La città
moderna e industriale si è sviluppata tutta sul lato destro del fiume
schiacciandovi contro il centro storico, che oggi appare come dislocato e fuori
mano, seppur sempre intasato di gente, uffici, monumenti e turisti. Uomini e
mezzi a motore di ogni tipo ne sono attratti anche senza una ragione specifica
e vi si muovono sgomenti, percorrendo strade e marciapiedi come se fossero i
margini di una ferita sulla quale ci si deve affacciare proprio per poterla
rimarginare distogliendone gli occhi, ed emettendo suoni nei quali non
riconoscono la propria voce, ma un'altra, che pure la comprende, per quanto non
la giustifichi.
Basta
però attraversare un ponte e già ci si muove in un altro mondo: al di là
dell'alveo largo e secco infatti, un grande parco si dirama irregolarmente
attorno ad un laghetto ad esso tanto proporzionato da potersi permettere un
cospicuo isolotto. Su quest'ultimo, nascosto e insieme rivelato dal verde fitto
di un boschetto, si intravede, invece del solito pretenzioso padiglione, un
tempio colonnato di discrete misure, forse veramente antico o più probabilmente
una ricostruzione su basi e con materiali già esistenti. Due strade ripetono
con qualche negligenza i bordi del laghetto: una asfaltata, per i ciclisti,
le carrozzine e la pubblica manutenzione, che lancia i suoi pseudopodi in tutto
il parco verso i confini invisibili; mentre l'altra, piuttosto un sentiero, è
lastricata per uno scomodo passaggio, visto che l'acqua per lunghi tratti la
lambisce rendendola scivolosa. Ora il sentiero è occupato quasi esclusivamente
da gruppi di ragazzini che, abbandonata la strada asfaltata evidentemente
troppo comoda, o viceversa troppo ingombra, gareggiano su bici da cross
coinvolgendo anche i pochi che più giudiziosi pedalano in fila indiana o a
coppie, chiacchierando. Sul bordo esterno dell'asfalto invece, disposti in
ordine sparso e nondimeno ritualmente regolari, gruppi di panchine metalliche
con la vernice scurita e talora scrostata si confondono con la vegetazione,
camuffati da sua naturale appendice.
Su due di
queste panchine contigue, sul lato più vicino all'isolotto, dove l'acqua è più
profonda, in posizione favorevole per godere il commovente simulacro del sole
ottobrino, sei vecchi parlano tra loro in dialetto. Per la verità a
monopolizzare la conversazione sono in prevalenza i tre della prima panchina;
gli altri stanno per lo più in silenzio, guardano qua e là svagati, e comunque
con scarsa intenzione anche quando un particolare sembra attrarli, e solo ogni
tanto intervengono o biascicano commenti lapidari tra loro o verso l'oratore
del momento. Il più silenzioso è il quarto, un tipo alto e magro dall'aria
strana, un po' stonato nella compagnia, che pure senza di lui sarebbe monca.
Porta giacca e cravatta blu, un cappello grigio e occhiali non da sole con
montatura verde brillante sfumata verso il basso, semitrasparente. Non pensa ai
fatti suoi, non è un intruso: ascolta silenzioso e basta. Gli altri di quando
in quando si voltano verso di lui, lo guardano senza peso come si fa coi
famigliari, ma non lo interpellano mai direttamente. Se fosse necessario
interverrebbe, e gli altri lo ascolterebbero con attenzione, ma già ogni loro
parola sembra presupporre la correzione del suo possibile intervento. Così lui
può fare a meno di parlare e aspetta con pazienza il momento giusto perché
indispensabile, che si intuisce sempre prossimo e che quindi non ha bisogno di
venire mai.
Un altro, il quinto della fila,
picchia ritmicamente, – ma è un ritmo tutto suo –, il
bastone per terra, si gratta e approva ogni sfumatura del discorso, che pure lo
interessa in modo alquanto relativo. Ne seguirebbe con la medesima attenzione,
sempre approvando, qualsiasi altro. È il più vecchio, trema. Trema con un
dispendio di energie, ed anzi con una vigoria persino superiore, si direbbe,
alla gesticolazione esorbitante del più vivace della compagnia che, quasi per
compensazione simmetrica, è invece il terzo: un tipo tarchiato dalla pelle
rubizza e porosa, con un maglione a scacchi colorati, pantaloni terra di Siena,
un foulard blu e la voce rauca screziata, tutta interruzioni e cedimenti da
laringectomizzato, durante i quali il suo discorso continua ancora
completamente significativo pur nell'assenza di suono, con l'esemplare
perfezione delle parole non dette.
Passa il tempo senza
veramente passare e gente va e viene senza veramente andare e venire. I ragazzi
sulle bici da cross, autentiche promesse del nuovo sport, si rivelano più
giovani di quanto non sembrasse: bambini, quasi infanti; per questo proseguono
la loro gara gridando sempre più forte, oppressi da un'allegria isterica. Con
passo adolescenziale le mammine spingono carrozzine silenziose, ragazze scipite
si fanno confidenze tenendosi a braccetto con strette eccessive, gli studenti
scoprono i mondi deserti di una stessa pagina. Amici raggiungono la compagnia
delle due panchine: alcuni si fermano solo per salutare, altri sostano più a
lungo. Uno su una bicicletta dal cambio complicato accentra per un po'
l'attenzione disquisendo, forse stimolato dal passaggio di una coppietta
peraltro insignificante e tra specificazioni di cui nessuno sente la necessità,
da vero intenditore, sulle differenze non a tutti evidenti tra le donne di
settant'anni, per le quali valga l'esempio classico di sua moglie che strappa
un sospiro di compianto a quanti la conoscono, e quelle di trenta, alle quali
accorda invece la sua entusiastica preferenza, certo spropositata. Un
particolare riferimento merita sua nuora: stupenda. Ancora non capisce come
abbia fatto quel cretino integrale di suo figlio ad accoppiarla. È una
preferenza, quella per le trentenni, che una volta tanto si sentono tutti di
condividere in pieno, nonostante le differenze individuali quanto a certe
motivazioni che però nessuno ritiene opportuno approfondire. Solo il quinto,
sorprendentemente, non è d'accordo! Lui preferisce le sedicenni, e anche meno
se fosse possibile. Per quanto...
Un altro, approfittando
di un'interruzione provocata dalle urla ormai disarticolate dei ciclocrossisti
sempre più compresi della loro missione riporta il discorso su binari a suo
parere, ma soltanto suo, meno accademici, riprendendo non si sa per quale
ispirazione un argomento già avviato in precedenza da quelli della prima
panchina, lui assente: la boxe. La nobile arte! La sua caratteristica
principale è che parla in italiano, fluido e persino forbito a momenti, ma
stonato nel contesto. Gli altri. Gli altri, con naturalezza e senza intenzioni
polemiche, ripetono in dialetto i punti salienti del loro interrotto dibattito
a proposito di un argentino e di un venezuelano, tale Figueroa o Quiroga, non è
ben chiaro. Uno dei due ha trentatré anni, l'età del Signore, mica pochi per un
pugile, specie se è passato professionista molto giovane e ha molto combattuto
come usano da quelle parti, spinti dalla fame: quale dei due, questo è il
problema.
Li distoglie
dall'intricata controversia la sfilata di alcuni ragazzotti vestiti in fogge inconsuete,
coi capelli colorati e spettinati ad arte e il viso sporco e pitturato a
mascherare la loro età: straccioni; poi lo sfrecciare di due bambini in vena di
speciali arditezze a filo d'acqua. Uno della compagnia (il primo, che spicca
per i blue jeans nuovissimi con la piega inamidata e gli stivaletti marrone a
punta, da cow boy) quasi controvoglia si alza per rimproverarli: c'è il
rischio, se cadono in un laghetto, che anneghino. Mica esagera. Dove sono le
madri? Mettono al mondo i figli e se ne fregano, ed ecco il risultato. Seguono
commenti sui bambini e sulla gioventù in genere, ma di sfuggita,
meccanicamente: urge tornare alla boxe, argomento molto più interessante.
Ognuno dice la sua e
tutti la dicono contemporaneamente, in un crescendo di confusione che però non
preoccupa nessuno. Discutono sulla decadenza del pugilato italiano, trionfo
della poltroneria e della chiacchiera, ballerine prive di attributi
contrabbandate per tecnici sopraffini, e su quali siano gli incontri migliori.
Sono quelli tra pugili piccoli, è ovvio: quelli sì che picchiano accidenti! Mai
che tirino il fiato, sempre all'attacco, impavidi, velenosi! Dai superwelter
in su, invece, con qualche eccezione per pochi pesi medi, è tutta una lagna. I
massimi poi, meglio lasciarli perdere quelli, sono solo bestioni foderati di
ciccia lenti e noiosi che sparacchiano un paio di pugni a round e già sono
stanchi. Questo non si discute. Nessuno li può vedere, i massimi. Li odiano
addirittura. A parte Cassius Clay, naturalmente.
Nel frattempo,
dall'altra parte del laghetto, uno degli acrobati delle due ruote cade davvero
in acqua. I suoi amici e avversari si fermano e lo stanno a guardare silenziosi
senza muovere un dito, tra sorpresi e ammirati. Poi, quando già il caduto non
si vede più, sprofondato, cominciano uno alla volta a tuffarsi seguendone
l'esempio, col repentino cambiamento di chi scopre finalmente la sua vera
vocazione; poi in tre o quattro contemporaneamente, alcuni prendendo
addirittura la rincorsa con la bici. Nessuno torna a riva, ma la loro scomparsa
non impedisce che anche tutti gli altri bambini, e tutte le ragazze a braccetto
ora più luminose, e le coppiette, gli studenti col libro in mano, i giovani
sgargianti e le mammine con le carrozzine che affollano le due strade attorno
al laghetto e tutto il parco li imitino con rincorse sempre più lunghe e salti
di rara efficacia, anche dal punto di vista spettacolare, ciascuno secondo le
proprie forze senza esitazioni.
È un mosca, un altro venezuelano, quello su cui
converge ora il gruppo delle panchine sempre più assorto nella raffica delle
rievocazioni, uno che conta poco però, una meteora: il suo posto infatti viene
subito rilevato da un messicano, lui pure un mosca ma campione del mondo lui,
che ha rifilato un tremendo KO a un giapponese tarchiato. Quello sì che è stato
un vero KO, da antologia: sembrava morto. Eh sì quello se lo ricordano tutti,
impossibile dimenticarlo. Un coreano invece è morto per davvero. E un
colombiano, un argentino, un paio di neri americani, persino un neoprofessionista
siciliano, uno proprio al primo incontro. Il coreano non l'avrebbe detto
nessuno che sarebbe morto, aveva combattuto fino al gong chiudendo in piedi un
incontro che secondo alcuni aveva forse persino vinto, un incontro bellissimo,
tirato allo spasimo, di quelli che si vedono sempre più raramente, ormai.
Peccato che sia finito male... Càpita.
bello, Luigi, ringrazia tua moglie!
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