Pascal Quignard, nato nel 1948, si è affermato negli
ultimi anni come uno dei più importanti scrittori francesi. Romanziere,
saggista, musicologo e influente consulente editoriale, ha già pubblicato una
trentina di libri (11, di cui appena tre rifacimenti, nel solo 1990!), tutti
differenti per stile e argomento: attività frenetica quanto molteplici sono i
suoi interessi, che vanno dall'antichità greco-romana (non a caso è figlio di
un latinista e nipote di un grammatico) a quella cinese, dal 600 francese in
tutte le sue sfaccettature(musica, pittura, letteratura e Port-Royal) al
Giappone medievale, dai giocattoli ai bonsai e ai bonbons.
Differenziata per
precisa volontà ("non posso sopportare che due miei libri si
assomiglino") ma non dispersiva, nell'opera di Quignard non è difficile
individuare dei nuclei che spesso vengono ripresi da un libro all'altro, così
come spesso sconfinano l'uno nell'altro i generi, tanto più che lui afferma di
non prediligerne alcuno e di cercare semmai "il non-genere che permetta
l'integrazione del noetico, dell'affettivo, ecc." Conviene comunque
distinguere: i saggi e gli otto "petits traités" concepiti come
"suites barocche consacrate rispettivamente al silenzio, alla lettera, al
libro, alla lingua, alla lettura, all'orecchio e alla frammentazione, al
tribunale del tempo"; le "vite brevi" di personaggi spesso
" minori", in modo da "cambiare i padri", dal momento che
"non c'è novità se non c'è novità del passato"; vite che talvolta si
trasformano in "romanzi storici" molto differenti da quelli della
Yourcenar (l'ultimo è dedicato allo scrittore latino Albucius, POL, 1990, p. 235), così come i temi dei saggi li
ritroviamo in romanzi come il notevole Il
salotto del Wurttemberg (Garzanti, 1988, trad. di A. Rossatti, p. 288, £
30.000), che nel 1986 lo ha fatto conoscere anche al grande pubblico, e il
raffinato ma discutibile Le scale di
Chambord (Frassinelli, 1990, trad. di G. Cillario, p. 280, £ 25.000).
Gli ultimi libri di P. Quignard tradotti in italiano sono
Il giovane macedone (titolo originale
La leçon de musique, 1987) e Tutte le mattine del mondo, apparso dopo
l'uscita del film omonimo di A. Corneau interpretato da G. Depardieu, che
tuttavia da noi non sembra riscuotere il grandissimo successo di pubblico oltre
che di critica incontrato in patria.
Conviene parlarne assieme perché, pur nella diversità, il
secondo riprende i temi e nasce dallo sviluppo del testo conclusivo del primo. Questo
infatti è composto da tre testi che indagano sulla nascita del teatro e sulla
musica prendendo spunto da episodi della vita di Aristotele, del musicista
cinese Po Ya e dall'ordinario di viola del Re Sole Marin Marais, che di Tutte le mattine del mondo è appunto il protagonista
assieme al suo maestro Sainte Colombe. Ma mentre nel primo una scrittura
stratificata intreccia la narrazione a divagazioni etimologiche, aneddoti,
riflessioni e spunti lirici, dando luogo ad una struttura composita quanto
compatta per la quale sarebbe difficile trovare una definizione; il secondo si
presenta come un romanzo "classico", dall'impostazione lineare,
scandito in brevi scene dall'andatura e dalla scrittura asciutte, quasi
cronachistiche (ma di una cronaca di trecento anni fa: romanzo
"classico" anche per questo, e dunque, per noi,
"manierista" come molti altri testi di Quignard, che scrive sempre a
partire dalla lettura), dalle quali le inflessioni patetiche che talvolta
disturbavano negli altri romanzi sono come rattenute e assimilate in un tono di
compostezza che non viene mai meno.
Le cronache del
tempo di Sainte Colombe narrano soltanto che abbia allontanato ben presto il
suo più famoso allievo per timore di esserne superato, ma che questi sia spesso
tornato di nascosto sotto il capanno nel quale il maestro si esercitava per
carpirne i segreti. Quignard parte da questo scarno episodio, come fa spesso
nei suoi romanzi storici e nelle sue "vite", per svilupparlo dalla
parte di Marais in Il giovane macedone
e da quella di Sainte Colombe in Tutte le
mattine...
Il centro resta
tuttavia la ricerca del segreto della musica, attorno alla quale ruotano tutti
gli altri temi presenti nel romanzo e nella quale trovano una conciliazione
anche i due personaggi che per il resto non potrebbero essere più diversi.
Sainte Colombe è un uomo che vive isolato dal mondo, le cui simpatie verso il
giansenismo perseguitato non sono forse che la naturale conseguenza di un
carattere chiuso, acuito dalla scomparsa della moglie e dal rimorso di non
essere stato presente al suo trapasso, ultimo atto di un amore che non aveva
mai trovato modo di manifestarsi appieno. Solo nella musica infatti egli
riusciva a dar voce ai propri affetti e solo la musica, ben più delle figlie
alla cui educazione pure si sforza di non far mancare nulla, gli resta a
consolazione della propria vedovanza. Elaborazione infinita del lutto, voce del
dolore che giungerà a commuovere la morta che ne sarà talvolta indotta a
visitarlo nel suo capanno. Marais invece ai suoi occhi non è che il figlio di
un calzolaio che nella musica cerca solo una promozione sociale, come dimostra
la sua pronta accettazione a trasferirsi a corte, che invece lui aveva
sdegnosamente rifiutato. Lo considera un superficiale, dotato forse, ma che,
attratto dalle lusinghe delle cose e delle persone, resta estraneo
all'intensità degli affetti dalla quale soltanto può nascere la musica, anche a
costo di ferire a morte chi gli si concede come farà una delle figlie del
maestro. È più un esecutore di musica che un musicista: accusa in apparenza
paradossale se si pensa che è rivolta ad un creatore prolificissimo da parte di
un uomo del quale fino a pochi anni fa non si sapeva neppure che avesse mai
composto nulla. Eppure anche Marais desidera la musica più di ogni altra cosa,
anche lui, senza saperlo, sta elaborando il suo lutto, quello della muta della
voce che, all'inizio della maturazione sessuale, ne aveva decretato
l'allontanamento dal coro che aveva segnato l'età d'oro della sua infanzia. La
gloria e la corte ne sono solo un surrogato e altro non fanno che accrescerne
il rimpianto, dietro il quale tuttavia se ne cela un altro, più profondo:
quello dell'epoca che precede l'infanzia, "quinta stagione" sonora
che sta al di qua del soggetto e del linguaggio, perduta perché mai posseduta e
tanto più irrecuperabile. Perché se "in seno alla voce umana maschile c'è
una paratia che separa dall'infanzia", è con "l'impronta
indistruttibile di tutto ciò che ci ha impressionati al momento di venire alla
luce" che nella voce pure permane, che la musica, e ogni attività
artistica secondo Quignard, cerca di mettersi in relazione per quanto né le
parole né la musica riescano mai ad afferrarla. Ne resta soltanto il rimpianto.
Sarà soltanto quando la forza di questo rimpianto avrà
preso il sopravvento su tutto il resto che Marais potrà incontrare quello del
suo vecchio maestro e ricevere da lui la prima vera lezione. Allora potranno
finalmente intonare insieme la loro musica verso quell'epoca, che J.P. Richard
chiama "dell'assenza pre-originaria, del nulla anteriore all'esistenza
personale": in fondo la stessa verso la quale tendono sempre anche le
opere di Quignard, che proprio in questo trovano la loro coerenza, così come è
dalla malinconia con la quale vi tendono che deriva, assieme alla necessità, il
loro doloroso incanto.
Pascal Quignard, Il
giovane macedone, Guerini e Associati,
1991, trad. S. Colonna, p. 91, £ 18.000
Tutte le mattine del mondo, Frassinelli,
1992, trad. G. Cillario, p. 113, £. 22.000
Nessun commento:
Posta un commento