Ci sono alcuni che si
stupiscono (e mi rimproverano: con tutte le cose importanti di cui si può scrivere!)
che insisto a parlare nelle mie storielle di alberi, cespugli, boschetti,
stradine, canali e acquitrini, cigni, anatre, passeracei e persino, e più di
una volta, di vermi e di lumaconi (che però, a quanto mi risulta, sono tra i
preferiti di una piccola schiera di lettori un po’ fanatici che ne hanno fatto
un microcult, o qualcosa del genere). Nessuno invece ha da ridire dei milioni
di storie dedicate agli esseri umani. E che? Il fatto di appartenere alla
stessa specie dovrebbe per forza renderli più interessanti? Io, per esempio, a
volte trovo più interessante uno stafilococco dei miei vicini (di casa, di
città, di stato… soprattutto di stato; sia detto senza offesa né astio: si
parla solo di attrazione, di affinità; si sta solo facendo un esempio: lo sanno
tutti quanto sono gentile, io…).
Così, se mi guardo
attorno in questo periodo e mi limito agli umani (altri primati nella mia zona
sono rari: più diffusi gli ovini e gli equini), cosa vedo? (… )
Omissis: mi affido al
quinto emendamento.
Forse è solo perché
siamo nei pressi delle elezioni politiche e amministrative, che a dispetto di
Aristotele non tirano fuori il meglio da nessuno; o forse sarebbe così sempre. O
magari è solo perché mi hanno appena estratto due denti e ho la bocca ancora
insanguinata e dolorante. Ma non credo. Invece lo stafilococco, e tutti i
cocchi in genere (che già il nome mi piace, anche se preferisco il femminile: e
non solo nel nome), il suo fascino ce l’ha eccome! Dico stafilococco, ma non
cambierebbe se parlassi delle muffe, come quella benedetta della penicillina, o
di uno di quei bei virus o microrganismi che a noi sembrano così tremendi e
invece sono solo dei capolavori con altre destinazioni rispetto alle mie; anche
se per alcuni, come quello di Ebola, proprio non ci arrivo a immaginare quali.
Quello del raffreddore sì, invece. Esseri che la nostra specie si sogna di
poter emulare, quanto a plasticità e resistenza e capacità di metamorfosi. Noi ci
trasformiamo in stelle solo nei miti (quando ci va bene).
Però, insomma, con i
virus alla lunga l’empatia mi viene un po’ difficile: non fa in tempo a
stabilirsi, a farmi increspare la bocca in un sorriso o l’anima in una lacrima,
che è già dissolta. Con altri esseri viventi i problemi sono meno. Per esempio
con le piante. Con le piante riesco persino a generalizzare. Non è che mi piace
questo o quell’albero, o arbusto o cespuglio o fiore… cioè sì, anche il
singolo, a volte proprio quel singolo più di ogni altro, ma sono anche capace
di amarne mille, centomila alla volta. Con l’ Homo sapiens sapiens (il paradosso
non è mio: sta già nella denominazione) invece no. Tre o quattro sono già
tanti: ci riesco, con questa specie, solo singolarmente, uno alla volta. (Qui
invece il deficit è mio, lo concedo volentieri.)
Poi magari li conto,
e proprio pochi non sono. Ma mentre gli voglio bene, è a uno alla volta, per
qualche minuto o per molti anni, che ne voglio. Se è per poco, può capitare che
siano anche dieci in mezz’ora, magari, in certi momenti estatici dalle cause
ignote, ma sempre, mi pare, uno per uno.
Non so, se vivessi da
qualche altra parte forse riuscirei a guardare ai miei simili in un altro modo,
con una simpatia che non si raffredda in proporzione inversa alla distanza.
Magari anche con gli uomini riuscirei a estenderla dal singolo al gruppo e da
quello alla generalità; e all’indietro: dalla generalità al gruppo e ai
singoli, all’individuo unico. Ma vivo qui, e non ci riesco.
Gli stafilococchi e i
batteri mi attraggono per la loro varietà e plasticità, ma hanno un difetto,
per uno pigro come me: hanno una fisionomia un po’ monotona, troppo elementare:
sembrano solo bastoncini, o sferette o filini, magari pelosi, curvi, con una
coda a gancio, un ricciolino, e poco più. E sono troppo piccoli, bisogna
andarli a scovare, ingrandirli migliaia di volte e colorarli in qualche modo,
perché dubito che un colore loro ce l’abbiano, non c’è spazio per queste
raffinatezze, si chiudono nel loro corredino genetico e amen. Invece, per esempio, tutti gli
animaletti che prosperano tra i nostri peli o sull’orografia dell’epidermide,
come gli acari e i loro congeneri, appena ingranditi sfoggiano una varietà
fisiognomica che le creature dei videogiochi e dei film di fantascienza si
sognano. Pur ispirandosi a loro, ci fanno una figura barbina, lo può verificare
chiunque. Però anche loro stancano abbastanza presto, come gli eccessi (quando
non distruggono; ma appagano pure, a volte…); e in fondo io propendo, pencolo
verso cose che un po’ mi assomigliano, o a cui posso immaginare di somigliare.
Qualcosa che posso vedere in giro, ogni momento. E allora mi installo in mezzo,
o nei paraggi, con gli animali e le piante.
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