Nel
suo splendido libretto Con Borges in
cui racconta di quando da ragazzo si recava quasi ogni giorno a casa del grande
scrittore ormai cieco per leggergli ogni cosa desiderasse, Alberto Manguel ricorda
il noto episodio del licenziamento di Borges, nel 1946, dopo che si era
rifiutato di iscriversi al partito peronista: "dovette abbandonare
l'incarico di aiuto-bibliotecario in una piccola sede municipale [a 47 anni, con
grandi libri già alle spalle, tra cui Finzioni
fresco di stampa!] per diventare ispettore del pollame in un mercato";
aggiungendo però un'altra versione: "Secondo altri, il trasferimento fu
meno oltraggioso ma altrettanto assurdo: venne destinato alla Scuola di
apicoltura municipale". (Dal che si desume che le api sono più nobili dei
polli.) Chissà se Martin Page conosceva questo episodio quando, nel suo molto
acuto e divertente L'apicoltura secondo
Samuel Beckett, ha fatto di questi un apicoltore sul tetto del palazzo dove
abitava a Parigi. È dubbio tuttavia che il grande argentino, che si dimise
immediatamente, ne abbia tratto le lezioni di vita che Page attribuisce al
grande irlandese. Ci vorrebbe un autorevole depositario della verità sulla vita
vera e immaginata del bibliotecario di Babele per scoprirlo, un grosso calibro
del corrispettivo borgesiano del centro studi proustiani di cui è orgoglioso
membro, per un certo periodo, il protagonista di Io e Proust, opera prima di Michaël
Uras, giovane scrittore francese di padre sardo, che dopo il successo in
Francia è stato ora ben tradotto e curato per le edizioni Voland
rispettivamente da Giacomo Melloni e Giuseppe Girimonti Greco.
Jacques, il
protagonista di questo romanzo, si innamora di Proust nella prima adolescenza,
durante una malattia, e comincia a pensare e sentire, e insomma a vivere in
tutto e per tutto secondo quanto trova nella Recherche, mentre i suoi amici si gettano anima e corpo in ben
altri interessi. L'amore viscerale si trasforma in un'ossessione che porterà il
ragazzo a diventare uno studioso dell'opera e del suo autore fino a approdare
ai campi elisi dell'istituto di ricerca che gli è intitolato. Non senza avere prima
suscitato molte resistenze in famiglia (mica sarà gay?), nonché difficoltà di
ogni genere nelle relazioni sociali e persino in quelle sentimentali. Càpita,
quando tutto passa al secondo o al terzo posto. A narrare è lo stesso
protagonista che ricapitola la sua esistenza sotto il segno di Proust, fino
alla svolta, che coincide, peraltro proustianamente, con l'inizio del libro, o
quantomeno con il rinvenimento di quello che sarebbe poi stato il suo titolo.
Che nell'originale suona Cercher Proust,
con riferimento sia all'opera che al suo autore. La presenza del nome di Proust
nel titolo è già un fattore sufficiente per invogliarne la lettura, come la
presenza dei nomi di Borges e Beckett negli altri due libri succitati.
Ma qui, lasciando
perdere che il romanzo resta molto gradevole nonostante un certo allentamento
nella seconda parte dopo l'inizio invece molto brillante, Proust a volte è solo
un pretesto, e riveste il ruolo di una fissazione che avrebbe potuto benissimo vertere
su altro o altri: un musicista, o un pittore o un divo di qualche disciplina,
una qualsiasi. Proust presenta però il vantaggio di avere tutta una sua coorte
di lettori variamente spalmata sui gradini, ad Parnassum, che vanno dalla
passione generica al fanatismo assoluto, e soprattutto di essere un'indiscussa
gloria francese, di un'assolutezza difficilmente reperibile in altri campi (a
parte Napoleone e Platini). Inoltre offre il destro per tirare frecciate a
destra e a manca sul disinteresse progressivo che la letteratura sta patendo
persino in Francia e sul mondo sempre più sterile e stupido degli studi
ultraspecialistici che le glorie indiscusse si ritrovano come indesiderata
eredità: cosa che induce al vituperio, a volte, anche chi come me è mosso da
sincera ammirazione. Senza contare che irridere gli specialisti ha il vantaggio
accessorio di sedare la coscienza di chi ha rinunciato ancor prima di tentare
di farvi parte, adducendo che ha ben altro di cui occuparsi. Presto la storia
del protagonista con Proust scivola verso lo sfondo, dopo un presunto scoop (la
scoperta dell’identità di un giovane sconosciuto che compare in una delle foto di
quello che all'epoca si presentava come un fatuo e ridicolo gagà baffuto e con
l’occhio di pesce: un ultracentenario che
però muore anche prima che Jacques possa trarne benefici), con la sola funzione
di guastare una storia d'amore, i rapporti con amici e colleghi, fino alla
decisione da parte del narratore di tagliare il cordone ombelicale che lo lega
a lui, con un rogo, manco a dirlo, andato a male, come se questo bastasse a
dare una sterzata a una vita.
Il
libro attrae la curiosità dei viziosi che persistono nel feticismo della
letteratura, che cercano aneddoti ma anche teorie (o, in loro assenza, battute
colte e sarcasmi sulle mode letterarie: qui l'autofiction, peraltro già talmente
crivellata che non si capisce dove possa essere ancora colpita; forse è una
pratica zen: colpire il centro vuoto del centro vuoto del bersaglio vuoto...),
ma alla fine si ritrovano con l'ennesima storia di tardiva e inconclusa maturazione
di una mezza cartuccia. In Francia usare gli scrittori come personaggi, e
persino nei titoli, va di moda, come dimostra anche il caso citato di Martin
Page, già noto per Come sono diventato
stupido di qualche anno fa, il cui volumetto a mio parere è superiore a questo
Io e Proust, con il plusvalore
accessorio di essere ancora più breve; in Italia siamo certi che a breve ci si arriverà,
se già qualcuno non l'ha fatto senza che noi, disgraziatamente, ce ne siamo
accorti; mentre nella penisola Iberica, dove Borges e Pessoa hanno agito più a
fondo, c'erano già da tempo Vila-Matas e Tavares con la loro diversificata
panoplia di autori, e pure Cercas con Bolaño,
e Bolaño stesso con se stesso e con un po' tutti, veri e falsi. Non
c'è gara.
Nel romanzo di Uras
a stimolare la lettura, c'è però anche qualcos'altro. In primo luogo l'autore
approfitta del parodico bildungsroman anche per fare una satira dei miti
nazionali, attraverso l'esempio in questo caso non di Proust, ma del suo culto,
di cui molti si riempiono la bocca ma che non interessa un fico secco a
nessuno, se non come un brand, uno specchietto che attira abbastanza allocchi a
cui vendere questo o quel gadget (dall’oggettistica più fantasiosa alla
località marina che cambia nome e si proustifica da capo a piedi per attrarre frotte
di turisti culturali, come nei benemeriti parchi culturali nostrani) con la
patina nobilitante di qualcosa di importante e di noto; di importante perché
noto e perché fa vendere, e acquistare, con la doverosa spruzzata di orgoglio
sciovinistico (in pubblico; poi, in privato, si può tranquillamente disprezzare).
Ma quello però su
cui si può riflettere un po’ di più è proprio il rapporto con lo scrittore,
meglio se grande, e il modo in cui la sua trasformazione in personaggio impronta
la storia narrata e gli altri suoi protagonisti.
In fin dei conti
fare di scrittori, famosi o meno, gli oggetti o i protagonisti delle storie,
non è che un modo per rendere esplicito, in aggiunta ai prevedibili risvolti
metanarrativi, anche il ventaglio dei rapporti con il singolo autore preso per
se stesso o come simbolo (dalla devozione al conflitto e dall’adorazione
succube all’odio generazionale), che è insito in ogni atto di scrittura, specie
se narrativa e con qualche ambizione (quelle che ne sono sprovviste non hanno
bisogno di tematizzare e confrontarsi con niente, dato che dipendono da tutto).
Si raccontano o inventano aneddoti o episodi sconosciuti, (la creazione di
falsi dossier o la rappresentazione di Aspettando
Godot in un carcere svedese; l’ultimo vivente che ha conosciuto Proust), si
svelano presunti segreti della loro vita, pubblica ma meglio ancora intima, si
fanno commenti, si attribuiscono discorsi e opinioni, ma è da essi che le
storie nascono, sono le loro opere che vengono commentate e con cui si dialoga.
Ricondurre alla finzione, elaborare falsificazioni complesse o anche
elementari, costruire su ipotesi non verificabili, ma anche servirsi della loro
presunta autorevolezza per fare i discorsi che più fanno comodo o più premono allo
scrivente, ovvero ribaltare immagini pubbliche consolidate (come il vecchio
Beckett, un po’ fricchettone, disincantato quanto feroce anticapitalista, che
alleva api sul terrazzo della sua abitazione, ama travestirsi e offrire al
giovane che lo aiuta a sistemare archivi veri e a crearne di falsi una tazza di
cioccolato in una cucina invasa dal fumo di sigarette accese in rapida
successione e lasciate consumare senza essere fumate) è un gioco, ma anche un
modo per rivelare ciò che si sta veramente facendo mentre si racconta altro,
con ironia, umorismo o grazia (ma anche con infinita tenerezza, come fa Alberto
Manguel nel suo Con Borges), indirizzando
strumentalmente l’attenzione del lettore sul personaggio noto.
La diversità delle
strategie permette di individuare le traiettorie personali, ma non manca di nascondere
significative affinità, come un’aria di famiglia che permea luoghi e
generazioni non così distanti come sembrerebbe (tutte accomunate dall’amore per
la letteratura anche laddove fatta oggetto di sarcasmo) e di elaborare un
piccolo sistema di varianti a partire da strategie e fattori simili. La foto di
Proust con lo sconosciuto permette l'apparizione del (falso?) ultimo testimone
vivente che dovrebbe costituire lo scoop del fanatico protagonista del libro di
Uras, come la foto di Picasso con uno sconosciuto aveva favorito l'invenzione
della vita e dell'opera del pittore Jusep Torres Campalans da parte di Max Aub
nell’omonimo capolavoro, mentre la fabbricazione dei finti dossier da parte del
finto Beckett di Page ha come vero/falso bersaglio il vorace feticismo degli
specialisti, magari perché poi, a giro compiuto, essi, e i comuni lettori, tornino
non all'oggetto della loro devozione studiosa ma a se stessi, che poi sarebbe
il modo migliore per capire anche l’opera di quelli ("Quello che conta è
la biografia di chi legge i miei libri, più che la mia”, fa dire infatti Page a
Beckett. “Gli accademici farebbero meglio a indagare sulle proprie vite se
vogliono capire qualcosa della mia opera.”). Uras e Page immettono elementi di
finzione in figure la cui vita è stata scandagliata fin nel minimo dettaglio,
al contrario di Aub, che aveva inventato una vita e costruito anche
materialmente un'opera a partire da una immagine reale. Proust ha costruito
un'enorme cattedrale, o sarcofago, di finzione che inglobasse la propria vita
dotandola però in questo modo di verità, che gli studiosi di Uras (e gran parte
dei suoi devoti) dimenticano per rincorrere frammenti di realtà che non hanno
nemmeno più un valore immaginario, ma semmai solo economico e turistico; tutto
il contrario di Beckett che ha voluto tenersene rigorosamente fuori, cercando
di cancellare anche ogni traccia indiretta che vi potesse ricondurre i suoi
lettori (inutilmente però, a giudicare dalla voluminosità di certe biografie);
Manguel infine parla della vita reale di un uomo che, ancora vivente, era
diventato un personaggio di finzione creato dall'omonimo personaggio che
attraversa la sua opera, il sogno di carta, ma quanto reale per i suoi lettori,
di un essere di carta a sua volta sognato, come il sacerdote delle "Rovine
circolari", un nome unico e molteplice che ha fatto della scomparsa una
delle cifre principali della propria opera, e in un certo senso della propria
stessa vita, la cui banalità e insignificanza acquista significato e valore
proprio in questa eclisse (e lo fa, Manguel, parlando della propria, di
giovinezza, a sua volta tutta immersa nella letteratura: appunto come
suggerisce il Beckett immaginario di Page).
È la solita combinatoria
di verità e finzione, di una finzione più vera della realtà e al contempo di
una verità che si maschera e rivela solo nella falsità, che, variamente dosate
e cucinate, costituiscono la letteratura. Cambiano però i modi, le intonazioni
e i sentimenti, la luce che dai personaggi promana: dalla tenerezza che suscita
il vecchio uomo cieco a cui la madre ultranovantenne raccomanda di mettere il
pullover prima di uscire e che ogni sera si infila con gesti faticosi in una
lunga camicia bianca e recita a voce alta il Padre nostro in inglese, con una
debolezza che lungi dallo sminuire la sua grandezza me la rende ancora più
salda; al Proust ridotto a quattro stereotipi il cui fondamento reale conviene
irridere ancora di più proprio per evidenziare la potenza di un’opera che può
travolgere e minare le fragili esistenze di chi troppo fiduciosamente vi si affida;
al Beckett paradossale, saggio anticonformista sorridente, ma non pacificato,
che offre una cioccolata calda al suo assistente: al suo lettore, che grato la
accetta.
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