come mi permetto? Oppure cedo come se niente fosse, distratto e pronto a dimenticare subito. Ma preferisco non cedere, è chiaro. Dimenticare è fatica. Però ogni tanto lo faccio. Devo farlo, dargli questa soddisfazione, così li metto a cuccia per po’. Sono vanitosi. Credono di essere chissà chi. E invece non sono altro che manodopera generica, strumenti in mano a chissà chi, al di là delle gerarchie di cui non vedono il vertice, né se questo vertice è a sua volta manodopera di chissà chi altro, sia pure più specializzata. Speculazioni metafisiche che non gli interessano peraltro, impegnati come sono a sfangare le incombenze quotidiane. Qualche cedimento allora me lo concedo. E poi non è il caso che me la tiri troppo nemmeno io. Non sono così forte da non sentire pressioni e da superare ogni ostacolo. Mi barcameno. Sinceramente non do grande importanza alle proposte che mi sottopongono, ma alcune talvolta sono piacevoli, altre mi prendono di sorpresa e mi accorgo di averle seguite solo a cose fatte. Lì un po’ mi dispiace, mi pento, mi faccio qualche rimprovero. Ma in genere manco li sento. Però me li porto appresso abbastanza volentieri, in linea di massima. Se non mi vogliono seguire, peggio per loro. E che diavolo!, esco da solo.

 


1) Signorelli, Storie  dell'Anticristo (dett.

2) Rutilio Manetti, Tentazioni di Sant'Antonio Abate

 

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02/05/25

L'acqua alla lettera

Federico De Leonardis

a) Il mio amico Federico mi chiede di scrivere un racconto sull’acqua

Non mi piacciono le cose che, anche prese alla lettera, sono già metafore. Tanto più che, in genere, sono quelle di cui è impossibile fare a meno. E io non sono mai riuscito ad accettare fino in fondo che di qualcosa sia impossibile fare a meno. Ma ovviamente, poiché di farne a meno è impossibile anche a me, ne sono attratto nella stessa misura in cui ne diffido. Ne diffido non solo perché dipendo da esse, ma anche perché mi sfidano su un terreno troppo vasto, che non posso controllare, dove rischio di perdermi ancora prima di riuscire a incontrarle. E mi attraggono per lo stesso motivo. La loro forza sta nel fatto che, quando credi di averle trovate, ti sfuggono da tutte le parti, come acqua dalle mani, ogni volta che cerchi di afferrarle. E del resto anche afferrarne un lembo, accontentarsi di coglierne un aspetto, oltre che insoddisfacente, è ancora cedere al loro potere, restarne prigioniero, esserne ostaggio, nonostante che spesso quanto ci è concesso non si riduca che a questo. Ma è appunto questo che mi fa imbestialire. L’onnipotenza o niente (mi dico consumando l’obolo che mi viene distrattamente gettato tra i piedi). E intanto il nodo di diffidenza e attrazione si stringe sempre di più e loro si stagliano sempre più gigantesche davanti a me. Beffarde. Ben mi sta.

Ne diffido e mi attraggono perché mi fanno paura. Ho paura della paura, ma a volte mi piace. Così a volte distolgo lo sguardo, fuggo; altre invece resto medusato, incapace di fare alcunché ma con tutti i sensi acuiti, con la testa percorsa da innumerevoli piccole scariche che schizzano incontrollabili in ogni direzione. In questi casi prima cerco di prestare attenzione a tutte, poi, chissà perché, qualcuna mi resta incollata addosso o mi cattura nel suo gorgo, e così, senza accorgermene, comincio a muovermi e quando me ne accorgo sono già abbastanza avanti da non sapere più come, e a volte da non volere, tornare indietro. Allora non mi resta che lasciarmi trascinare da esse, attraversarle e esserne attraversato, in una specie di panico attivo. Sono tutto meno che intrepido: lo faccio perché devo farlo, perché senza di esse non si vive (non si pensa, non si parla). Queste sono le cosiddette cose elementari.

Più una cosa è elementare, meno è possibile prenderla alla lettera. Meno puoi prendere alla lettera una cosa, più difficile diventa parlarne. Si potrebbe pensare il contrario: più immagini e connessioni una cosa suscita, più spazio hai per muoverti e più materiale a disposizione. Ma sarebbe un errore, almeno per me. Più una cosa è elementare e meno è a tua disposizione: semmai, sei tu a disposizione sua. Una cosa elementare non è un materiale. Né uno spazio libero in cui muoverti: meno sono visibili i vincoli, più forti sono e più facilmente ci si ritrova ingorgati. Lo stesso avviene con le parole.

Non considero il passato (le immagini) come un magazzino teatrale al quale attingere allegramente ciò che mi serve né le parole come altrettanti costumi da indossare, come faceva Rembrandt, per rappresentare ciò che voglio, ammesso che a Rembrandt i costumi interessassero veramente. Anche se poi si finisce per farlo comunque; ma non è una scusa. E poi io non sono Rembrandt (lo si era già capito). Piuttosto preferisco immergermi e percorrere tutte le strade, senza darlo a vedere (senza citare: allora le uso anch’io come costumi per nascondermi, o meglio come falso bersaglio per scremare i distratti, quelli il cui sguardo scorre sulle parole come l’acqua verso valle, dei quali non mi curo di catturare l’attenzione. Se capita lo stesso, tanto meglio. Da ragazzo ho catturato, a bastonate, una grossa trota rimasta imprigionata in una gora dal ritrarsi di un torrente. Forse si era addormentata), per cercare di tracciarne un’altra, se possibile. E quest’altra deve partire da me, dall’esperienza, poca o tanta che sia, che io ne ho, della quale ovviamente le immagini e le parole fanno parte.


 Serse Roma

b) Dichiaro che è impossibile. Poi lo scrivo.

A partire dalle immagini, invece, non si finisce più. Un’immagine non è niente da sola: anche una bella immagine, per quanto ci sia chi afferma di essere disposto a sacrificare parecchio per essa, se non tutto. Ma allora, non è più l’immagine che conta, è l’ossessione. Ammesso che dica il vero, e che non si inganni sulla verità di ciò che dice. Comunque, con l’acqua è impossibile persino cominciare. O si è sempre già cominciato.

L’acqua è ovunque, dal poema di Gilgamesh e dal Genesi a tutte le cosmogonie, dall’Iliade alla mia lista della spesa (acqua minerale non gasata, acqua demineralizzata per il ferro da stiro), dalle acque che si sono rotte perché io potessi nascere a quelle che rilascerò alla mia morte. Non ci sono vie preferenziali per attraversare l’acqua. A parte le correnti, i venti e il calore, cioè qualcosa che è in relazione con l’esterno, su cui però anch’essa influisce. L’acqua è ciò che attraverso senza tracciare strade e che mi attraversa lungo strade che ignoro. Mi avvolge e la avvolgo. Mi contiene e la contengo.

Io sono fatto d’acqua, ma lo so davvero solo quando ho sete e sudo. Quando ho sete bevo. E io devo bere molto, poiché soffro di coliche renali. Comunque bevo, e mi piace che l’acqua sia buona.

L’acqua che bevo deve essere pura. Cioè quasi pura. E questo “quasi” dell’acqua mi piace molto: quasi  pura perché possa berla, quasi trasparente per vederle attraverso vedendo anche lei. L’aria non la vedo, se non raramente: la sento, la respiro; l’acqua la vedo sempre. (Il mio amico A. mi dice che la trasparenza di una cosa le deriva dall’essere composta di atomi che sono al nostro occhio invisibili e perciò non si manifestano come colore ma acquistano solo un valore di brillanza.) L’acqua pura non esiste, deve essere distillata apposta. L’acqua non esiste pura: anche la più buona deve contenere dell’altro. Pura, l’acqua è dannosa, per il mio organismo quantomeno. E, se non dannosa, poco buona. Perché mi purifichi, deve essere quasi pura.

L’acqua piovana invece non è buona da bere; neanche quella del fiume lo è, se non vicino alle sorgenti. Non è buona l’acqua che scende, lo è quella che sale. Ma prima di salire deve essere scesa, deve essersi resa invisibile passando attraverso la terra, che non è buona. L’acqua filtra attraverso la terra, scende piano, paziente, finché non trova un fondo, il suo. Lì si deposita e si accumula; quando il livello è troppo cresciuto, lentamente sale verso la superficie o lentamente scivola verso un altro fondo collegato al primo: arrivata lì, è buona. Ma ci vuole tempo. È da lì che bisogna farla salire per poterla bere. Se invece sale troppo, allaga il terreno e bisogna prosciugarla.

Quando ho bevuto, l’acqua si distribuisce nel mio corpo e poi ne fuoriesce. Tutta, o quasi tutta. Perdo acqua in continuazione, di solito senza accorgermene. Evapora. Mi piacerebbe vedere il mio corpo evaporare. Qualche strumento in grado di riprendere il processo ci sarà senz’altro, ma io, faute de mieux, mi limito a immaginarlo, e poiché è estate e fa caldo, lo immagino come il calore che esce dall’asfalto, che infatti allora sembra bagnato, in lontananza, e vivo. Vedo la mia pelle ingigantita, come un’enorme distesa offuscata da queste esalazioni che fanno impercettibilmente vibrare la peluria che la ricopre, a tratti densa e in altri rada, mentre in certe pieghe scorrono rivoli d’acqua. Fiumi, boschi, campi, pianura. Quella dove abito io.

Mi accorgo di perdere acqua solo quando sudo: allora non sono invisibili esalazioni ma gocce. Anche il sudore in genere è buono. Lo dico perché sono sano, non devo faticare quindici ore al giorno in miniera e non sono disperso nel Sahara. Il sudore è buono non solo quando è prodotto dallo sforzo di un corpo che ha il vigore per compierlo, ma anche quando cerca di ripristinare la temperatura corporea d’estate o durante le febbri («Prendi un’aspirina, mettiti a letto e fai una bella sudata», mi diceva mia mamma quando ero influenzato) e perché trasmette l’odore del nostro corpo a chiunque in un modo o nell’altro vi sia interessato. Non si sa mai.

Quando sudo, o comunque mi sento sporco, mi lavo. Ma l’acqua da sola non lava. È un discreto ma blando solvente e uno sgrassante deficitario. Lavarsi può essere fastidioso (quando fa freddo, per esempio), ma in genere è piacevole, specie al mattino, appena svegli. Di solito io mi alzo allegro, e l’acqua mi fa buona compagnia. Mi piace anche farmi la barba, pelo e contropelo, con devozione, e quando le guance sono perfettamente lisce e morbide è bello sciacquarle con l’acqua fredda. Ho ricevuto il buonumore in dote alla nascita. Sono felice. Non scrivo perché la vita mi fa male (anche se una quota la versa anche a me); scrivo per aumentare la felicità, la mia in primis e eventualmente quella di qualcun altro. Non ce n’è mai abbastanza. (Il mio amico M., leggendo ieri questo passaggio, mi ha detto che devo smetterla di scrivere queste cose. Se uno dice di essere felice, insistendo come faccio io, non verrà mai creduto: cent’anni di psicanalisi saranno pur serviti a qualcosa! Si chiama denegazione, lo so. Ma io non pretendo di essere creduto quando scrivo. Se c’è una verità in ciò che uno scrive, non si esaurisce certo nella lettera. Comunque va bene: sono infelice. Molto infelice. Disperato. Così mi crederanno. Non il più disperato degli uomini. Meglio non esagerare. Se si dice a qualcuno di essere più disperato di lui, garantito che quello si offende. Allora diciamo che sono piuttosto disperato, ma un filino meno di ciascuno dei miei lettori. Così sono contenti tutti. Si scrive per questo, no?)

Mi lavo e canto, sottovoce. È la bellezza della doccia del mattino: le acque mi scorrono lungo il corpo, mi massaggiano e mi consegnano fresco a una nuova giornata nella quale, olimpicamente, non mi importa se combinerò qualcosa o il solito fico secco. E tu, Cielo, dall’alto dei mondi. Do re mi. Il bagno invece è meglio la sera, quando sono stanco, cioè quasi mai. È però la prima cosa che faccio quando prendo possesso della mia camera d’albergo dopo un viaggio. Faccio scendere l’acqua calda mentre disfo i bagagli e, quando è pronta, ci resto immerso fino a quando non mi sono abituato al nuovo luogo. E poi via! Quanto al resto, non sono un patito del bagno, neanche al mare, dove infatti di solito non vado.

Facevo invece molti bagni da ragazzo, al fiume, vicino al punto dove si incontra con uno dei due canali che lo costeggiano al mio paese. È un punto pericoloso, dove annega sempre qualcuno, come è accaduto proprio una decina di giorni fa, in modo banalissimo, a due ragazzi, due fratelli. A guardarlo così, senza pensare a niente, è un incanto. Ci vado ancora, da solo o con gli amici che vengono da fuori, a fare delle passeggiate, e tutti ne sono conquistati. C’è una pace! E invece ogni anno ci muore qualcuno, qualcuno ci annega o va ad annegare.

Una volta sono partito proprio da lì per attraversare il fiume controcorrente, nonostante fosse più rapido del solito. Nuotavo in diagonale, verso monte, per non rischiare di ritrovarmi dalle parti della diga che c’è più a valle. Poco oltre la metà del fiume, le forze hanno cominciato a mancarmi e così ho cercato di resistere meno alla corrente, pur senza assecondarla del tutto. Alla fine, stremato e vicino alla disperazione, sono riuscito ad aggrapparmi a un arbusto che sporgeva sull’acqua, ancora lontano dalla diga. Mi sono trascinato sulla sponda e sono rimasto lì, sdraiato in pendenza tra i cespugli, confuso e col batticuore, per non so quanto tempo. Con l’acqua è così.

Per tornare a riprendere le mie cose mi son dovuto fare un giro lunghissimo. Mancava ancora parecchio al tramonto, ma le nubi si stavano già preparando per il solito temporale serale. Avevo freddo. Dei miei amici, molti se n’erano già andati a casa. Mi sono rivestito in silenzio e mi sono seduto contro un albero a guardare il ponte alla mia sinistra, tranquillo adesso. Allora gli amici rimasti mi hanno chiesto cosa mi era successo. L’ho riassunto velocemente. Bel pirla, mi hanno detto, e si sono tuffati per un’ultima nuotata.

Eppure io ero convinto di aver capito qualcosa.


 

 

29/04/25

HOUELLEBECQ E LOVECRAFT


 

 

Sembra paradossale immaginare un Houellebecq ingenuo, come lui vorrebbe farci credere nel suo ultimo libretto (Qualche mese della mia vita, trad. di Milena Zemira Ciccimarra, La nave di Teseo, 2023) dove racconta di come sarebbe stato raggirato nella realizzazione di alcuni filmati porno. Già dal primo romanzo la sua prosa è quella di uno scrittore disincantato, che nelle cose vede solo il peggio, o quantomeno la loro deriva entropica. Nato disilluso, si direbbe.

Eppure leggendo le sue prime poesie, in cui enumera considerazioni apodittiche sulla vita e su come affrontarla per sopravvivere, uno si chiede come è possibile scrivere certe cose con quel tono perentorio, enunciando senza tentennamenti “verità” e regole di condotta che il normale adulto di fine XX secolo avrebbe qualche imbarazzo solo a pensare. Ma non dirà sul serio?, vien da chiedersi al lettore, forse anche condizionato dalla lettura delle opere successive. In ogni caso restano un indicatore di una personalità che, individuato un suo tono e delle certezze, segue imperterrita la strada scelta.

Un dubbio del genere non può sorgere leggendo H.P. Lovecraft. Contro il mondo, contro la vita, il primo libro scritto da un Houellebecq poco più che trentenne (è nato nel 1956) e pubblicato nel 1991, tradotto da Sergio Claudio Perroni per Bompiani nel 2001 (ora ripreso in ebook presso La nave di Teseo, 2024) e da poco riproposto da Wudz con una prefazione di Stephen King in nuova traduzione di Damiano Scaramella, che si districa bene nell’arduo compito di distinguere la propria dalla precedente, di un libro dalla scrittura limpida, sintatticamente piana e priva di ambiguità e ricercatezze stilistiche, così che spesso è impossibile tradurre in modo diverso senza distorcere e indebolire l’originale. Pertanto citerò da entrambi in modo indifferente.

Non ci sono dubbi sull’intonazione del libro e sulle prese di posizione che vi compaiono. Il rifiuto del mondo e della vita indicato dal sottotitolo è totale. Houellebecq lo riferisce a Lovecraft, ma vale anche per lui. Sembra infatti che l’adesione alle idee sull’esistenza e sull’universo dello scrittore di Providence sia completa (a parte le posizioni politiche e il razzismo, peraltro sminuite da Houellebecq non quanto alla loro gravità, ma relativamente all’impatto sull’invenzione fantastica) e che siano riportate solo le sue teorie e opinioni, con pochissime intercapedini in cui si possa insinuare un distacco critico, uno spazio per respirare. Ma non è questo che importa: importa che mentre le espone, senza accorgersene (senza accorgersene?) Houellebecq parla di sé, enuncia alcuni assiomi e convinzioni che saranno capitali nella sua opera a venire, almeno nelle prime, per quanto a questo punto (fine anni ’80-primissimi ’90) di scriverle forse ancora non immagina neppure. Al momento è solo un poeta. Per questo quanto dice è ingenuo, in un certo senso: non c’è ancora il sottofondo di un’opera che sarebbe da illustrare o difendere; quindi più diretto, più puro, meno mascherato o giocato sul filo che divide e unisce verità e finzione, è quello che Houellebecq scrive, e più rivelatore di alcuni assunti di base della sua personalità di scrittore che ha già operato scelte fondamentali.

Ma quando pubblica il libretto su Lovecraft, Houellebecq è solo un giovane autore di poesie perlopiù inedite e note solo ai pochi aspiranti poeti con cui si confrontava regolarmente in una biblioteca di quartiere, che sta per pubblicare la sua prima raccolta, una plaquette intitolata La porsuite du bonheur e i brevi testi tra il saggistico e il poetico di Rester vivant. méthode (entrambi presso La différence, 1991), confluiti in Italia nel primo volume di La vita è rara. Tutte le poesie, traduzione di Fabrizio Ascari, Alba Donati e Anna Maria Lorusso, Bompiani, 2016), che escono quasi in contemporanea con questo saggio sorprendente. Sorprendente sia per la scelta dell’argomento: uno scrittore giudicato, a quei tempi (e da molti anche oggi) di serie B, se non C; sia per la disinvolta, per non dire provocatoria, tonalità del discorso e la sicurezza espressiva e di giudizio che prefigurano quelle dei romanzi che lo renderanno universalmente noto, ammirato e denigrato in pari misura. Questo ci permette di leggerlo, oltre che per ciò che dice dello scrittore di Providence, anche come una specie di autoritratto indiretto, e nemmeno tanto criptato, nonché di precoce dichiarazione di poetica e di sintetica visione del mondo, che si può facilmente integrare con quanto dirà anni dopo nel libretto su Schopenhauer (In presenza di Schopenhauer, La nave di Teseo, 2017), la cui lettura decisiva, che gli ha aperto gli occhi e ha offerto basi teoriche a sensazioni e emozioni che fino a quel momento erano rimaste se non embrionali, inespresse o avvertite come informulabili, è però di quegli stessi anni formativi.

L’incipit è già puro Houellebecq: “La vita è dolorosa e deludente” e l’umanità ispira al massimo “una lieve curiosità” accompagnata da un “leggero senso di nausea”. Una buona ragione, tra l’altro, per non scrivere romanzi realistici. “L’età adulta è un inferno” e dati i valori su cui si fonda (“Principio di realtà, principio di piacere, competitività, sfida costante, sesso e investimenti di capitale…”: quelli del capitalismo in poche parole) c’è ben poco da divertirsi. Palliativi, tutt’al più, che spesso non fanno che peggiorare le cose e creare insoddisfazione, frustrazione e angoscia. “L’universo non è altro che una accidentale combinazione di particelle elementari (corsivo mio). Una figura di transizione verso il caos, che finirà per inghiottirlo. La razza umana scomparirà.” Chi parla? HPL o MH?

Sono questi i presupposti dell’attrazione che esercita HPL: il suo materialismo radicale, il rigetto della benché minima illusione e consolazione. Un pessimismo assoluto, certo, ma “tonificante”, giacché “la delusione non è una brutta cosa” sostiene Houellebecq in un’intervista, con la sua tipica procedura di prendere un dato o un’asserzione o un giudizio che paiono assodati, indiscutibili nella loro evidenza, e poi capovolgerli, in genere non in modo piatto o automatico, ma leggermente di lato, o di sbieco, o, come qui, attutito con una litote.

Queste certezze consentono a Lovecraft di vedere, e evocare, l’orrore “oggettivo” di questo mondo, e dei mondi che esso cela o che gli scorrono accanto pronti a irrompervi, come già è accaduto in epoche remote i cui residui sopravvivono ancora al di là di fragili soglie che lasciano trasparire segnali perturbanti e che basta poco a infrangere. Un “cosmo disperato [che] ci appartiene in tutti i sensi”, in cui dominano, per dirlo con parole di Schopenhauer, “oppressione, privazione, miseria e paura, grida e urla”. Un cosmo dove regnano divinità mostruose, figlie del caos e sue portatrici, che formano un pantheon rivelato da libri proibiti e introvabili, che con i loro miti hanno dato vita, secondo Houellebecq, a un vero e proprio epos, ampliato da imitatori e seguaci: “non è stato registrato nulla di simile dai tempi di Omero e delle chansons de geste medievali. Abbiamo a che fare, dobbiamo umilmente ammetterlo, con un cosiddetto “mito fondatore”.” “Probabilmente, aggiunge MH, una volta dissipate le nebbie morbose delle avanguardie molli, il XX secolo rimarrà l’epoca d’oro della letteratura epica e fantastica”, e il rifiorire odierno di opere letterarie, cinematografiche e televisive appartenenti generi che ormai si è convenuto adunare sotto l’insegna del weird starebbe a confermarlo.

Da un’opera all’altra si è venuto formando un universo di storie in espansione creato da una immaginazione si direbbe sconfinata, come lo sono l’orrore e la paura che gli soggiacciono. Persino quando Lovecraft è imperdonabile, per esempio con il suo razzismo, la sua fantasia si scatena e produce pagine memorabili. Perché, e qui è MH a parlare, se “il disprezzo non è un sentimento molto produttivo in letteratura”, l’odio e il rancore lo sono, invece; e così la cattiveria, la malignità, il cinismo: tutto ciò che deriva da uno sguardo negativo, non pacificato, che mette in discussione l’apparente naturalezza del mondo, lo rivolta e lo mette in moto. L’esasperazione dell'odio contro tutto ciò che appare meticciato e impuro si ribalta in fobia, provocando “quello stato di trance poetica in cui trascende se stesso nel ritmico e folle battere di frasi maledette … con un orrendo cataclismatico bagliore”. “La sua visione, alimentata dall’odio, assurge alla paranoia vera e propria, e ancora più in alto, fino a quel totale squilibrio dello sguardo” che sfocerà nei “deliri verbali dei “grandi testi”.” A coloro che sostengono che, al pari di questi deliri, anche lo stile è eccessivo, incontrollato e alquanto rivedibile, MH ribatte che “HPL non aderisce in alcun modo alla concezione elegante, sottile, minimalista e discreta che in genere scatena l’entusiasmo dei critici” e che se il suo stile “è pietoso, possiamo allegramente concludere che lo stile non ha, in letteratura, la minima importanza. E passare ad altro”. Sono accuse che molti critici avrebbero mosso più tardi anche allo stile di MH, che qui sembra presagirle e rispondervi in anticipo.

La vaghezza, non impressionista né psicologica, è voluta e positivamente esasperata nonostante, o proprio perché, ottenuta mediante l’uso di un lessico attinto dalle più disparate discipline scientifiche con rigore e precisione (“più gli avvenimenti e le entità descritte saranno mostruose e inconcepibili, più la descrizione dovrà essere precisa e clinica. Per scorticare l’innominabile occorre un bisturi”), perché, al di là di ciò che viene alluso, più che detto, o di descrizioni dettagliatissime ma che poi è praticamente impossibile visualizzare, quello che conta “è mettere il lettore in uno stato di fascinazione. Gli unici sentimenti umani di cui Lovecraft vuole sentir parlare sono la meraviglia e lo spavento, e infatti egli costruisce il proprio universo su di essi e solo su di essi. È chiaramente un limite, aggiunge MH, però consapevole e deliberato. E non esiste creazione autentica senza un minimo di accecamento volontario.”

“L’universo è una cosa francamente disgustosa” e l’unica reazione ragionevole nei suoi confronti è la paura. Ed è questo che provano e affrontano i protagonisti, “proiezioni dell’autore” e delle sue fobie, ma solo nel senso di un’“amplificazione”, che dichiara inutile “qualsiasi psicologia differenziata” e opta per una scelta di “deliberata piattezza” finalizzata a “trasformare le percezioni ordinarie della vita in una fonte illimitata di incubi”: che è poi “l’audace scommessa di tutti gli autori di narrativa fantastica”, che si tradurrà da parte di Houellebecq scrittore nell’adozione di uno sguardo diretto a individuare di ogni cosa il versante negativo, sconfortante, farsesco e repellente.

E a volte appariva tale, eccetto a chi lo conosceva che invece lo adorava, anche l’“atteggiamento allo stesso tempo altezzoso e masochista, ferocemente anti-commerciale” di HPL, che “faceva di tutto per risultare sgradito” senza fare nessuna concessione, tanto da giocare si direbbe volontariamente “contro se stesso”. Atteggiamento con molte affinità con quello che ha sempre caratterizzato anche la figura pubblica di MH, il quale tuttavia ha assimilato benissimo la strategia, adattandola alle nuove regole della società mediatica, e così trasformandola, da parte sua, in una carta a favore di se stesso, con il risultato di attrarre su di sé una fortissima attenzione che, stanti appunto i tempi mutati, ha diviso in sensi opposti le simpatie e il giudizio dei lettori, non sempre a vantaggio di un approccio spassionato alle sue opere, che invece, come quelle di HPL, lo meritano a prescindere. Se Lovecraft non ha stipulato nessun compromesso con la vita “ridotta al minimo, da cui ogni forza vitale è stata drenata verso la letteratura e il sogno. Una vita esemplare” per immergersi senza residui nel suo mondo immaginario, si può dubitare che lo scrittore francese abbia seguito questo modello, anche perché, se lo “sporco mestiere … del romanziere” lo porta a trattare “la vita in generale”, con essa egli “si ritrova necessariamente compromesso”. Bisogna capirlo. Non può essere davvero contro il mondo e contro la vita. E con questo il primo passo verso l’autoassoluzione è compiuto. 

 


 

 

 

 

09/03/25

David LaChapelle e Beat Streuli (Arles 1998)



Alla Chapelle du Méjan, personali di David LaChapelle e Beat Streuli. Grande contrasto, contrapposizione ma anche, in un certo modo, complementarità.

LaChapelle ha ritratto con programmatico irrealismo, ironia, senso del paradosso e indefessa ricerca di sorprendere e divertire (oltre che divertirsi), stucchevole alla lunga, solo “bella gente” (attrici, cantanti, artisti e paperoni vari), vestita e svestita benissimo, tra scenografie sempre molto elaborate e debordanti di oggetti sfiziosi e improbabili, ripresa da angolature barocche, da torcicollo, in spazi distorti e con colori innaturali, elettronici, squillanti, eccessivi, sempre molto, molto glamour, sempre perfettamente a puntino, senza perdere un colpo, attento prima di tutto a evitare di scivolare sotto le righe (oh, very nice!).

 


 

Streuli, invece, ha fotografato per le strade di Marsiglia praticamente tutti quelli che passavano, cioè solo gente comune (e chi altro vuoi che se ne vada in giro per le strade di Marsiglia?) e ne ha tratto diapositive che qui vengono proiettate su tre grandi schemi adiacenti, all’incirca di 4 metri di altezza per 6 ciascuno, illuminati in sequenze e con ritmi all’apparenza irregolari, così che le immagini possono essere una o due o tre contemporaneamente, spesso diverse, o uguali per i singoli soggetti o per i gruppi ritratti ma con piccole variazioni nelle posture o nell’inclinazione dei volti, raramente uguali in tutto e per tutto su tutti e tre gli schermi o sovrapposte sullo stesso schermo in dissolvenze che sembrano creare movimento o trasformare un volto nell’altro, sostituite con cadenze variabili ma sempre lasciando il tempo di guardare con sufficiente attenzione: gente comune, dicevo, comunemente vestita (con maglioncini, tute, giacche, cappottini, tailleurs, magliette e pantaloni di varia foggia per lo più da grandi magazzini o mercati rionali; con borse e borsoni, tracolle, zainetti, caschi, foulard, chador, berretti, cappelli sportivi con o senza visiera, portati dritti o di traverso o all’indietro; con o senza occhiali, anelli, trucco, tatuaggi e piercing vari; calzati di scarpe con tacchi alti e bassi di ogni formato, mocassini, polacchine, scarponcini, sneakers, sandali, stivaletti e stivali in similpelle o in tela, verniciati o grezzi, lisci o a lacci intrecciati, e una miriade di calzature di lontane origini sportive, di semplice tela, da basket o che sembrano piccole astronavi, con lucine nelle suole, oblò, ammortizzatori per il lancio e l’atterraggio...), ripresa ora a figura intera ora a mezzo busto, più spesso in primi e primissimi piani; sola, con amici, famigliari, colleghi, compagni e sodali, o semplicemente accomunata dallo spazio urbano, dall’istante; in compagnia dell’auto, della bici, della moto o del furgoncino; casalinghe, lavoratori, pensionati, studenti, turisti, sfaccendati: gente di ogni provenienza e condizione (bassa o medio-bassa perlopiù) e razza, ma senza che il tormentone multietnico sia cercato o avvertito; con espressioni, posture, smorfie (poche e solo accennate), sguardi e gesti mai vistosi, “naturali”, di chi si sta facendo i fatti suoi, o sta lavorando, facendo la spesa o cercando qualcosa, o anche niente, eppure sempre intensi, individuati, a ciascuno il suo e solo il suo, e tutta, sempre, gente bella, proprio per questo.

Streuli, invece, ha fotografato per le strade di Marsiglia praticamente tutti quelli che passavano, cioè solo gente comune (e chi altro vuoi che se ne vada in giro per le strade di Marsiglia?) e ne ha tratto diapositive che qui vengono proiettate su tre grandi schemi adiacenti, all’incirca di 4 metri di altezza per 6 ciascuno, illuminati in sequenze e con ritmi all’apparenza irregolari, così che le immagini possono essere una o due o tre contemporaneamente, spesso diverse, o uguali per i singoli soggetti o per i gruppi ritratti ma con piccole variazioni nelle posture o nell’inclinazione dei volti, raramente uguali in tutto e per tutto su tutti e tre gli schermi o sovrapposte sullo stesso schermo in dissolvenze che sembrano creare movimento o trasformare un volto nell’altro, sostituite con cadenze variabili ma sempre lasciando il tempo di guardare con sufficiente attenzione: gente comune, dicevo, comunemente vestita (con maglioncini, tute, giacche, cappottini, tailleurs, magliette e pantaloni di varia foggia per lo più da grandi magazzini o mercati rionali; con borse e borsoni, tracolle, zainetti, caschi, foulard, chador, berretti, cappelli sportivi con o senza visiera, portati dritti o di traverso o all’indietro; con o senza occhiali, anelli, trucco, tatuaggi e piercing vari; calzati di scarpe con tacchi alti e bassi di ogni formato, mocassini, polacchine, scarponcini, sneakers, sandali, stivaletti e stivali in similpelle o in tela, verniciati o grezzi, lisci o a lacci intrecciati, e una miriade di calzature di lontane origini sportive, di semplice tela, da basket o che sembrano piccole astronavi, con lucine nelle suole, oblò, ammortizzatori per il lancio e l’atterraggio...), ripresa ora a figura intera ora a mezzo busto, più spesso in primi e primissimi piani; sola, con amici, famigliari, colleghi, compagni e sodali, o semplicemente accomunata dallo spazio urbano, dall’istante; in compagnia dell’auto, della bici, della moto o del furgoncino; casalinghe, lavoratori, pensionati, studenti, turisti, sfaccendati: gente di ogni provenienza e condizione (bassa o medio-bassa perlopiù) e razza, ma senza che il tormentone multietnico sia cercato o avvertito; con espressioni, posture, smorfie (poche e solo accennate), sguardi e gesti mai vistosi, “naturali”, di chi si sta facendo i fatti suoi, o sta lavorando, facendo la spesa o cercando qualcosa, o anche niente, eppure sempre intensi, individuati, a ciascuno il suo e solo il suo, e tutta, sempre, gente bella, proprio per questo.

Ero solo nella sala, seduto su una sedia di plastica dietro i proiettori. Me ne sono rimasto lì una mezz’oretta a guardare e basta, pacifico, finché mi è venuto l’impulso di alzarmi e di mettermi a camminare in mezzo ai fasci di luce emanati dai proiettori, così, senza scopo, come se sperassi, però, di scoprire anche la mia immagine prendere forma sugli schermi come una di quelle che vedevo, di vedere la mia faccia confondersi con esse o per verificare anch’io com’ero in quel momento, tra tanta grazia, forse con addosso un po’ di grazia anch’io, diretta o riflessa poco importa; ma naturalmente sugli schermi, c’era solo la mia ombra, anche se talvolta duplice o triplice.

 

 

23/02/25

Abbandonarsi (abbozzo 11-6-24)



(Premessa: era stanco e teso ecc., lo è sempre più spesso, e allora gli è presa una voglia irresistibile di lasciar perdere, di rinunciare – a cosa poi? – e lasciarsi andare, abbandonarsi. Poi ha pensato:  )

 

Abbandonarsi non è poi così difficile. È come arrendersi: una tentazione sempre a portata di mano. Anche solo pensarci, a volte. È un piccolo sollievo. Una soddisfazione. Placida, molle, in genere, solo a volte drammatica, quasi mai davvero disperata. Sentirsi sicuro, compreso a priori, non giudicato, accolto senza dover fare niente per meritarlo. Poggiare la testa su una spalla, nel grembo materno. In un grembo qualunque. E stare lì per tutto il tempo che si vuole, senza dover chiedere né ringraziare. Senza pretendere, conquistare, combattere. Solo perché così è naturale, spontaneo, e cioè, almeno in questo caso, buono e giusto.
Lo chiamano così, ma, per quando gradevole, necessario a volte, non è un vero abbandono. Il vero abbandono è invece quello che sopraggiunge dopo avere opposto ogni possibile resistenza, come se ad attenderci, raggiunto, ci fosse una tortura. È quando si capiscono tutta la falsità (e la facilità: è lo stesso) che si incarna in ogni cosa o atto a cui si decide di resistere, e che la resistenza stessa rivela e denuncia come inammissibile. Quando finalmente si rinuncia a se stessi, e quindi a ogni compiaciuta, in fondo miserabile, soddisfazione. (Non fossimo uomini.  Miserabili, appunto).
È quello che capiscono i condannati e da ultimo lo stesso ufficiale addetto alla macchina in “Nella colonia penale”, man mano che l’esecuzione procede, che non a caso consiste nella scrittura. Sul suo processo. Che rivela mentre uccide. Che sevizia, dilania e dà pace. Che fa affiorare il ricordo anche di qualcosa che nemmeno si sa di aver commesso, o solo fatto (è lo stesso), e dimenticato, e dona la sua cancellazione, l’oblio.

Quando non è più espressione, volontà di dire e fare qualcosa. Quando non sei tu a volere, ma ti annulli, scompari, in ciò che è detto e fatto.

 

Sembra qualcosa di eroico: una lotta, una serie di dolorose vittorie verso la pace finale, l’apoteosi. Un risultato che probabilmente nemmeno si saprà di aver raggiunto. Una coppa da cui si berrà.
Ma che senso ha questa negazione? Questo oltrepassamento forse senza fine? Perché ricercarlo, quando tutto congiura, e alletta, affinché ce ne si distolga (lo si abbandoni)? Cosa si cerca? Cosa si spera di ottenere? Ma ricercare, e cercare di ottenere, non è già precludersi di raggiungere? Non è già interrompere il processo, affannarsi per vincerlo e di fatto soccombervi? Negarlo e abbandonarlo senza abbandono?
Se poi uno non ha nessuna fede in qualcosa di superiore, fosse solo (solo!) la verità, che senso ha? È forse l’ultima possibilità per chi non ha appunto nessuna fede? Per chi sa che c’è “infinita speranza, solo non per noi”?
È una forma di suicidio in vita? Un’esperienza della morte per chi non solo non rinuncia a vivere ma pensa (finge di credere) che essa in questo modo raggiunga il colmo? Che solo attraverso la sua negazione trovi la propria completezza (il proprio compimento)? Che solo lasciandosi alle spalle (e con quanta fatica!) ogni volontà e ricerca di senso, che è sempre e comunque parziale perché è nella parzialità e differenza che il senso si dà, si possa attingere un qualsiasi senso totale e definitivo?
Una specie di trascendenza immanente? Di immortalità al centro, al colmo, della mortalità?
Tutte cose che fanno paura. Tanto più che si sospetta sempre (si sa), che sono solo parole, pie illusioni. E quindi un’altra resistenza da opporre, un altro abbandono a cui non inchinarsi, un’altra scusa per distogliersi, per rinunciare e accontentarsi dei piccoli piaceri, e anche dei mediocri godimenti, della soddisfazione del dolce abbandono.
Ma non è cercare la grande soddisfazione, il grande abbandono, il miraggio del grande senso a muoverci, a indurre a non cedere, a far sentire ogni rallentamento e deviazione come la massima debolezza, una colpa, il peggior tradimento (verso chi?): è che non se ne può fare a meno. Che c’è una specie di dovere, di obbligo (verso chi? verso se stessi? il vero sé?, ma per favore!), una forza irresistibile che non sopraggiunge su (in) chi la prova, non lo investe da sopra, e nemmeno da dentro, ma è chi la prova; che ad essa, allora, non può sottrarsi, a meno di morire. Di essere davvero morto.

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