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sett. 2006 17,00-17,40
Ho
accompagnato mia moglie a una visita specialistica da un dottore che lavora in
una cosiddetta casa di riposo, un gerontocomio cioè. E’ una serie di palazzine
molto decorose collegate tra loro in mezzo a un bel parco. Siamo arrivati
presto e ci siamo seduti su una panchina per fumare (io) una sigaretta. Un
anziano signore a venti metri da noi avanzava tra gli alberi aiutandosi con un
carrello alle cui sbarre mediane si appoggiava con le mani, mentre su quelle più
alte si abbandonava sorreggendosi con le ascelle quando non ce la faceva più.
Ho terminato la sigaretta prima che percorresse metà della strada.
Siamo
entrati nell’edificio principale. In un corridoio poco illuminato una signora
molto magra, in carrozzella, quando le siamo passati accanto ci ha salutato
agitando piano la mano. Ho risposto buonasera invece di buongiorno. In ritardo
per giunta.
Infine
abbiamo raggiunto il punto in cui il corridoio curva aprendosi in uno slargo
dove sono situate le poltroncine per chi aspetta di essere visitato. Davanti,
sulla sinistra, avevo un ufficio chiuso; sulla destra, in fondo alla parete, la
porta aperta di una sala comune, dentro cui si potevano vedere alcuni degenti e
infermiere. Ho aperto il Genji monogatari,
di cui avevo già letto buona parte molti anni fa, e mi sono messo a leggere di
buona lena. E’ un libro meraviglioso, spesso leggero, sempre poetico, intriso
di grazia in ogni pagina; il punto a cui sono arrivato però è piuttosto triste,
direi cupo. Lo leggo con adesione totale, senza accorgermi di ciò che avviene
attorno. Arriva il dottore e mia moglie lo segue nel suo studio. A un certo
punto sento, da dietro l’angolo, la voce tonante di un’infermiera che dice “Lei
parla molto bene, ha mai pensato di scrivere le sue memorie?”. Alzo la testa e
dopo un po’ vedo spuntare un ometto dalla lunga barba metà bianca e metà nera,
la figura fragilissima, che si sposta molto lentamente aiutandosi con un
carrello basso, in silenzio, a passettini, con l’aria stremata. L’infermiera
invece è un donnone di mezz’età (più giovane di me). Entrano nella sala comune
e spariscono dalla mia vista. Subito dopo sento una donna che dice: “Più a
sinistra, Berto. Ecco, adesso dritto”. E’ un’infermiera alla cui spalla è
appoggiato un uomo robusto, con una piccola borsa a tracolla. Cieco. Lo guardo:
è Bertino, nipote della mia balia, che abitava nel cortile di fronte al suo. Ho
giocato con lui da bambino.
Ho
il ricordo netto di alcuni pomeriggi nei due cortili (il suo molto buio) e di
altri in campagna, d’estate, tra i covoni di fieno, in compagnia del marito
della mia balia. Era il tempo dell’asilo (delle materne come si dice ora) e
delle prime due classi delle elementari. Bertino ci vedeva ancora un po’, ma si
sapeva che era condannato a perdere la vista. Io non capivo. Non capivo che
certe cose lui non le capisse, che non ci arrivasse, che fosse lento
nell’eseguirle. Ma non mi spazientivo, mi pare, continuavo a giocare con lui.
Poi sono cresciuto, andavo a trovare la balia meno spesso e lui l’ho visto
sempre meno. Credo che l’abbiano mandato in una scuola per ciechi, chissà dove.
Molto più tardi ho ripreso a vederlo ogni tanto in giro per il paese, prima con
la mamma e poi appoggiato alla spalla di qualche cugino o zia o assistente
comunale. Ed ora eccolo qui. Ha un anno più di me e sembra più vecchio di
almeno dieci.
Prendo
un appunto su uno dei foglietti che tengo sempre nei libri. Due cosucce veloci,
come promemoria. Quando alzo la testa vedo un’infermiera sui 35-40 che mi
guarda sorridendo e se ne va. Seguo la sua figura di media altezza, dalle
spalle larghe, fianchi con un po’ di ciccia, un culone ampio ma non esagerato
che si allontana. Sovrappeso di una dozzina di chili perlomeno. Non so come né
perché (anche se forse dipende dalle avventure amorose di Genji che non se ne
lascia scappare una e a cui tutte, belle e brutte, cedono più che volentieri),
all’improvviso mi viene da pensare: “si può scopare con tutti”. Che razza di
frase è?, mi chiedo subito. Ci penso. Non c’è disprezzo. Tenerezza, anzi.
Meglio: simpatia. Penso a come sarebbe fare l’amore con lei. Gradevole,
immagino, forse gioioso. Tranquillo, senza stress, entrambi attenti solo a
farci del bene. Bello. Perché no? Chi sono io per fare lo schizzinoso,
l’ipercritico? Mica sono bello e splendente come Genji; mica solo gli adoni
fanno l’amore. Cosa pretendo? Corpi perfetti e giovani? (E chi pretende
qualcosa? Faccio delle ipotesi, seguo delle idee, vado a vedere cosa c’è dentro
quello che a volte viene da pensare. Pura accademia.) Non sono male, certo: lo
deduco (lo immagino) dagli sguardi di alcune donne che ogni tanto mi guardano
come io (credo: perché non mi vedo) guardo altre donne, quasi sempre diverse da
quelle che guardano me (a volte anche le stesse, però; ma più di rado). Lo
verificherò poco dopo, mentre fumo da solo fuori da un grande negozio di
abbigliamento. (Sì, proprio così.) (Ma non pretendo niente. Probabilmente
sbaglio.)
Ma
adesso sono qui, ancora sulla poltroncina nel corridoio della casa di riposo.
Sto prendendo un appunto anche sull’infermiera paciosa. Mentre scrivo ne
percepisco la grazia e penso a ciò che ho appena scritto qui, a ciò che avrei
forse sviluppato qui o forse no. Quando alzo la testa, due metri davanti a me,
su una carrozzella, c’è un uomo molto anziano, dal viso emaciato, che mi fissa
con gli occhi e la bocca spalancati. Occhi sbarrati, come di chi ti osserva da
un altro mondo, dall’aldilà forse (e non capisce). Per un attimo lo guardo
anch’io, ma non riesco a mettere a fuoco quasi nulla, perché subito arriva
un’infermiera e lo porta via.
Subito
dopo arriva mia moglie e porta via me.
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