Scrivo, a momenti, come se X fosse morto ieri e io venissi a sapere solo ora della sua morte, ma di un sapere, come spesso accade in questi casi, astratto, che capisce ma non assimila, non attraversa il ponte tra le parole e la realtà, non si fa sangue, esperienza, e quindi (scrivo) come se la certezza, data dalla notizia, che B. (in questo caso, per esempio) non c'è più, che è morto per sempre, convivesse con l'altra, che ci ha accompagnato per anni sino ad ora, che è ancora vivo, con l'onda lunga della vita che continua a vivere in noi, che ancora vive della nostra stessa vita uno di cui si è appena saputo che invece è appena morto, quasi che l'"appena" fosse troppo poco, non fosse sufficiente a bloccare la realtà dell'accaduto, a traghettare al "per sempre"; come se il passaggio dall'appena al per sempre fosse ostruito, impraticabile, impensabile: uno che continua a morire in questa onda lunga del suo essere ancora vivo nel suo essere appena morto, nella notizia che me lo dice morto da poco.
E
così è in ogni sua riga che leggo e che, ancora a lungo, leggerò come riga
scritta da uno che è ancora vivo essendo morto: complemento speculare, no:
indistinguibile, del leggere ogni riga di chiunque come se fosse morto: come la
scrittura, la parola di un morto, di uno che è morto e continua a morire in
ogni parola sua che leggo, anche se è ancora vivo, e pur sapendo che è vivo,
ancora e per sempre.
(Come,
viceversa, X è morto ancora e per sempre)
Leggo questo tuo post, dopo averti mandato la mail che leggerai.
RispondiEliminaEsattamente, precisamente: vorrei proprio non essere morto per sempre, ma avere qualche certezza, meglio qualche speranza, che sarà così finché sono vivo.
Intitolerei il tuo post: l'affido. F