Lo spazio
in cui Vermeer colloca le sue figure di schiena è quello in apparenza del tutto
privato, domestico, della maggior parte dei suoi quadri. Se si pensa
all’esclusività di questa scelta e alla ritrosia che sembra caratterizzare
tutta la vita del pittore, alla sua propensione al silenzio e all’interiorità
che, quando si apre verso l’esterno, come nella Stradina e nella Veduta
di Delft, lo fa sempre e solo dall’interno della casa, attraverso una
finestra, è difficile resistere alla tentazione di ricollegarlo alla
contemporanea
affermazione (conquista o ritirata, non si sa) del “foro interiore” come spazio
di libertà personale inalienabile dove il soggetto è prossimo a se stesso senza
mediazioni e intrusioni, e anzi dove come soggetto si costituisce e radica la
propria identità, foro verso il quale tutta la realtà converge per essere
conosciuta e giudicata nel modo più preciso, analitico e oggettivo, come
avviene per quella che la luce, strangolata in un altro minuscolo foro,
proietta sulla parete della camera oscura.
Spazio
chiuso, separato, mondo non ancora intaccato dalla pervasività del sociale, del
politico, dell’ideologico e del religioso, o comunque sempre riconducibile alla
sua integrità originaria al di là delle incrostazioni sovrappostevi: luogo
dell’autonomia, sua ultima e inespugnabile fortezza, che oggi invece sarebbe
colonizzato fino all’ultimo millimetro dall’onnipotenza della comunicazione,
rendendo appunto per questo necessarie sempre nuove leggi per la sua protezione.
Pia illusione ovviamente, allora come oggi, anche se allora qualche motivo in
più per illudersi sembrava esserci; ma appunto per questo illusione ancora
maggiore. Si ignora se Vermeer la condividesse, o se semplicemente considerasse
il privato la dimensione che gli era più consona, oppure se vi fosse costretto
da qualche ossessione o mania da cui i grandi sembra non possano andare esenti,
anche se perfettamente mascherata, così da non lasciare altre tracce che quelle
che la presupposizione induce a cercare, trovandole sempre (i grandi sono fatti
così, punto e basta), tanto più che i suoi quadri possono suonare sia da
conferma che da smentita.
La nostra
lettura ci porta a ritenerla come la più forte delle smentite che passa (o
nasce) attraverso l’assolutizzazione della conferma. È del resto il modo di
procedere dell’ironia, che Vermeer possedeva senza dubbio, e sottilissima. Ciò
che le sue figure infatti fanno o sembrano fare (dipingere, suonare, leggere),
se è ciò che avvicina maggiormente l’individuo a se stesso, tanto da fargli
sperare in una adesione totale, punto per punto, senza spifferi né sbavature,
gli permette tale accostamento solo nella misura in cui lo collega, intreccia e
relaziona a quanto gli sta fuori, nello spazio e nel tempo, al concreto e
all’astratto, ai contemporanei e al passato, storico e artistico.
Torniamo
per l’ennesima volta agli abiti indossati dal pittore nell’Arte della pittura: sono
chiaramente fuori moda ma sgargianti, costumi di scena spettacolari di cui il
più riservato di tutti i pittori riveste quello che allo spettatore potrebbe
sembrare un autoritratto o la rappresentazione più alta e nobile della sua
attività. Anche Rembrandt amava travestirsi, come è noto, ma qui si tratta di
tutt’altra cosa, non solo perché il repertorio degli abiti e degli oggetti
(mobilio, tappeti, tende, finestre) in Vermeer è limitato e tutto in funzione
“realistica” e contemporanea (o quasi: gli abiti potrebbero essere
contemporanei del tempo indicato dalla mappa), quanto perché questi, se
talvolta si raffigura nelle proprie opere, lo fa in modo malizioso e funzionale
alla scena.
Il
soggetto di questo quadro è un pittore che sta dipingendo, forse, un’allegoria della storia, qualcosa che comunque, al pari degli
oggetti disseminati per la stanza fino alla mappa sul muro, ha a che fare col
tempo e lo spazio esterno (tutti portati dentro e, in ogni senso, compresi
nello spazio della pittura, nella peculiare forma di meditazione che
costituisce il suo pensiero).
Ciò
significa, a nostro parere, che questo voltarsi e ritrarsi (farsi il ritratto e
mettersi in disparte) è tutto meno che privato, e quindi che non si esaurisce
come scelta e ambizione del singolo, per quanto con il singolo ovviamente abbia
a che fare: è forse il problema di come essere per proprio conto essendo con
gli altri e viceversa, per non
sopraffare né essere sopraffatto, senza subire né farsi subire (problema già
intravisto in precedenti figure di schiena). E questo esige comunque un atto
“creativo” di assunzione e rielaborazione che mette ciò che ne risulta, il suo
prodotto (il quadro), accanto al resto, anche se per esso propone una
attribuzione di senso che tuttavia, per quanto forte possa risultare, lo lascia
essere, e quindi lo lascia disponibile ad altre attribuzioni di senso che
potrebbero includere quel prodotto stesso. Che non è un brutto modo sia di
stare soli che di stare in compagnia. Appunto quello che non potevano capire
coloro che rappresentavano la figura di schiena sotto forma dispregiativa ecc.,
perché presi sempre e comunque in una logica conflittuale e di classificazione
per ciò stesso gerarchizzante.
Ma viceversa, rappresentandosi di schiena e
quindi negando se stesso, la propria individualità, a favore di ciò che fa, o in ciò che fa, il pittore non è per
questo meno presente: la schiena di Vermeer e il suo abbigliamento, dicono che e come il pittore è nella pittura. Che non rinuncia ad esserci.
Che razza
di storia è allora quella di questo quadro? Questo quadro racconta una storia?
E questa storia, indirettamente, come una rappresentazione in fondo non
potrebbe che fare, non riguarda anche Vermeer? Non ci dice qualcosa anche della
sua storia privata, e in maniera tanto più intensa quanto più, per decifrarla, occorrerebbe
fare lunghe deviazioni? Non potrebbe dirci, questo quadro sulla storia, o la
storia che questo quadro racconta, che ciò che si cerca di rappresentare
direttamente viene per ciò stesso mancato, e che quindi, per poterne dire anche
solo qualcosa, e forse il qualcosa che più preme, bisogna passare per una
rappresentazione che sembra parlare d’altro, come del resto fanno le allegorie?
Non ut poesis pictura, ma necessità
della poesis proprio per la pictura che se ne allontana e ne
rifiuta gli strumenti (la parola, le storie), per essere puro dispositivo.
In deroga
alle buone convenzioni, non posso evitare di concedermi, proprio qui, una
parentesi sulla mia posizione di spettatore che scrive del quadro che ha sotto
gli occhi (nella realtà o riprodotto) o nella testa (cioè sempre, nel momento
in cui scrive, anche quando ha l’immagine accanto o davanti). Anche se posso
identificarmi con il pittore, in particolare con quello inscritto nel quadro,
il mio punto di vista non coincide con il suo; Vermeer ne era consapevole, e
infatti situa a sinistra il punto di fuga (segnalato nella tela dal forellino
lasciato dal punteruolo attorno a cui si legava lo spago usato per tracciare le
linee di fuga), mentre il pittore di schiena è collocato un po’ a destra, con la
testa piegata verso la modella, che al punto di fuga è molto vicina. Magari
anche lui più che guardare la modella cerca nel muro la sorgente invisibile di
tutta la costruzione spaziale, davanti alla quale dovrei situarmi io, se,
rispettando la prospettiva di Vermeer, assumessi la posizione dello spettatore
ideale, posizione che assumo volentieri del resto, dato che questo è l’unico
ideale che certamente sono in grado di raggiungere, risparmiandomi così la
frustrazione di averli mancati tutti.
Inchiodato
da bravo ragazzo in questa posizione, mi ritrovo ad occupare il posto che prima
era di Vermeer, che terminato il quadro lo ha lasciato libero. Ovvero il posto
che il quadro assegna a ogni spettatore ideale e che Vermeer stesso veniva ad
occupare quando lo guardava. Ma non quando lo dipingeva. Quando lo dipingeva
infatti gli era più vicino, pressappoco alla distanza che il pittore di schiena
ha, nel quadro, rispetto a quello che sta dipingendo. Un po’ più vicino alla
tela: quasi dentro. Il che introduce una sfasatura tra pittore ideale e
pittore reale, simile a quella che separa lo spettatore ideale (che assume il
punto di vista del pittore ideale fino a identificarsi a lui: o viceversa, per
essere più corretti) da me in quanto spettatore reale (tanto più che io non
riesco mai a stare fermo, come già lamentavano le suore all’asilo), e
rapportabile a quella tra l’indisciplinato Luigi che guarda il quadro e quello,
spero più disciplinato, che ne parla: che qui ne scrive.
Quando
sono nella posizione ideale che il quadro mi assegna, in qualche modo sono
Vermeer; quando ne scrivo, lo sono in qualche altro modo. Tengo conto di quanto
mi insegna la posizione ideale, di quanto il quadro mi dà a vedere e persino di
quanto sul quadro, sull’autore e sul suo ambiente storico e culturale potrò
venire a sapere, ma in fondo senza esserne condizionato più di tanto, anzi
servendomene spudoratamente per i miei fini e per quelli che il quadro che io,
a parole, sto dipingendo esigerà da me, così che anche il quadro di cui parlo alla
fine sarà, bello o brutto, un quadro mio, del quale sarò diventato l’autore in
modo analogo a quello in cui Vermeer, quello che io chiamo Vermeer, lo sarà
stato del suo. E ne sarò l’autore nella misura in cui il quadro sarà diventato
qualcosa d’altro, un testo, da cui a sua volta l’autore, io, si sarà assentato
pur essendovi in qualche modo presente. Presente di schiena.
Il
pittore di schiena guarda la modella come il sottoscritto guarda gli
appunti sul tavolo alla sua sinistra quando scrive (solo che questi abbassa un
po’ la testa, mentre lui un po’ la alza: il che profuma al contempo di diagnosi
e di sentenza). La modella è di tre quarti, come la Ragazza con turbante
(o con l’orecchino di perla, se si preferisce), ma il suo sguardo è abbassato.
Non guarda, come quella, né il pittore né lo spettatore, non lo chiama in causa
operando la torsione del collo e delle spalle che riporta il suo volto e parte
del petto dal buio in cui erano immersi verso di noi, con quello sguardo un po’
lucido e sgomento di chi ha visto qualcosa e non ce lo può comunicare, uno
sguardo che fa pensare a quello che forse Euridice, mentre ormai invisibile
figura di schiena ritorna nell’Ade, rivolge per un attimo a Orfeo che fissa
attonito il luogo oscuro della sua scomparsa. Vermeer organizza lo spazio del
quadro in sua funzione, creando “una sorta di stretto corridoio che attira
l’attenzione” (Asemisssen, p. 8) su di lei ma ne inonda di luce tutta la
figura, quasi a farne un puro oggetto di sguardo che non guarda a sua volta:
infatti lei si volta come per rispondere a un appello più che per interpellare e,
forse perché colpita negli occhi dalla luce, tiene lo sguardo abbassato, come
ripiegata in se stessa. Come a dire che non è la Musa a chiamare e a parlare: è
l’artista che la chiama, la guarda e, con il suo fare, le parla, interpretando
il suo silenzio, dando voce alla tromba che lei tiene con la destra, scrivendo
nel libro chiuso e senza titolo (contrariamente ai precetti dell’Iconologia
di Ripa) che regge con la sinistra appoggiandolo al petto (al cuore).
Non va
però dimenticato che la ragazza non è la Musa, la rappresenta soltanto, e la
rappresenta come il pittore l’ha pensata e di conseguenza agghindata e
disposta. E così la luce è tutta per lei: lei non la emana, la riceve come
prima destinataria da una fonte assente e la riflette. Il pittore dipinge gli
effetti di questo riflesso e ciò che allude agli effetti sperati da questo
dipingere: la corona d’alloro, la Fama. Che però, possiamo dedurre, non sarà
per lui, che è di schiena, e neanche per chi dipinge l’insieme della scena
(Vermeer), ma solo per l’opera dipinta. E anche se parte della fama si
riverbererà su chi l’ha dipinta, sarà a sua volta un riflesso, il riflesso di
un’opera dipinta come riflesso. Del pittore inscritto resterà solo la schiena,
neanche il corpo, solo il cappello, parte della chioma, una mano illuminata e
l’abito da pittore, un abito da pittore del passato, e quindi lui stesso (nel
futuro anteriore del suo pensiero) uno dei pittori del passato, che rimanda a
un uomo scomparso, un uomo di cui rimane poco o nulla, del quale persino il nome
è incerto (Vermeer, Ver Meer, van der Meer?). Nulla di più, almeno negli
intenti dell’autore, tutto proteso a non lasciare tracce e a confondere quelle
che eventualmente saranno sfuggite alla cancellazione. Di lui veramente non
sapremo mai niente e vedremo sempre e solo le spalle: sapremo solo le sue
opere, magari di attribuzione incerta, di titolo incerto, di soggetto incerto,
e anche di quelle sapremo solo ciò che, pur servendoci di tutte le informazioni
che la ricerca di amanti insospettabilmente acribiosi avranno saputo
recuperare, avremo saputo metterci noi.
Nei
secoli andati molti non apprezzavano Vermeer per l’eccesso di verità, cioè di
somiglianza, della sua opera, anche perché tale eccesso in arte esprime in
genere una volontà di inganno (il trompe-l’oeil). Anche oggi alcune opere sono
considerate meno riuscite (piacciono meno) perché, pur essendo spinta la cura
della verosimiglianza (della rappresentazione) fino a rendere la grana minuta
della luce e della superficie degli oggetti, le scene non sono “naturali”,
“spontanee”, e sono palesemente costruite, artefatte (sono una messa in scena,
appunto: una rappresentazione), pur restando, come le altre (quelle che
piacciono), “enigmatiche”. Quella volta Vermeer non era in vena, o si
applicava, magari per soldi o compiacenza, a un soggetto che gli era meno
congeniale. Peccato.
Senza
voler entrare nel merito del giudizio sulla riuscita delle differenti opere
(che pure è importante), non si può negare che tutte le scene dipinte dal
grande maestro, come tutto ciò che è rappresentato del resto, siano costruite,
con forte intenzionalità, proprio come messa in scena, in alcuni quadri più
scoperta, in altri più celata: velata, come lo è necessariamente la verità per
certi filosofi. Allora, forse, il problema principale che in tutte Vermeer
affronta è proprio quello della messa in scena della verità, cioè della
rappresentazione, di quella forma necessaria di occultamento dalla quale sola
essa può, indirettamente, emergere. Solo che quello di Vermeer sarebbe un occultamento
che prende la forma dello svelamento, della rivelazione: mostro (fingo di
mostrare) come è veramente la realtà, la mostro tutta, senza residui né nascondimenti,
la svelo nella sua essenza fino a far dimenticare che si tratta invece di
pittura. Ma al contempo dissemina nell’opera indizi contrari: è solo pittura,
rappresentazione, per indicare un diverso percorso possibile. Nell’Atelier
questi percorsi, e i rispettivi indizi, sono messi in scena nel modo più
articolato, ma non per questo meno enigmatico. Laddove c’è un di più di
chiarezza, c’è più da indagare.
Il
contatto con la realtà è interrotto solo per essere ripristinato; ovvero: solo
mediante l’interruzione un contatto con la realtà può essere costruito. E solo
con la costruzione la realtà può diventare in qualche modo visibile. In ogni
caso si passa per la storia, in entrambe le accezioni che proprio Vermeer
sembra più di ogni altro sospendere o negare nei suoi quadri: come Storia, e
come racconto o aneddoto (persino nell’Atelier infatti è “ridotta” a
allegoria).
Ma questo non basta: dipingere, fare arte, è anche
qualcosa d’altro, qualcosa di più, che non si esaurisce nella luce della
verità, ed anzi si accresce nel tempo in cui l’opera continua mentre l’artista
è scomparso. Essere artista, infatti, è compiere un sacrificio, lasciare un
dono votivo nel tempio a favore di un nome, della sua sopravvivenza. Offerta di
gratitudine per ciò che si è potuto fare e per la gioia, non importa quanto
dolorosa, che si è provato nel farlo, e desiderio di provocarle, gratitudine e
gioia, in colui che l’offerta dovesse accoglierla, perché è bello essere grati,
e la gratitudine è migliore quando non esige altro scambio che il ricordo del
nome, quando basta a se stessa perché ciò che è donato non viene consumato dal
suo uso e anzi viene dall’uso accresciuto e rimesso nel circolo dei doni, senza
obbligo di controprestazioni o di privazioni, e suscita semmai accrescimento e
intensificazioni.
Il dono
perfetto non sarebbe allora quello anonimo, quello di uno di cui si vede solo
la schiena finché non scompare per sempre dalla vista? Ma l’artista, sembra
dire Vermeer mostrando il pittore di spalle, di fatto agisce sempre come se
così fosse, perché così difatti è, anche quando i moventi apparenti dell’opera
sono altri, e molto più concreti. Se qualcosa resta, è l’opera, l’avere fatto
in luogo di non avere fatto (come ha scritto Ezra Pound), di cui anche il nome
fa parte. In fondo un nome non è niente, specie se chi lo porta non è in grado
di vederselo restituito. Al massimo può immaginare che gli sarà restituito, e
sarà felice ogni volta che immaginerà che gli sarà stato restituito, nella
dimensione non del futuro, che comporta volontà o speranza, ma del futuro
anteriore, che suggella una certezza, un destino, sia pure, qui, solo
immaginato.
Nei tempi
in cui l’uomo comune è vilipeso o misconosciuto e non merita altro che una
rappresentazione generica o di schiena, l’artista, che fa parte ancora di
questa schiera, entra nel quadro e si volge a guardare lo spettatore mostrando
per primo il proprio volto come quello di un individuo. Poi, quando un numero
sempre più alto di persone lentamente acquisisce il diritto (sia pure solo
teorico nella maggioranza dei casi) di essere considerato un soggetto,
l’artista prende a offrire di sé un’immagine sempre più elevata e ad affermare
la superiorità del proprio statuto, che in molti si convincono infine a
riconoscergli: perlomeno a un gruppetto di eletti, mentre gli altri si
arrabattano ancora con il mestiere, che di conseguenza si accaniscono a
indagare e a complicare per riceverne di converso una patente di differenza e
di superiorità, se non altro intellettuale. L’opera comincia a diventare
interessante di per sé, indipendentemente da cosa rappresenta e da chi l’ha
fatta, mentre sempre più persone trovano sempre più interessanti se stesse,
anche se al contempo entrano a far parte di una diversa, e immensa, schiera di
individui che interessano solo per il loro numero e per ciò a cui possono
servire come insieme, per cui a ciascuno dei suoi componenti non resta che il
proprio foro interiore come spazio inviolabile dove rifugiarsi e riconoscersi.
I grandi artisti (Rubens, Van Dick, Velasquez) raggiungono ormai una tale
levatura da poter pensare di pareggiare la statura dei potenti, che si degnano
di accoglierli nella propria schiera, mentre gli artisti si degnano di ritrarli
già immaginando che, diventati soggetti delle loro opere, di essi non resterà
che questa traccia o poco più, mentre il vero empireo, la Fama, sarà riservata
a loro.
È a
questo punto che qualcuno, ancora un artista, torna a voltarsi di nuovo e a
mostrare le spalle. Si veste come gli altri vogliono o si aspettano, accetta
ciò che è acquisito, fa, sembra fare, ciò che tutti fanno, una pittura
accuratissima, come i fijnschilders, ma di genere, e però comincia a
sottrarsi in ciò che più gli appartiene, senza cercare altro, senza ambire ad
altro. Resta in casa, nella sua cittadina, fa poco per distinguersi ma non si
nega a ciò che qualcuno a volte pensa che gli sia dovuto, vive una vita normale
e si dedica a ciò che più gli importa. Se volete sapere qualcosa di me, ammesso
che a qualcuno importi, ci sono le mie opere; ma anche su quelle, e su di me in
quelle, potete fare solo congetture.
Gustav Herling ha scritto: “Di tutte le domande, le
esitazioni, i dubbi (…) il più essenziale è quel suo restare incatenato a
Delft; no, non essere incatenato, essere incatenato suggerisce l’idea di
obbligo, mentre qui si tratta di attaccamento, di amore per un unico posto” (p.
52). Dove sarebbe il mistero? Che bisogno c’è di muoversi? E non c’è neppure
bisogno di amare un posto per restarci per tutta la vita (anche se aiuta):
basta una casa, una stanza con uno sgabello davanti a una tela, con la luce che
entra da una finestra nascosta a inondare degli oggetti su un tavolo, una carta
geografica, un lampadario, un paio di sedie e una ragazza agghindata come una
musa leggermente sfasata.
Questo Testo è l'ultima parte del cap. 8 (e penultimo) dell'ebook Figura di Schiena, che è possibilie acquistare qui:
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caro Luigi, rileggendo qui un brano del tuo libro, mi vien da pensare che Figura di schiena è veramente un bel testo, errabondo nelle idee scatenate dalle immagini e al tempo stesso a loro incatenate. Un doppio movimento dal quale forse deriva il fatto che i tuoi ragionamenti sull'Allegoria della pittura mi suggerisce, ora che ne rileggo un brano, una nuova idea alla quale non avevo pensato prima: forse non bisogna cercare nelle Avanguardie Artistiche del '900 quella indipendenza della forma o del colore rispetto all'oggetto e alla materia, sulla base della quale per esempio è concepito il design contemporaneo del colore e della texture (indipendente da quello dell'oggetto), forse bisogna cercarla nelle "rappresentazioni", come quelle di Vermeer. Bravo! Un abbraccio, aurelio
RispondiEliminaGrazie Aurelio. Ricambio l'abbraccio.
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