Dentro non
c’era nessuno (stavo per dire nessuna anima viva). Mi sono diretto verso il
cancello principale, e la tomba di famiglia che è proprio davanti all’ingresso,
senza concedermi l’abituale giro di aggiornamento delle mie rarissime visite,
anche perché le gocce stavano cominciando a farsi meno sporadiche e più
pesanti, quasi ghiacciate. Oggi però, non so perché, per arrivarci ho preso un
vialetto parallelo al solito, lungo il quale sono sepolti un paio di conoscenti
che passo sempre a salutare; ed è così che ho visto, per la prima volta, la
tomba di una mia ex-allieva morta di tumore a meno di quarant’anni. La grande
foto a colori la mostra com’era a trent’anni, poco prima che iniziasse la sua
lunga malattia, bella come non era mai stata a diciotto, a scuola, l’ovale
ammorbidito dall’età, la pelle splendente della maturità appena raggiunta ma
con la memoria della giovinezza ancora presente in tutto il suo fulgore, lo
sguardo pieno di luce, meraviglioso. Non mi sono fermato, e, con un piccolo
senso di colpa, ho tirato dritto verso l’uscita. Poi, però, davanti alla tomba
dei miei genitori una sosta l’ho fatta. Ho guardato le loro foto che sbucavano
dai fiori che mia sorella non gli fa mai mancare (però non dovrebbe
metterglieli così vicino agli occhi, che poi non vedono niente) e, loro, mi è
sembrato che avessero un’aria triste che in genere non hanno, le labbra appena
più strette del dovuto, il sorriso un po’ forzato di chi si sente solo o ha un
qualche cruccio che non vuol dare a vedere, perché guai a rovesciare sugli
altri problemi che sono solo nostri, guai a farsi compatire! Strette appena
appena, che anche chi li ha conosciuti bene non si accorgerebbe di niente. Non
io, però. Io conosco ogni piega dei loro volti, ogni sfumatura dei loro occhi.
Le conosco nei miei; più dei miei. E quindi vedo. Ho visto.
Tranquilli che arrivo, gli ho detto allora, e mi sono diretto al cancello.
Tranquilli che arrivo, gli ho detto allora, e mi sono diretto al cancello.
(Poi non è piovuto.)
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