Il
destino talvolta è gentile coi grandi scrittori e con dolce ironia accondiscende,
per colpirli, a prendere forme e modi disegnati dalle loro opere, suggellandole
con un omaggio definitivo. Per Witold Gombrowicz la filosofia è stata la
passione di tutta la vita e allora è giusto che il suo ultimo lavoro sia stato
proprio un “Corso di filosofia” che, molto gombrowiczianamente, era previsto di
sole “sei ore e un quarto” (il quarto d’ora essendo dedicato a Marx, secondo le
intenzioni dell’autore: in realtà fu di più). Se fin da giovane, come ci informa il premio Nobel C. Milosz, Gombrowicz “veramente amava soltanto parlare
di filosofia”, negli ultimi tempi della sua esistenza solo essa riusciva a
distrarlo dalla malattia che lo avrebbe condotto alla morte. È per questo che
quando, nella primavera del 1969, sua moglie Rita e l’amico Dominique de Roux
gli chiedono di tenere un corso per loro, lui non solo accetta, ma prepara
scrupolosamente ogni lezione prendendo gli appunti che ora costituiscono questo
libro.
Ma come capita per ogni scrittore “forte”, secondo
la terminologia di H. Bloom, questo corso eterodosso e divertente, più che una
introduzione alla filosofia moderna, come afferma nella sua pregevole
introduzione F. Cataluccio, ci offre “la chiave per rileggere e comprendere
tutta l’opera narrativa, teatrale e, soprattutto, diaristica di Gombrowicz,” della
quale fa parte a pieno titolo.
Lo
si può capire tanto dalla personale ricostruzione storica da lui operata e dall’accento
messo su filosofi che hanno riservato molta attenzione all’arte e alla
concretezza dell’esistenza e del dolore (Schopenhauer, Kierkegaard e Nietzsche),
quanto soprattutto dal confronto serrato con l’esistenzialismo, che egli col
suo primo romanzo, Ferdydurke, aveva
in qualche modo precorso.
Il
confronto con Sartre in particolare era d’obbligo per Gombrowicz non solo per
dimostrare la propria indipendenza e originalità, ma anche per sottolineare le
peculiarità del romanzo rispetto al pensiero concettuale. Infatti, “la
filosofia è una cosa obbligatoria”, certo, e la sua necessità è la stessa dell’uomo
che si trova costretto a fare ordine e ad “organizzare il mondo in una visione”,
ma questo è anche il suo limite: ogni filosofia tende a chiudersi e a fare
sistema e non sopporta l’antinomia, che invece nell’arte ha, per l’autore di Cosmo, “la massima importanza”; la
singolarità e il concreto le sfuggono e
anche il pensiero più radicale finisce per ritrarsi non solo davanti alla
divisione “irrimediabile” tra il soggettivo e l’oggettivo da cui essa pure trae
origine, ma ancor di più davanti al paradosso per cui, una volta approdati il
soggettivismo, qualsiasi altro soggetto scompare. La filosofia, come l’uomo,
tende alla Forma, ma l’esistenza è caos, e quando anche una forma viene trovata
il suo destino è di cadere sempre e di nuovo nell’incompleto e nell’informe.
È
quindi ancora giusto, e gombrowicziano, che anche il lavoro in cui queste idee
vengono esposte non abbia potuto fissarsi in una forma completa perché
interrotto dalla morte, il 24 luglio del 1969.
Witold
Gombrowicz, Corso di filosofia in sei ore
e un quarto, trad. di Liliana Piersanti, Theoria, Roma 1994, pp. 141, £.
10.000
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