Sto prendendo degli antibiotici e questo, oltre
a darmi un po' di nausea (quel leggero senso di vomito sempre lì lì per
sboccare ma che non si decide mai... un inchino a Kant), mi rende la testa
confusa. Proviamo a scrivere in queste condizioni, mi sono detto, e vediamo
come va a finire.
Non che cambi molto rispetto al solito. Io mi
picco di scrivere solo se sono molto lucido, ma cosa vuol dire essere lucidi?
Di solito vuol dire che ho la testa vuota di tutto ciò che non sia quello che
sto scrivendo, non disturbata da niente di esterno o di interno e con le
antenne ben tese, sintonizzate su tutte le possibili lunghezze d'onda e pronte
a captare ogni eco, anche lontanissima, di qualsiasi parola o espressione mi
capiti sotto la penna, o gli occhi se scrivo al pc. Diffido dell'ebbrezza e
dell'entusiasmo, forse perché sono incapace di abbandonarmici. Anche se poi un
certo trasporto è inevitabile, se le cose vanno bene. Un qualche automatismo...
una deriva. Ma sempre sotto controllo; vale a dire: sotto il massimo controllo
che l'estensione della cosiddetta lucidità mi consente.
Ho letto abbastanza sul funzionamento del
cervello e sull'inconscio per sapere che si tratta di una pia illusione, ma non
la ritengo una scusa sufficiente a rinunciare a esercitarlo fin dove mi riesce.
Allora l'ebbrezza per me diventa il funzionamento a pieno regime, sentire (eh
sì: sentire) che se non sono in grado di controllare da dove vengono le cose
che scrivo, sono però capace di gestirle una volta che sono lì, di vederne
tutte le implicazioni, di sceglierle e manipolarle in modo che ci sia un
massimo di compressione (di intensità: di concentrazione) in ciascuna di esse.
Un più possibile nel meno possibile. Fermo restando che si tratta di prosa, non
di poesia, e che quindi certi salti non mi sono concessi (il lirismo è escluso
a priori). Le deviazioni sì, però. E io, astuto o folle, ne approfitto.
"Compression is the first grace", scriveva Marianne Moore (mia nonna
paterna si chiamava Marianna). Vale per tutto. Anche per l'esuberanza. Dove la
compressione dovrebbe consistere proprio nella dispersione; altrimenti è puro
svolazzo: che a ben pensarci non guasta, ogni tanto (la grazia dei tonti).
Con la confusione che mi ritrovo, meglio: con la
balordaggine che imperversa (effettiva, oggi: fisica (parentesi nella
parentesi: c'è qualcosa di più bello della punteggiatura?)), mi sa che
piuttosto che svolazzi, oggi mi vengono solo ondeggiamenti ubriachi; sbandate,
più che deviazioni, che finiscono in cantonate. Amen. Avanti. (Però è dura, col
rigurgito sempre in agguato. Tanto più che fumo lo stesso. Notti e nebbie!)
Procedo in modo discontinuo. A salti e
mozziconi. Se bevo un caffè migliora? Ora provo. O è meglio qualcosa di solido?
Sto a metà strada e mi prendo un'arancia. Stare a metà strada non è mai
consigliabile. Lo facevano gli ubriachi, di notte, una volta. Appunto, come me
adesso! Ma nessun ubriaco si azzarda oggi, con il traffico che c'è a tutte le
ore, anche al mio paese. E poi non ci sono più gli epici ubriachi di una volta.
Tutte morte, le leggende paesane. Le tirate a squarciagola nel silenzio
assoluto contro l'universo mondo e i suoi fottuti abitanti, le romanze, i
lamenti d'amore (rari), le cattedrali in miniatura delle paranoie quotidiane,
le mogli, i soldi e i figli... Finito tutto. Sostituito con altro. Altre
euforie. Altre depressioni. Disperazioni con lo sconto, in saldo. (L'arancia
stava funzionando, ma poi mi sono acceso automatico un'altra sigaretta. E l'ho
pure fumata!)
Io sono per la solidità comunque. Niente vie di
mezzo. Niente trasporti. Almeno qui. Soprattutto qui. Sarà schiuma, effetto di
superficie, ma se uno ha il cervello lo deve usare. Punto e a capo.
E se proprio non vuole funzionare (come oggi,
come qui)? Meglio lasciar perdere. Smettere. Ecco fatto.
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