Avanzano tra le file dei
sedili una dietro l’altro: lui con un lungo bastone bianco e un viso disteso,
lei con un grosso zaino sulle spalle, il cappuccio del piumino sulla testa e
gli occhi serrati con forza, le palpebre sigillate. Si fermano davanti a uno
scomparto a quattro dove al momento è accomodata, dalla parte del corridoio,
solo una bella ragazza dal viso un po’ lungo e squadrato e il naso forte con un
accenno di gobbetta appena sotto all’arcata sopraccigliare, di cui all’arrivo
mi aveva colpito lo sguardo liquido, velato dalla distanza, ma non miope, e che
ora sta leggendo, con la testa leggermente reclinata, un’edizione tascabile di Lo zen e l’arte della manutenzione della
motocicletta. Forse è la lettura che me l’ha resa bella. L’uomo, fatto
scorrere il bastone lentamente, con delicatezza pronta a ritrarsi, lungo il
bordo dei sedili, verificato che sono
liberi, si immette senza esitazioni nello spazio vuoto e si accomoda con un
movimento un po’ rallentato ma risoluto accanto al finestrino; la donna, sempre
con quell’espressione sforzata, dolorosa, che certo lei ignora di avere e che
nessuno si è mai preso la briga di descriverle, si sfila invece con
disinvoltura lo zaino e lo spinge decisa nel portapacchi piuttosto angusto, poi
toglie il piumino, lo ripiega e lo mette accanto allo zaino passando a mano sul
filo del ripiano per sistemare qualsiasi cosa sporga (nel caso, la cordicella
per stringere il cappuccio) e infine, con eleganza morbida, che contrasta la
sua espressione, si siede, senza nemmeno sfiorare le ginocchia della ragazza, dalle
lunghe gambe che le permettono di portare con disinvoltura delle sneakers senza
tacco, a meno che non le porti proprio per sembrare meno alta e non mettere a
disagio amici e colleghi brevilinei, che per parte sua cerca di continuare a
leggere come se niente fosse, quasi che la coppia potesse accorgersi se la sta
guardando o no, ma in realtà in preda a un lieve, ben mascherato imbarazzo che
viene tradito solo da qualche veloce occhiata di sguincio, come faccio anch’io
con lei e con la coppia, di cui ora vedo solo le spalle.
Appena seduti, i due si
mettono comodi, si scambiano qualche parola e per il resto del tragitto se ne
stanno in silenzio, assorti nel loro spazio senza spazio interiore, rilassati e
immobili, a parte un momento in cui la donna, estratto un tubetto dalla borsa,
si spalma una crema sulle mani dalla pelle forse troppo secca. La ragazza, dopo
le prime occhiate, si impegna a leggere senza distrarsi, resistendo all’impulso
a sbirciare di nuovo tradito da fulminei movimenti involontari della pupilla
che a volte prosegue di lato, alla fine di una riga, o in alto, al cambio di
pagina, verso i dirimpettai, evitando scrupolosamente di focalizzarli però. Mantiene
una postura composta, un po’ rigida ma elegante, il libro piegato a 60 gradi,
saldo tra le mani dalle bellissime dita, l’espressione concentrata, con le
palpebre abbassate verso la pagina, o nella riflessione, che però pian piano si
appesantiscono e scendono sempre più, fino a che non si ritrova con gli occhi
chiusi, non per stanchezza o torpore, ma come contagiata dalla cecità dei due
vicini. Come se, per un lungo attimo, vedere le sembrasse non più naturale,
scontato, ma vergognoso.
(A Porta Vittoria l’uomo
saluta la compagna e scende, da solo. La donna resta seduta con l’espressione inalterata.
Poi, prima di arrivare a Porta Venezia, si alza, indossa il piumino, lo chiude
con gesti morbidi, sicuri, inforca lo zaino e estrae da una tasca un bastone bianco
pieghevole, che raddrizza prima di dirigersi, un po’ ondeggiante forse a causa
del rallentamento del treno, verso lo sportello dell’uscita. Mi alzo e la
seguo.
Mi muovo come se il corpo non mi appartenesse, qualcosa che sposto a fatica, un peso di cui farei volentieri a meno.)
Mi muovo come se il corpo non mi appartenesse, qualcosa che sposto a fatica, un peso di cui farei volentieri a meno.)
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